world of darkness

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sabato 15 giugno 2013

Io sono un gatto (Natsume Soseki)

Originariamente postato sul vecchio blog il 22 aprile 2013

Ciao!!
Perché no? Oggi posto un altro bel commento a un libro, tanto ne ho già pronti un po’, tanto vale pubblicarli prima di accumularne miliardi :)  Per quanto mi riguarda, io ho finalmente ripreso a lavorare (ma il lunedì mattina è libero, meno male, visto che poi finisco tutti i giorni alle otto e arrivo a casa dopo le nove, che bello!! Ma ci accontentiamo), anche se per il momento mi limito a incrociare le dita e a sperare per il meglio, visto che ancora non c’è nulla di sicuro…che tempacci!!
Ma veniamo finalmente al libro in questione. Allora: io sono un gatto è un libro giapponese, molto molto particolare e completamente fuori dall’usuale. Come è poi riportato anche nel commento che allego sotto, inizialmente questo testo non era per me ma, visto che la persona a cui l’avevo regalato 1. ci avrebbe messo ottanta secoli a finirlo già in circostanze normali e 2. dopo che le era stato detto che il finale era “negativo” non l’avrebbe finito di certo, me lo sono ripreso e me lo sono letto io per benino, circa in una settimana.
Un bel libro, che lascia il segno e non si dimentica, che fa riflettere. Un libro adatto agli amanti dei gatti; ma a quelli veri, non a coloro che si emozionano soltanto quando vedono i cuccioli. Questo genere di individui è il peggiore di tutti, per quanto riguarda l’approccio con gli animali…
Un libro che sa anche essere noioso, ma soltanto per dimostrare quanto sia sconclusionato l’essere umano, perché questo gatto, che un nome non ce l’ha, osserva e osserva l’essere umano e ce ne dà una descrizione incredibilmente fedele … consiglio quindi a tutti di fare attenzione quando trovate un gatto nelle vicinanze (a maggior ragione per coloro che non li amano, brutte bestie –>[ovviamente riferito a chi non ama i gatti, non ai gatti stessi. NDR]), perché sicuramente vi sta osservando, e c’è una buona probabilità che nasconda carta e penna per annotare il vostro comportamento e, per quanto riguarda chi fa parte della massa di pecoroni che oggi abbonda, le loro immense idiozie.
E ora il commento del testo:


IO SONO UN GATTO

Di Natsume Soseki


Questo, posso dirlo con certezza, non è un libro come un altro.
Si svolge in un contesto territoriale diverso dall’abituale (Giappone), in un’epoca diversa da quella in cui viviamo (gli inizi del ‘900), e persino il narratore è diverso dal solito, perché questo è un gatto.
Ma soprattutto è diverso il modo di raccontare una storia, perché di una storia vera e propria non si tratta.
Questo gatto narratore, che per tutto il corso del romanzo non ha un nome, non ci presenta una trama abituale fatta di inizio –svolgimento –fine, ma una serie di aneddoti (a volte interminabili) di vita quotidiana relativi al luogo in cui vive, alle persone con cui vive e a quelle che le circondano.
Sì, perché questo gatto grigio e giallo non si sofferma più di tanto a parlare dei suoi simili, se non per un paio di questi verso l’inizio, ma studia l’essere umano, nelle sue varie e assurde sfaccettature e ce lo mostra così com’è, nudo e crudo, con ironia, acume e scetticismo.
Il nostro eroe comincia raccontandoci che da cucciolo è finito in qualche modo nei pressi di un’abitazione, nella quale continuava a entrare alla ricerca di cibo, nonostante la serva della famiglia a cui la casa apparteneva lo sbattesse fuori ogni volta che lo beccasse.
È infine il professor Kushami, il padrone, a dare disposizioni perché il gatto venga lasciato entrare, se proprio lo vuole.
Da quel momento in poi la casa del professore diventa anche quella del gatto.
Ma se si crede che così il poverino abbia trovato una famiglia si commette un grosso errore: insomma, il micio vive lì, ma non è che sia visto proprio di buon occhio, per di più le tre figlie di Kushami gliene combinano di tutti i colori, tra cui infilarlo nel forno…fortunatamente spento, almeno immagino.
Se posso aprire una piccola parentesi personale, io invece infilerei nel forno quei bambini che danno fastidio ai gatti…acceso in quel caso, però.
Bene, torniamo al libro senza dimostrare come al solito di essere una perfida strega fiera di esserlo.
Innanzitutto, questo gatto simpatico, ci presenta un po’ il suo padrone: Kushami è un professore, insegna inglese in un liceo vicino, ma è un tipo veramente bizzarro. È un misantropo, un disadattato, un pigrone e un balordo di prima categoria.
Tenta sempre di fare qualcosa come comporre versi o dipingere, dipende dalla passione del momento, ma è sempre un gran disastro. Per di più pare che si porti sempre a letto dei libri, ma che poi non legga nemmeno mezza riga. La sua pare quasi una nevrosi: ha bisogno di avere un libro con sé quando va a letto come qualcun altro potrebbe aver bisogno di sentire un rumore particolare.
Kushami è anche una persona molto ingenua, fondamentalmente è stupido e chiuso nel suo mondo, irritabile e fuori di melone, ma infine il gatto lo apprezzerà più di molti altri.
Come dicevo inizialmente, questo è un libro strano, perché non presenta al lettore una storia convenzionale, anzi, una trama proprio non esiste.
Fondamentalmente, questo testo si basa sulla conversazione, su lunghi dialoghi intrapresi sempre tra il professore e amici o vecchi studenti che vengono a trovarlo, oppure con la moglie.
Per l’appunto, i personaggi principali di questo estratto di vita quotidiana sono la moglie di Kushami, di cui non sappiamo mai il nome, viene semplicemente chiamata “la padrona”, l’amico blaterone Meitei, il riccone e vicino di casa, cioè il signor Kaneda, con la moglie nasona e la figlia viziata, i vecchi studenti Kangetsu e (in minor misura) Tofu, più qualche altro pazzo scatenato che ogni tanto finisce per far visita al professore.
Ogni tanto abbiamo l’immenso (e come no!) piacere di notare la presenza dei tre mostri, ovvero le figlie di Kushami, o di qualche sciatto vicino che si lascia corrompere dal riccone perché dia fastidio al prof.
Molto spesso, i lunghi capitoli si basano sulle conversazioni tra il professore, Meitei e Kangetsu.
Il primo ne ha sempre una (lui soffre di stomaco, ma sostiene che nessuna medicina gli faccia mai niente), Meitei sproloquia all’infinito e non fa altro che inventarsi favole, Kangetsu è uno studioso che si dedica alle cose più bizzarre e fondamentalmente inutili: siccome lui è un fisico, decide di esporre brillantemente la teoria della dinamica dell’impiccagione, oppure passa le sue intere giornate all’università a limare biglie perché gli servono per i suoi esperimenti relativi al dottorato su (da pagina 210 del testo) “l’effetto dei raggi ultravioletti sulla funzione galvanica del globo oculare della rana”. Insomma, una cosa importantissima ai fini della scienza e dello sviluppo.
In tutto questo contesto strampalato, il nostro amico gatto è un osservatore attento, che riporta fedelmente tutto ciò che sente e vede, e che spesso commenta con ironia ed efficacia l’idiozia umana, la nostra capacità di complicarci la vita con inezie e, secondo me, il nostro infinito parlare a vanvera.
A me è capitato, leggendo queste pagine, di dirmi “mamma mia, ma questi non fanno altro che blaterare, blaterare e blaterare, parlano di tante di quelle cavolate inconcludenti!!”, per poi rendermi conto che, in effetti, chi è che non lo fa? Tante volte parliamo davvero di cose stupide, inutili, banali, senza senso. E io sono una persona che, piuttosto che dire cose tanto per far prendere aria alla bocca, preferisce restare in silenzio.
Ma comunque capita a tutti, solo che parecchi, come l’egregio signor Meitei, lo fanno senza ritegno e senza mai chiedersi per quale diavolo di motivo aprano la bocca.
Dopo aver fatto questo genere di riflessioni, solitamente voltavo lo sguardo, con sospetto e interesse, verso i miei gatti, scrutandoli come a voler indagare che non nascondessero da qualche parte carta e penna.
Eh eh … a parte gli scherzi, viene quasi da chiedersi se queste bestiole non ci vedano veramente così, come dei poveri cretini, masochisti, sconclusionati ed egocentrici.
Cosa di cui non mi stupirei più di tanto.
Comunque; in questo contesto bislacco, ci viene presentato con estrema maestria il Giappone di cento anni fa, che iniziava in quel momento ad uscire dal suo isolamento, spiluccando qua e là i primi accenni dell’Occidente. Un Giappone che piano piano cominciava a perdere la sua identità, anche se questa è ancora presente.
Sì, perché come c’è il signor Kaneda, il ricco vicino uomo d’affari, o Suzuki, il leccapiedi che cerca di farsi strada nel mondo del business in tutti i modi possibili (generalmente facendo tutto quello che gli dice Kaneda, e questo di solito è andare a spiare il professore –visto che Kaneda lo odia, NDR- prendendosi ampiamente gioco di lui), c’è anche un personaggio come Dokusen, che spara massime zen ogni tre per due, anche se fondamentalmente parla a vanvera anche lui.
Posso dire chiaramente che questo non è libro adatto a tutti, ma solo a chi possieda un ampio spirito d’osservazione e una certa sensibilità; nonché anche l’amore per i gatti. Non si può essere superficiali e approcciarsi a questo libro, altrimenti si rischia di mollarlo dopo la prima pagina.
Perché certo che tante volte i discorsi del professore e combriccola si fanno noiosi, ma credo proprio che sia un fatto voluto: questo mostra l’assurdità dell’essere umano, in che cosa si perda ogni giorno, quanta importanza dia, per tutta la vita, a cose stupide e di poco conto, senza mai soffermarsi sulle riflessioni che potrebbero servire veramente, senza mai farsi umile (e non far finta di essere umile, che è diverso; NDR) senza rendersi conto che un singolo uomo non è il centro dell’universo.
Insomma, credo che la morale possa essere che sarebbe meglio vivere con la semplicità di un gatto, saper vedere le cose come quest’ultimo, che forse nota che cos’è davvero importante. O almeno, quel che c’è sul serio da vedere.
Ora ci sarebbe da raccontare il finale del libro; di solito lo faccio, ma in questo caso eviterò.
Questo per un semplice motivo; devo precisare che questo libro, sebbene l’avessi comprato io, inizialmente non doveva essere per me. L’avevo preso come regalo natalizio (per il 2011) per mia nonna, grande gattofila, ma si dà il caso, tanto per cominciare, che sia anche una grande polentona nella lettura.
Ma si dà anche il caso che questo libro sia stato preso in mano da mia zia, che, bisognerà saperlo, è una di quelle persone che il signor Stephen King definisce “orribili individui a cui accadrà qualcosa di brutto”, ovvero quelle che vanno a leggere il finale del libro in anticipo.
Mia zia ha detto a mia nonna che il finale era “terribile”, di non leggerlo assolutamente.
Così, ovviamente, me lo sono ripreso e l’ho letto io.
Solo che quel “terribile” mi ha pulsato nella mente per tutto il tempo della lettura, cosicché questa è stata più che altro una corsa sfrenata verso l’ultima pagina per la grande curiosità.
Ora, come si sa io adoro le tragedie, solo che prediligo quando colpiscono gli esseri umani, anche perché ogni tanto se le meritano. Per gli animali mi dispiace già di più.
Il finale, poi, non è così “terribile”. È soltanto triste.
Il motivo per cui non voglio rivelarlo apertamente, dicevo, è semplice: io morivo di curiosità in proposito, ma avrei dato di matto se l’avessi scoperto prima di giungere a pagina 466, ovvero l’ultima. Non volevo leggere nemmeno una parola in proposito, volevo che arrivasse così come deve, al momento giusto.
Una cosa però posso dirla: in questo finale, lasciamo il gatto che ritrova la pace, e che rende grazie.
Beh, che altro dire? Adoro questo libro! Perché apre delle porte nella mente, fa vedere tante cose, che normalmente forse non si vedono, e ci mostra la vera natura dell’uomo.
Non ci sono eroi, nessuno arriva a salvare la situazione o fa quel che sarebbe giusto fare, ognuno conduce la sua vita, ognuno fa quel che vuole, quel che gli suggerisce la sua natura.
I personaggi di “Io sono un gatto” sono dei semplici esseri umani in carne e ossa, con la loro vita quotidiana, spesso strampalata, niente di più.
Perché poco importa se epoca e luogo sono diversi, in fin dei conti, di seriamente diverso c’è davvero poco: l’uomo è sempre sconclusionato, egocentrico, stupido, egoista, masochista e piagnone. Si vede che non ho alcuna fiducia nel genere umano?
Sarà per questo che prediligo quelle che io chiamo le streghe, ovvero quelle persone diverse dagli altri, che grazie a chiunque ci sia da ringraziare (direi queste stesse persone) hanno un cervello che funziona e non si uniformano alla massa, dalla quale non vengono viste di buon occhio.
E ovviamente, con le streghe, ci sono sempre i gatti.
L’unica cosa che mi ha lasciata un po’ perplessa è stato il commento de L’Espresso, riportato sulla copertina stessa del libro, dove si dice che il gatto protagonista sarebbe nero.
Insomma, leggere con attenzione e non sparare cavolate? Ah già, meglio seguire la lezione dello stesso gatto protagonista: l’uomo parla a vanvera.
Il bello è che più volte il micio fa presente di essere grigio e giallo. Che poi immagino che con “giallo” intenda beige.
Anche il mio gatto è grigio e beige :D :D:D:D
In conclusione, posso aggiungere che questo libro è stato pubblicato per la prima volta in Giappone nel 1905, ma la prima edizione italiana risale soltanto al 2006, della Neri Pozza.
Per finire, rendo grazie al gatto senza nome che conduce questa narrazione. Rendo grazie all’autore, morto nel 1916.

VIVA I GATTI!!

*lady in blue*

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