world of darkness

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mercoledì 30 luglio 2014

COLD JULY 3: La sposa (Jillian)

Ciao!!
C'è da dire che il titolo apparentemente strambo di questa raccolta sta acquisendo sempre più senso, viste le temperature praticamente autunnali, ma suppongo siano dettagli. E sì che a Barcellona c'erano trentasette gradi! I misteri del clima ...
Ma veniamo a noi: ultima puntata di luglio. Oggi presento un nuovo racconto, scritto nella prima metà del mese di maggio. Si tratta decisamente di una Black Story, anzi, onestamente penso di poterla definire davvero molto pesante, ma un'idea è un'idea, e non si scarta perché potrebbe non essere accettata.
La cosa strana è l'unione di due diversi spunti avuti in momenti molto distanti, che ha dato vita al racconto.
Il primo, piuttosto vago e astratto, mi suggeriva di scrivere una storia dai toni dark intitolata, per l'appunto, "la sposa", ma non avevo ancora in mente dove sarei andata a parare. L'idea era stata quindi mollata lì, quasi nel dimenticatoio. Il secondo spunto, nato separatamente, mi incalzava a prendere in considerazione un certo argomento che, per me, è grande fonte di rabbia. Non voglio anticipare nulla in proposito, sarà sicuramente tutto chiaro durante la lettura. I due spunti si sono quindi fusi senza che ci pensassi, natuarlmente.
Avevo anche la fissazione di chiamare Jillian la mia protagonista, e spero di aver dato una spiegazione plausibile al fatto che questo nome appartenga a una ragazza dell'est.
Non lasciatevi ingannare dal primo paragrafo (che sembrerà assolutamente lontano anni luce dalle mie corde e dalla mia solita narrazione), la storia, nel progredire, si concentrerà su contenuti molto forti.
Questo è un racconto che comincia con un sogno a occhi aperti e si conclude con un altro, ma ci sarà qualcosa a renderli molto diversi, seppur accomunati.
Sono sicura che ci fosse anche qualcos'altro che volevo dire a proposito, ma mi è allegramente scappato di mente, per cui lasciamo perdere...
Anche in questo racconto il freddo, ovviamente, sarà un elemento chiave.

Buona lettura e attenzione ai contenuti pesanti. MOLTO pesanti.




LA SPOSA (Jillian)

Era passato tanto tempo dall’ultima volta che Jillian aveva fatto quel sogno a occhi aperti.
Davvero tanto tempo.

I capelli neri, ricci e lunghissimi, le cadono con grazia ai lati del viso, fino a posarsi soffici e maestosi sull’abito bianco che indossa. Il suo abito da sposa.
Un sorriso radioso le incornicia il volto e fa risplendere come non mai i suoi occhi azzurri come zaffiri. Le mani e gli avambracci sono coperti da lunghi guanti bianchi di pizzo, sui quali è ricamata una fantasia floreale. Tra le dita esili, il suo bouquet.
Ne sente il profumo e ne è inebriata.
Sul capo non indossa un velo, ma un piccolo diadema d’argento, talmente brillante da apparire quasi bianco.
In definitiva, è tutto bianco intorno a lei: lo è la navata della chiesa, l’altare che l’attende sullo sfondo. E anche il suo spirito sembra immerso in una bianca luce di gioia e di speranza.
Ogni cosa, sul suo cammino, non fa che risplendere.
E come potrebbe essere diversamente?Quello è il giorno più felice della sua vita.
Suo padre le è accanto, sorridente, anche se il suo sorriso sembra celare un lieve rammarico, una punta di amarezza e malinconia.
L’uomo cammina con lei, accompagnandola lentamente verso l’altare.
Jillian comprende il suo stato d’animo: una volta raggiunta quella destinazione ormai imminente, lei smetterà di essere la bambina di suo padre, e sarà effettivamente la compagna di un uomo.
Jillian lo capisce, ma non riesce a soffermarsi su quel pensiero se non per pochi secondi: è troppo felice per fare propria la sofferenza altrui.
A ogni passo, il cuore sembra accelerare la corsa nel suo petto ed è come se un po’ andasse a ritmo con la dolce marcia nuziale che le allieta l’udito.
Jillian immagina che anche il suo cuore si sia fatto bianco, tanto lo sente puro e traboccante di gioia.
Due piccole damigelle (anch’esse vestite di chiaro) le sorreggono lo strascico del lungo abito e camminano seguendo il suo ritmo.
Sulle panche della chiesa, parenti e amici la osservano estasiati e felici per lei. Jillian giurerebbe che qualcuno di troppo sensibile e troppo commosso stia già piangendo.
Anche a Jillian viene quasi voglia di piangere tanta è la sua emozione; le viene da piangere e da ridere al tempo stesso. È una strana sensazione, ma è la più bella che abbia mai provato.
Non solo si sente felice, ma anche libera, perché ama ed è riamata, perché il suo sogno è appena cominciato.
Il dolce profumo di fiori non giunge soltanto dal bouquet che stringe tra le mani lievemente tremanti. L’intera chiesa è colma di fiori, quasi anch’essi volessero celebrare il suo giorno, la sua nuova vita, la sua immensa gioia. Sono tutti fiori bianchi.
Il profumo è così avvolgente, così stranamente comprensivo che quasi le provoca un brivido.
Ma nulla è in grado di farla rabbrividire come quella figura che l’attende in fondo al suo cammino, girata di spalle.
Davanti all’altare, il suo futuro marito è lì per lei.
Jillian sente che il cuore le trabocca d’amore in modo quasi insopportabile, eppure non rinuncerebbe mai a quell’emozione.
Presto sarà da lui, presto gli stringerà le mani e lo guarderà negli occhi.
Presto coronerà il suo sogno, divenendo sua moglie.

Avverrà.
Un giorno.
*

Jillian era nata nel 1987, in un piccolo paese dell’Ucraina confinante con la Russia. I suoi genitori l’avevano battezzata con un nome inglese come segno di portafortuna, per augurarle una vita prospera e nel segno dei suoi desideri.
Jillian aveva trascorso la sua infanzia tra feste allegre e vestiti variopinti, crescendo al ritmo di canzoni tradizionali, che sapevano di favola.
Tante volte aveva danzato e cantato su quelle melodie, in infinite occasioni vi aveva lasciato correre sopra la sua fervida immaginazione di bambina.
Aveva volteggiato, Jillian, nei suoi abiti colorati, e nel mentre aveva riso; riso fino a farsi venire le lacrime agli occhi.
I suoi splendidi capelli neri avevano volteggiato con lei.
Jillian era sempre stata felice durante l’infanzia, perché era in grado di sognare e immaginare tante cose.
Teneva tanti sogni custoditi in sé, ai quali ricorreva quando qualcosa non andava come previsto, oppure quando voleva allontanarsi dalla realtà.
Di solito si trattava solo di qualche minuto, sufficiente per ridarle il sorriso nei momenti di tristezza.
Ma quello, senz’altro, era il suo sogno preferito: Jillian aveva visto e rivisto un’infinità di volte, nella sua mente, il giorno del suo matrimonio così come se lo augurava.
Per lei era una visione splendida, quasi paradisiaca, e le appariva talmente reale da essere arrivata a credere che fosse una sorta di premonizione, e lei, in fondo, lo sperava.
In questa fantasia Jillian vedeva sempre il suo sposo girato di spalle, perché non riusciva proprio a immaginarsi il suo volto, ma spesso di era domandata come sarebbe stato. Jillian aveva voglia di crescere ed era impaziente di conoscere l’uomo del quale si sarebbe innamorata.
Jillian era certa che avrebbe vissuto per l’amore e si sarebbe accontentata soltanto di quello.
Poi, un giorno, era cambiato tutto.
Entrambi i suoi genitori avevano perso il lavoro e le giocose feste si erano trasformate in carestia. Non solo loro, ma tutto il paese si faceva via via più povero.
Jillian iniziò a indossare un unico abito, fino a quando non fu troppo grande per starci dentro: ma anche quello nuovo era vecchio e consumato, perché era appartenuto a qualcun altro prima di lei; forse a un’intera generazione.
Jillian non era più così felice quando compì tredici anni, doveva ammetterlo, ma tutto sommato andava avanti come poteva: spesso non avevano di che sfamarsi, ma lei non voleva arrendersi. Non voleva rinunciare alla vita e, soprattutto, non voleva rinunciare ai suoi sogni.
Jillian strinse i denti e affrontò un giorno dopo l’altro, sicura che in qualche modo quell’incubo dovesse finire, che tempi migliori sarebbero arrivati.
Fu con questa speranza nel cuore che, a diciannove anni, affrontò quel lungo viaggio.
L’attendeva una nuova terra, un nuovo popolo e una nuova lingua ma, soprattutto, un nuovo lavoro.
Non era il primo che svolgeva, ma nel suo paese aveva sempre lavorato troppo e per pochi soldi, non riuscendo a racimolare abbastanza per sé e la famiglia.
Invece sembrava proprio che in quella sua nuova casa le cose sarebbero andate diversamente.
Molto, molto diversamente.
E sarebbero cambiate soltanto in meglio.
Un giorno si era presentato un uomo a casa sua: alto, ben vestito, dai lineamenti piacevoli.
Sicuramente una brava persona, si era ritrovata a pensare la ragazza, senza nemmeno osservarlo con attenzione. Ma le era bastato focalizzarsi su quel suo sorriso gentile, su quei suoi abiti da persona per bene, sul tono sicuro e caldo della sua voce.
Jillian non ne aveva mai dubitato.
L’uomo aveva parlato prima con suo padre, poi con entrambi i suoi genitori e, infine, aveva voluto tenere un colloquio anche con lei personalmente.
Le aveva rivolto qualche domanda e Jillian non vi aveva visto nulla di male all’interno.
Le aveva semplicemente chiesto se era disposta a lavorare sodo, a impegnarsi per apprendere un nuovo mestiere che avrebbe potuto farle fare strada.
Lei aveva risposto di sì, accompagnando la sua affermazione con un deciso movimento del capo, come a voler intensificare il proprio assenso.
Se quell’uomo le stava proponendo un impiego, aprendole finalmente una via d’uscita dalla miseria in cui era precipitata da anni, lei non si sarebbe certo fatta sfuggire l’opportunità.
Non le importava di dover faticare, non le importavano i sacrifici.
Bastava poter finalmente intravedere una scintilla nel buio.
Non esitò nemmeno quando le fu chiesto se sarebbe stata disponibile a trasferirsi in un altro paese per intraprendere questo nuovo lavoro.
L’uomo ben vestito sembrò soddisfatto.
Solo dopo aver incassato il suo sorriso e le sue congratulazioni per il grande senso di responsabilità che dimostrava, Jillian gli domandò in che cosa sarebbe consistito questo impiego.
Niente di difficile, all’inizio. Le aveva risposto il tale. Avrebbe iniziato facendo le pulizie in un grande albergo, poi, qualora si fosse dimostrata sveglia e capace, e avesse appreso la nuova lingua senza difficoltà, avrebbe potuto fare da traduttrice, sempre nello stesso posto. C’era molta gente ucraina che si fermava in quel paese. Aveva aggiunto infine.
Jillian era stata più che felice, addirittura raggiante nell’accettare l’offerta.
Sarebbe partita dopo tre giorni e lei non stava più nella pelle.
Sua madre, al contrario, aveva passato quegli ultimi giorni a piangere e anche suo padre pareva molto cupo in volto. Sono tristi all’idea di lasciarmi andare via, così lontana da loro. Aveva pensato la ragazza più volte e le si era stretto il cuore al pensiero dell’affetto dei suoi cari.
Pensò che anche a lei avrebbe fatto molto male star loro lontana, ma presto le cose sarebbero migliorate, e allora non ci sarebbe stato più posto per le lacrime.
Forse, se tutto fosse andato per il verso giusto, Jillian avrebbe portato a vivere con sé i genitori nel suo nuovo paese, dove forse avrebbero potuto invecchiare serenamente.
Quando partì, Jillian lo fece con il sorriso sulle labbra, anche se a stento riuscì a contenere il pianto.
Fu straziante salutare la sua famiglia, soprattutto perché sua madre non aveva fatto che stringerla e singhiozzare.
E quei singhiozzi l’avrebbero poi accompagnata per tutto il tempo del viaggio.
Ma Jillian aveva sorriso lo stesso, perché voleva pensare al futuro.
Infine fu fatta salire su un camper; era ben tenuto e pulito, e con lei avrebbero viaggiato altre ragazze, tutte più o meno della stessa età. Qualcuna era anche più giovane, apprese più tardi, intorno ai quindici anni. Di più vecchie ce n’erano poche e, comunque, lo erano relativamente: la maggiore aveva ventidue anni.
Nessuna di loro sembrava conoscersi e, molte, non si preoccuparono di stringere amicizia con le altre. C’era qualcosa, però, che le accomunava tutte: quella scintilla di speranza negli occhi, che certamente era contaminata dalla paura dell’ignoto, ma che nulla avrebbe potuto spegnere.
Quelle ragazze si auguravano tutte un futuro migliore, lontane dalla miseria.
Tutte quante speravano di realizzare i loro sogni, in quel nuovo paese.
Anche Jillian lo sperava per sé.
Con il cuore a mille si rifugiò in un cantuccio, restando per conto suo.
E sognò.
Si concesse di rivivere il suo sogno preferito, quello relativo al giorno del suo matrimonio.
Fu l’ultima volta.

*

Di quelle ragazze che viaggiarono con lei verso la nuova destinazione e la nuova speranza, Jillian finì per conoscerne soltanto un paio, ma avvenne dopo, solo alla fine del viaggio.
E alla fine dell’illusione.
Perché si capì subito, appena dopo l’arrivo, che non c’era alcun lavoro promettente ad attendere le ragazze.
In fretta e furia erano state fatte vestire con abiti succinti e di dubbio gusto (e Jillian non avrebbe mai dimenticato quegli occhi famelici che la scrutavano mentre era stata costretta a spogliarsi di fronte a diversi uomini), poi condotte a vari angoli di strada.
Avevano detto a ciascuna di loro di non provare a scappare, perché, anche se le ragazze non lo vedevano, erano tutte sorvegliate.
Quegli uomini era bruschi, persino sprezzanti nei loro confronti. Parlavano quasi tutti in ucraino, eccetto un paio, che dovevano avvalersi della traduzione simultanea dei compagni; presumibilmente gente del posto, legata al traffico di fanciulle provenienti dall’est.
La speranza negli occhi delle malcapitate si era spenta poco a poco, a chi prima e a chi con un po’ di ritardo; alcune piangevano (e furono punite a suon di ceffoni per questa loro debolezza), altre avevano talmente paura da non riuscire neanche a muoversi.
Sembrava però che ognuna di loro avesse capito senza difficoltà che cosa le aspettasse.
Jillian invece no.
Aveva paura, anzi, era terrorizzata, ma non riusciva a realizzare la gravità dei fatti e, di conseguenza, a inquadrare gli avvenimenti.
Come sotto choc attese che l’ultimo viaggio in auto finisse e si rifiutò di fare caso a quella mano che si trastullava tra le sue gambe, finendo per non reagire.
Pensò a quelle dita bramose e impudiche e a quegli ansiti pronunciati come a un terribile incubo e quasi si convinse che presto sarebbe tutto scomparso nell’oblio, perché alla fine, per quanto atroci siano certi sogni, la luce arriva sempre a liberare la mente.
Ma poi l’auto si fermò a un angolo poco illuminato; l’uomo che le sedeva accanto le consegnò un foglietto spiegazzato.
Infine ci fu soltanto silenzio per qualche secondo, ma solo fin quando l’accompagnatore non le tirò una sberla.
<<Scendi>> comandò irritato. Jillian si toccò la guancia offesa; la sentì calda e quasi pulsante.
E pulsante era anche la rabbia che iniziava a farsi strada in lei, convincendola che quello non era affatto un orribile incubo.
Era ancora peggio, perché tutto era vero.
Avrebbe voluto saltare addosso a quell’individuo che puzzava di marcio, avrebbe voluto cavargli gli occhi, ma aveva troppa paura.
Si sentiva persa perché era lontana da casa, perché niente sarebbe andato come aveva sperato; fu in quell’istante che comprese che non sarebbe più stata in grado di sognare.
<<Che cosa faccio qui?>> domandò con un filo di voce, sempre tenendosi la mano sulla guancia.
<<Batti>> osservò l’altro laconico <<lì c’è scritta ogni cosa che devi sapere>> e detto questo indicò il foglio che Jillian ancora teneva in mano e che quasi aveva dimenticato.
La ragazza non fece in tempo ad abbassare di nuovo lo sguardo su di esso che il primo ordine spietato che aveva ricevuto si ripeté, abbattendosi su di lei come un nuovo schiaffo.
<<Scendi>>.
Tremante e terrorizzata, Jillian obbedì. Sapeva che né quella notte né quelle a venire sarebbero state piacevoli, ma non voleva passare un minuto di più in macchina con quel tale.
Un attimo prima che chiudesse la portiera la mano dell’uomo le ghermì il polso come un’aquila afferrerebbe la preda. Jillian sbarrò gli occhi e si irrigidì.
L’uomo si era sporto dal sedile posteriore dell’auto verso di lei e ora il suo volto era vicinissimo a quello della ragazza che, però, non alzò lo sguardo per incontrare i suoi occhi.
Sentì solo il suo sussurro, e le sembrò il sibilo di un serpente.
<<Poco prima dell’alba vengo a riprenderti>> e, non appena terminò la frase, allungò di nuovo la mano (quella che non stringeva il polso di Jillian) e gliela insinuò tra le gambe, palpandola per qualche secondo.
Jillian capì che cosa sarebbe successo quando lui fosse tornato a prenderla, ma in fondo non aveva tutta questa importanza, perché, prima di lui, l’avrebbero fatto altri.
Non appena la presa su di lei si allentò e l’uomo ritirò la mano, Jillian sbatté svelta la portiera.
Quando si ritrovò da sola, per un breve e fuggevole istante provò sollievo.
Ma poi alzò lo sguardo e, in fondo alla strada, sul lato opposto, notò una delle altre ragazze che avevano viaggiato con lei.
Anche a distanza le sembrò di leggere i suoi pensieri, di annusare il suo terrore e la sua disperazione. In un attimo, quasi si trattasse di una malattia contagiosa, provò tutto quanto anche lei.
Mentre gli occhi le se appannavano di lacrime e il freddo della notte di inizio primavera le colpiva le gambe nude, dandole la pelle d’oca, si posizionò sotto un lampione e dispiegò il foglio che teneva ancora stretto in mano.
Lo lesse tra le lacrime e i singhiozzi e, a ogni riga, avrebbe voluto fermarsi, ma sapeva di non poterlo fare. Avrebbe dovuto imparare a memoria quel contenuto: per ogni servizio un prezzo diverso e, capì subito, non si sarebbe potuta permettere di sbagliare. C’era anche riportata la traduzione in ucraino delle frasi più comuni che le sarebbero state rivolte.
Per un momento provò l’impulso di scappare, poi ricordò quelle parole, chiare e nitide come se qualcuno le avesse pronunciate in quel momento al suo orecchio.
Non si poteva fuggire, erano tutte controllate. E Jillian non lo dubitò.
Stava ancora piangendo quando quell’auto si accostò, illuminandola con le sue luci come occhi di fuoco.
Il finestrino si abbassò.
Jillian sentì i suoi sogni morire uno a uno, quasi seguissero il vetro che si abbassava e spariva.
Poi vide quello sguardo, quel sorriso malevolo e ascoltò quella voce parlare in una lingua sconosciuta.
Afflitta abbassò lo sguardo sul pezzo di carta che ancora stringeva e individuò che cosa le fosse stato domandato.
Il servizio completo, e il suo relativo prezzo.
E così i suoi sogni non solo morirono, ma si sgretolarono all’istante.

*

In quegli ultimi anni, a Jillian era capitato di domandarsi se i suoi genitori sapevano per che cosa fosse partita. Ricordava fin nei dettagli le lacrime e i singhiozzi di sua madre, il volto scuro e spento di suo padre, ma non poteva credere di essere stata ceduta a quell’infamia a cui ormai era incatenata.
Da un po’ li sentiva abbastanza regolarmente; ciò non era avvenuto nei primi tempi ma, una volta diventata di casa nel giro della prostituzione, le era stato permesso di contattare casa.
Ovviamente, le regole erano ben determinate.
Jillian aveva sempre mentito, fingendosi felice, e mai le era passato per la testa di far trasparire un cenno del suo disagio durante quelle telefonate e, questo, non solo perché fosse costantemente controllata.
Non ne aveva il coraggio, sarebbe stato troppo umiliante, e poi non voleva che loro sapessero.
A meno che non fossero al corrente di tutto fin dall’inizio.
Le suggeriva sempre una voce nella sua testa, ma Jillian si rifiutava di crederci. Anche se non sapevano di che sfamarsi, i suoi genitori non l’avrebbero mai fatto; loro l’amavano.
Così erano passati sei anni, e Jillian, ormai, ne aveva venticinque.
Aveva trascorso quasi ogni notte al suo angolo di strada, che non si respirasse dall’afa o che nevicasse, e ogni notte vendeva il suo corpo.
Il copione per lo più era sempre identico: un’auto delle più anonime accostava, ne veniva abbassato il finestrino e nell’abitacolo si presentava un uomo dell’età variabile, che le chiedeva quanto volesse per uno o per l’altro servizio.
Spesso, quei tali avevano addirittura la bava alla bocca o poco ci mancava.
L’unica consolazione per Jillian era che, nella maggior parte dei casi, il tutto si svolgeva piuttosto rapidamente.
Molti dei suoi clienti la raggiungevano talmente eccitati che, solitamente, la prestazione non superava i due minuti sul sedile posteriore dell’auto.
Altrettanto rapido era anche Konstantin, quello che la sera del suo arrivo l’aveva schiaffeggiata e l’aveva palpata tra le gambe; il suo protettore.
Il più delle volte Konstantin non la trattava male, soprattutto da quando Jillian aveva appreso diligentemente il mestiere, ma l’andava a riprendere tutte le mattine, e tutte le mattine voleva la sua parte.
Un extra che non aveva mai preteso da ragazze diverse da Jillian, quasi fosse proprio lei quella che voleva.
Jillian non amava i rapporti con il suo protettore quanto non apprezzava quelli imposti dai clienti, ma non aveva potuto far altro che abituarsi.
Era spaventoso pensare che fosse accaduto davvero, eppure era così: durante i primi tempi Jillian si era disperata e ogni notte moriva di paura; alla fine, era diventata quasi una cosa normale, che di certo non le piaceva, ma che non le procurava più che un leggero disagio ogni volta.
Non aveva mai provato alcun piacere mentre svolgeva il suo lavoro, e a ogni episodio sperava che il tutto si concludesse il più rapidamente possibile, ma non piangeva più ogni volta che era costretta a salire sull’auto di questo o di quell’altro, offrendo il suo corpo come carne in vendita.
Lo faceva e basta.
Solo raramente le era capitato di ricevere richieste per un’intera notte di compagnia o di essere portata in un luogo diverso dalla solita piazzola isolata dove l’auto veniva fatta fermare a luci spente.
In un paio di occasioni si era ritrovata a praticare in appartamento e, alle pareti di uno di essi, aveva potuto notare le fotografie che ritraevano il suo cliente con moglie e figli.
Tre o quattro volte era stata condotta in camere d’albergo ma, in definitiva, quel che faceva veniva svolto in strada.
Indossava sempre gonne corte, tacchi alti e magliette scollate. In inverno le veniva concesso di coprirsi con un cappotto durante l’attesa, ma nulla di più.
Durante il giorno, poi, Jillian era relativamente libera. Non le era permesso di trovarsi un vero lavoro e doveva rinunciare a una grossa fetta di guadagni che era obbligata a consegnare all’organizzazione che gestiva il traffico in cui lei era implicata.
Ma tutto sommato Jillian guadagnava bene, e poteva permettersi di vivere per conto proprio, o quasi.
Condivideva l’appartamento con Larisa, una delle ragazze che avevano raggiunto con lei quel paese sei anni prima. L’abitazione apparteneva al clan che le prostituiva, dato che le ragazze non erano in possesso di documenti validi.
Larisa, comunque, era una delle due che Jillian aveva conosciuto più da vicino.
L’altra si chiamava Irina, e il suo angolo di strada poco distava da quello di Jillian, per questo era capitato loro di avvicinarsi.
Le ragazze alle volte si tenevano compagnia, ma il loro rapporto non andava mai oltre.
Non potevano esistere vere amicizie in quell’ambiente, si rischiava di farsi troppo male, affezionandosi a qualcuno.
Le altre, Jillian le conosceva solo di vista; di alcune sapeva il nome, di altre no, ma non vi aveva mai realmente avuto a che fare.
Jillian, dunque, si era abituata ad andare avanti come poteva, allontanandosi in modo brusco e violento dalle illusioni e dai sogni che l’avevano accompagnata fino a qualche anno prima.
Ma non era più tempo per i sogni, Jillian lo sapeva. Si era svegliata oramai, e i suoi occhi non volevano più saperne di richiudersi.
Era come destarsi da un incubo e non riuscire più a riprendere sonno, ma per Jillian era diverso, perché lei era nell’incubo stesso che si era risvegliata.
Ogni notte tutto ricominciava daccapo, e Jillian si lasciava trascinare dal vortice infinito degli eventi che non conoscono fine. Si diceva che ormai era abituata, che battere il marciapiede ed essere costantemente abusata non le faceva alcun effetto, non la turbava più, ma non era vero.
Perché benché oramai la paura nella sua totalità fosse svanita, benché fosse subentrata una sorta d’abitudine e benché Jillian non volesse più far caso alla propria sorte, nel profondo, la povera ragazza non aveva mai accettato quello che le era successo.
Jillian odiava la sua vita e gli uomini che l’avevano disintegrata come un vaso fragile che, cadendo, si infranga in mille pezzi.
Ma non aveva potuto far altro che rassegnarsi a viverla; in fondo, anch’essa aveva una sua routine e qualche consapevolezza.
Infatti, Jillian era convinta che peggio di così non potesse andare.
Ma si sbagliava.

*

Quel venerdì sera di novembre sembrò iniziare come tutti gli altri, eppure a Jillian parve diverso fin dal principio, fin da quando, subito dopo aver indossato i suoi soliti abiti stretti e scollati, si era guardata riflessa nello specchio del bagno.
Era rimasta incantata per qualche minuto, inizialmente senza pensare a nulla di particolare.
La sua mente era come un fiume: scorreva. Forse sarebbe sfociata da qualche parte, ma Jillian non si pose domande in proposito.
Lei fissò la sua immagine riflessa.
Si concentrò inizialmente sui seni che le sporgevano dalla scollatura generosa; su uno di essi, un segno rosso, quasi violaceo.
Jillian non si accorse di ripiegare le labbra in una smorfia di disgusto, ma non fu per il succhiotto, o per lo meno, non solo. Fu per il suo stesso corpo: la ripugnava, detestava vedere la propria pelle e le proprie forme, quasi in esse ci fosse qualcosa di terribilmente sbagliato.
Notò di avere la pelle d’oca.
Trascorso qualche istante non sopportò più la fissa visione del suo petto, così alzò lo sguardo, fino a incontrarlo dall’altro lato dello specchio.
Occhi azzurri in occhi azzurri.
Occhi morti in occhi morti.
Il buio che Jillian intravedeva nei propri occhi era dilagante e immenso; d’un tratto le sembrò un tunnel e provò il desiderio di entrarci.
Con la mente fece qualche passo, fino a quando intorno a lei non ci fu altro che nero.
Nero minaccioso e accogliente al tempo stesso; un’oscurità che sembrava la stesse valutando, per decidere se permetterle o meno di avere accesso alla sua dimora.
Jillian si spaventò; fu per questo che tornò indietro, fino a ricongiungersi con il suo corpo e con il suo riflesso prodotto dallo specchio del bagno.
Non voleva entrare nel buio, ma chi aveva creato quelle tenebre nelle quali aveva mosso qualche passo? Erano nei suoi occhi.
Questo la terrorizzava.
Non esistevano più sogni per Jillian, e questo lei lo sapeva bene, ma doveva stringere i denti, andare avanti, anche se non sapeva per che cosa. Voleva convincersi che non esistesse più disperazione in lei, più alcun sentimento.
Jillian voleva essere fredda come il ghiaccio e, si sa, questo non è certo nero.
Un pensiero tanto gelido le riportò per un attimo alla mente il ricordo lontano della sua terra, della neve e dei canti tradizionali della sua infanzia.
Rivide sprazzi d’immagini nella mente, ma in un attimo si accorse che quelle reminescenze non erano a lei che appartenevano, ma alla figura dall’altro lato dello specchio.
Era il suo riflesso a ricordare i momenti felici del suo passato, non Jillian, e questo glieli sbatteva davanti agli occhi come un trofeo strappatole di mano, come una bandiera colorata da cui coli sangue.
Jillian si rese conto che una parte di lei (la più importante, la più immensa) era rimasta indietro. Di lei non restavano che i suoi abiti da lavoro (quasi si trattasse di una divisa) che sembravano poggiare inerti su qualcosa che un tempo, forse, era stato un corpo.
Jillian tornò a guardarsi i seni, ma questa volta lo fece abbassando lo sguardo su di sé.
Fu quasi certa che il suo riflesso, di fronte a lei, tenesse ancora la testa alta e la squadrasse con compassione, ma quando Jillian tornò a guardarsi allo specchio, non era cambiato nulla.
Lei era lì, ed era anche dall’altra parte, totalmente identica, con la stessa morte negli occhi, con gli stessi seni esposti agli avidi occhi della perfidia.
Era tutto come sempre, si disse quasi muovendo le labbra in un sussurro, tutto come sempre.
Quando si decise a uscire dal bagno, pronta a lasciarsi alle spalle il suo appartamento per iniziare la notte di lavoro, si ripeté ancora nella mente quelle poche e rassicuranti parole.
Rassicuranti e tenebrose insieme.
Ma pareva che fosse stata la voce di qualcun altro a formularle.
La voce di un riflesso che, forse, era già qualche passo avanti rispetto a lei.

*

Jillian aveva indossato il cappotto complice delle notti invernali ed era uscita svelta di casa, evitando qualsiasi altro metallo riflettente.
Larisa era uscita prima di lei e, sicuramente, si stava già dirigendo al suo angolo, ma la ragazza non ci pensò troppo.
Restando in silenzio si avviò a passo deciso verso il solito posto. Quasi sorrise pensando che da sei anni si recava sempre nello stesso luogo di lavoro, ma quel suo sorriso non aveva niente di allegro. Sembrò la distensione delle labbra di uno spettro e per Jillian fu un bene non vedersi riflessa da qualche parte, perché si sarebbe certamente spaventata della sua espressione.
E questo non avrebbe cambiato il corso oscuro della notte che si approssimava.
Era buio ormai da un pezzo, e le temperature, grazie all’assenza di sole, avevano fatto in tempo a farsi oramai pienamente invernali.
Jillian si strinse forte nel cappotto, ma erano le gambe nude il vero problema, come sempre.
Era come aver attaccati al bacino due pezzi di legno. Legno ghiacciato.
Ma Jillian, se l’era già detto quella sera, voleva essere fredda, così tentò di non pensarci.
I suoi tacchi alti picchiettavano sull’asfalto come gli scanditi rintocchi di un orologio; o come una cantilena sussurrata tra le gocce di pioggia.
La notte avanza, Jillian. La notte corre. Vai, Jillian, entra nel tunnel buio.
Jillian sorrise di nuovo dello stesso sorriso spettrale di prima, quando immaginò quelle malsane parole al ritmo dei suoi passi.
Doveva ammetterlo, era strana quella sera. Forse, quel pomeriggio, doveva aver dormito troppo, si disse con una punta di rimprovero.
Era stato un sonno senza sogni, il suo, come sempre, ma si era svegliata più tardi del solito e avvolta da un inconsueto e inafferrabile stato d’ansia, che poi però si era dissolto come un fulmine tra le nubi.
Dormire troppo faceva male al cervello, Jillian si disse che se lo sarebbe ricordata da allora in avanti.
Quando si arrestò sotto il solito lampione, la strana voce proseguì nella sua testa, anche senza il rumore dei suoi tacchi a fare da sottofondo.
La notte avanza, Jillian. Entra nel tunnel buio.
Jillian scosse il capo per scrollarsi di dosso quel sussurro e si strinse nelle braccia per proteggersi dal freddo esterno e intensificare quello che cresceva in lei.
Iniziò a camminare avanti e indietro, in attesa che la prima auto della notte accostasse.
Un altro lampione, all’altro lato della strada, illuminava Irina, che se ne stava immobile, sorreggendosi al palo che aveva accanto come al braccio forte di uomo.
Chissà se Irina era strana come lei, quella sera? Si chiese Jillian tutto d’un tratto, poi alzò la mano esile e bianca in segno di saluto; l’altra ragazza ricambiò.
I suoi tacchi avevano ripreso a martellare sull’asfalto, ridando vita al ritmo sul quale la cantilena nella sua testa si scioglieva.
Quella non si era mai interrotta, nemmeno nel silenzio.

*

L’auto si fermò all’angolo dopo circa tre quarti d’ora d’attesa. Con lei, si arrestò anche il cuore di Jillian, non appena fu calato il finestrino.
Sulle prime pensò che la memoria le stesse giocando un brutto scherzo, che l’uomo che la osservava a occhi spalancati dal sedile del guidatore non potesse essere …
<<Jillian? Ti chiami Jillian per caso?>> esordì questo in ucraino.
Le sue parole giunsero amplificate all’udito di Jillian e in attimo sovrastarono e cancellarono del tutto quelle sussurrate dalla cantilena nella sua testa.
<<Yuriy!>> esclamò la ragazza senza credere ancora ai propri occhi.
Non lo vedeva da anni, eppure era sempre inconfondibile, quindi esistevano soltanto due alternative: o suo cugino si trovava davvero davanti a lei, oppure era impazzita e stava immaginando ogni cosa.
Jillian aveva visto Yuriy per l’ultima volta poco prima di partire per il nuovo paese; lui aveva soltanto un anno più di lei e i due erano quasi cresciuti insieme.
Non erano esattamente come fratello e sorella, ma avevano giocato spesso insieme quand’erano bambini, e scherzato quand’erano cresciuti, soprattutto durante le feste di famiglia o del paese.
Gli occhi azzurri e penetranti dell’uomo indugiavano ancora sulla ragazza che batteva il marciapiede e solo allora Jillian parve ricordarsi di essere mezza svestita.
Invano tentò di coprirsi parte delle cosce nude e arrossì visibilmente sotto la luce giallastra del lampione che la sovrastava, e che sembrava essersi tramutato in un faro.
<<Yuriy … io … cosa … non mi guardare>> balbettò Jillian frastornata e confusa. Avrebbe voluto sparire in quel preciso istante, sprofondare nel buio che poco prima aveva visto riflesso nei suoi occhi.
<<Non mi guardare>> ripeté in un sussurro, mentre sentiva le lacrime pizzicarle gli angoli degli occhi, poi non fu più in grado di dire altro.
Jillian osservò l’uomo che ora stringeva più forte il volante.
Era lui, il vecchio Yuriy di sempre, con i capelli rossicci, gli occhi di ghiaccio e quella bianca cicatrice sulla fronte causata da una brutta caduta durante l’infanzia.
La stava osservando con occhi spalancati, quasi si fosse immobilizzato.
Jillian avvertì lo scorrere di quei secondi come le spietate lame dei secoli.
Per un attimo fu tentata di fuggire, e l’avrebbe fatto, se Yuriy non si fosse riscosso senza darle il tempo di tramutare in azione il suo impulso.
L’uomo si slacciò la cintura di sicurezza, si sporse verso il sedile del passeggero e aprì la portiera da quel lato dell’auto.
<<Entra>> le intimò dolcemente. Jillian esitò solo qualche secondo, guardandosi intorno.
Nessuno l’avrebbe sospettato, avrebbero creduto tutti che si trovasse con un cliente.
Quindi eseguì, sollevata di trovarsi di fronte un volto conosciuto e amico e, forse, anche una salvezza.
Quando si sedette sul sedile, chiudendo subito dopo la portiera dietro di sé, sentì che il cuore le si scioglieva come ghiaccio posto accanto al fuoco.
Fu una sensazione bellissima, di totale liberazione.
Forse sarebbe tutto finito, Yuriy l’avrebbe salvata da quell’inferno e dalla sua stessa vita.
L’auto partì; soltanto dopo i primi minuti di viaggio Yuriy riprese a parlare: <<Cos’è successo, Jillian? Cos’è questa storia?>> domandò apparendo apprensivo e preoccupato. Forse anche un po’ disgustato, osservò Jillian, ma non seppe dire se Yuriy lo fosse nei confronti suoi o della sua situazione.
La ragazza si sentì arrossire nuovamente; la borsetta nera stretta nei pugni e posta sulla cosce, come a voler creare l’illusione di una gonna più lunga.
<<Non ho potuto farci niente>> rispose in un sussurro; e in fondo era l’unico modo per rivelare la verità. Raccontare tutto il resto sarebbe stato superfluo.
Yuriy si voltò un attimo verso di lei, poi tornò a fare attenzione alla strada; Jillian non lo vide, attenta com’era a tenere lo sguardo basso.
<<Da quanto tempo lo fai?>>
<<Sei anni, credo>> e Jillian disse così perché per un istante non fu più certa di quando la sua vita avesse preso quell’orrenda piega; in fondo, poi, che differenza faceva se si trattava di sei o dieci anni? Il risultato era il medesimo.
Yuriy si voltò nuovamente a guardarla; Jillian di nuovo non lo vide, ma questa volta l’uomo non le disse nient’altro. Si limitò soltanto a guidare.
Cinque minuti trascorsero così nel silenzio spezzato soltanto dai sussurri dei respiri. Jillian sentiva il proprio agitato, come il suo cuore, e fu per questo che alla fine non resistette e dovette chiederlo.
Per farlo, si sforzò anche ad alzare lo sguardo sul cugino: <<Mi tiri fuori? Mi aiuti?>> proruppe sentendosi ancora le lacrime agli occhi. Il cuore quasi le esplodeva nel petto quando Yuriy tornò a guardarla; sorrise.
<<Che diavolo di domande, Jillian. È ovvio che ti tiro fuori! È ovvio!>> esclamò questo mostrandosi colmo di apprensione. Jillian si disse che il disgusto di suo cugino non era stato indirizzato a lei; mai e poi mai.
Era così dolce e comprensivo il tono della sua voce, che Jillian si sentì subito protetta come sotto una grande ala ombrosa e benevola; gli sorrise di rimando.
<<Grazie>> sussurrò, deglutendo subito dopo per non permettere alle lacrime di scendere a rigarle il viso. Avrebbe voluto dirgli molte più cose, ma quella parola fu l’unica che si decise a uscirle dalla bocca. Jillian non ricordava da quanto tempo non la pronunciasse più, e fu bellissimo riappropriarsene.
Yuriy staccò la mano dal volante e strinse una di quelle ancora fredde di Jillian.
<<Ti aiuterò io, stai tranquilla>> la stretta si intensificò per un attimo <<ti aiuterò io>> ripeté più piano. Jillian si lasciò cullare da quelle parole e continuò a farlo anche dopo che queste si furono perse tra i fruscii della strada che le appariva oltre al finestrino.
Jillian non sapeva dove Yuriy la stesse conducendo, ma era certa che presto sarebbe stata al sicuro.
Stancamente e colma d’emozione si lasciò andare contro lo schienale del sedile. Distrattamente posò lo sguardo sul finestrino, sul quale veniva riflessa approssimativamente la sua figura.
Jillian non seppe come accadde, né perché, ma improvvisamente non poté far altro che addentrarsi nell’oscurità celata dai suoi occhi, ritrovando in un attimo quel tunnel buio che aveva già visto nello specchio circa un’ora prima.
Ma il tunnel di tenebra sparì in fretta e fu così che avvenne l’inaspettato.
Jillian iniziò a sognare a occhi aperti.
Era un sogno già vissuto tanto tempo prima, ma questa volta fu molto diverso.

*

A guidare i suoi passi c’è una musica d’organo; oscura, tetra, eppure accogliente. Cammina piano, su un terreno nero come la pece. Nero è anche il lungo abito che indossa, così come lo è il diadema tra la sua chioma corvina.
Tra le dita esili un mazzo di rose nere.
Jillian si guarda intorno, senza capire dove si trovi. Si sente persa, ma non ha paura.
La musica l’avvolge in un’atmosfera sinistra di cui sente di fare parte già da tanto tempo.
Sconcertata e perplessa, Jillian si guarda intorno.
Vuote panche scure avvolte in rovi grigi dalla cui spine colano gocce di sangue. Le pareti laterali del luogo in cui si trova sembrano quelle di una grotta ma, quando alza lo sguardo al cielo, si accorge di essere all’aperto.
Un cielo plumbeo che pullula di corvi la sovrasta.
Jillian sente che i corvi sono suoi amici; anche le nuvole lo sono, così come i rovi da cui cola sangue.
Quel posto le appartiene, anche se ancora non lo riconosce; ne è consapevole.
Di fronte a lei solo un’immensa oscurità.
Jillian stringe forte il mazzo di rose nere che ha tra le mani e si accorge che anche i lunghi guanti di pizzo che indossa sono dello stesso colore di tutto il resto.
Ogni cosa è nera e questo è rassicurante.
Jillian avanza, perché non c’è nient’altro che possa fare. Si addentra senza timore nell’oscurità che le sussurra e l’attende, fino a sparirvi all’interno.
Sta cominciando a capire dov’è diretta.
Anche se non ne comprende il motivo.

Avevano viaggiato per una buona mezzora, poi Yuriy aveva posteggiato l’auto di fronte a un bar, dopodiché aveva condotto Jillian con sé in un appartamento sito al secondo piano di una palazzina piuttosto vecchia.
Jillian salì le scale precedendo il cugino, fermandosi soltanto quando raggiunse il pianerottolo, attendendo che l’uomo le indicasse verso quale porta dirigersi.
I cardini del legno cigolarono un po’, ma in definitiva non troppo.
Quando scivolò all’interno dell’appartamento Jillian si sentì confusa dalla presenza di quegli altri due uomini.
Era stata investita da una luce color giallo sporco che, in un attimo, le aveva fatto desiderare un ritorno al buio.
Sentì la porta richiudersi alle sue spalle, ma non vi fece tanto caso. Perplessa continuava a osservare i due uomini che, fino a un attimo prima, erano rimasti seduti sul divano e che ora si stavano alzando in piedi. Non le piacevano i loro occhi, né i loro sorrisi.
<<Ragazzi, questa è Jillian >> fece d’improvviso Yuriy a voce alta. Forse un po’ troppo alta, osservò Jillian.
<<Jillian, questi sono i miei amici. Saranno anche amici tuoi per questa sera. Non c’è bisogno che tu sappia i loro nomi>> seguitò assumendo un tono che d’un tratto ghiacciò il sangue nelle vene della ragazza. In lontananza, le sembrò di sentire un corvo gracchiare con prepotenza.
Atterrita da quelle parole, Jillian si volse di scatto verso il cugino, ma non fece in tempo ad accorgersi che questi si stava avventando su di lei; prima che potesse rendersene conto, Jillian era intrappolata tra le braccia dell’uomo che, fino a quel momento, credeva l’avrebbe aiutata.
Sentiva il cuore martellarle sempre più forte nel petto e sentì anche rinascere in lei quell’odio furente, quello che non provava da tanto tempo.
Mentre la stringeva forte con un braccio, Yuriy utilizzò la mano libera per estrarre un coltello a serramanico dalla tasca dei pantaloni. Ne fece scattare la lama a pochi centimetri dal volto teso di Jillian; era un’arma corta ma molto affilata.
<<Mi dispiace, bimba>> le sussurrò Yuriy all’orecchio, poi fece un cenno del capo a uno degli altri.
Jillian fu obbligata a sedersi su una sedia di legno che fu posta al centro della sala; le furono legati i polsi dietro la schiena e ciascuna caviglia alle gambe della sedia, poi una corda più lunga e più spessa le fu girata attorno al corpo mezzo svestito.
Mentre l’amico di Yuriy la legava alla sedia, quest’ultimo si piegò fino a raggiungere con le labbra l’orecchio di Jillian: <<Noi dobbiamo divertirci, capisci bimba? Se non a te, sarebbe toccato a un’altra>> sussurrò per poi rialzarsi.
Stringeva ancora in mano il coltello a serramanico.

I suoi occhi si sono abituati in fretta all’oscurità, oramai vede tutto con chiarezza.
Il suolo nero progredisce sotto i suoi piedi, così come la musica spettrale. Jillian è piacevolmente turbata da quel lungo; è fresco, ma non eccessivamente.
Il profumo dei fiori è sottile ma percepibile, ed è diverso da quello che le è capitato di sentire finora. Sente odore di fiori di tenebra, minaccioso e invitante insieme.
Ma dove sono questi fiori? Jillian vede soltanto il mazzo che stringe a sé.
Mentre cammina aguzza lo sguardo alla loro ricerca.
Ed eccola lì, una prima rosa nera, posata a terra accanto a una delle panche vuote.
Solitaria e abbandonata, eppure sembra sentirsi a casa. Tristemente a casa.
Eccone un’altra, pendente dai rovi sanguinanti.
E un’altra ancora, stretta nel becco nero di un corvo che plana verso di lei. L’uccello le vola vicino, la sfiora con il vento gelido del quale è portatore.
Ma Jillian non ha sentito il ghiaccio di quel contatto; al contrario, ne è stata riscaldata.
Comincia a pensare che dovrà abituarsi presto al freddo, e questa volta per davvero.
Jillian segue il corvo con lo sguardo e lo vede posarsi sul vecchio legno ingrigito di una delle panche laterali, le quali continuano a ripetersi sempre uguali.
Tiene la rosa nera sempre stretta nel becco e alza la piccola testa piumata; sembra voler invogliare anche Jillian a fare lo stesso.
Ed è lì che le vede tutte.

Il sogno si interruppe perché Jillian sentiva troppo male.
Tornò in sé con prepotenza eppure si sentiva in procinto di svenire.
Yuriy era stato il primo, perché era lui a essere considerato il capo, e in quel momento era ancora il suo turno.
Era così terribilmente doloroso.
Accovacciato all’altezza della sedia su cui Jillian era legata, suo cugino stava abusando di lei. Sentiva il suo ansimare disgustoso picchiarle violentemente contro l’orecchio, e sembrava al punto di lacerarglielo.
Ma non erano quelli gli unici dolori che provava; in fondo Jillian avrebbe potuto sopportarli. Non era mai stata legata prima d’allora, ma era abituata a quel genere di violenza.
Il vero problema era il coltello. Quel maledetto coltello corto ma molto affilato.
Con una mano Yiriy si teneva aggrappato alla sedia, con l’altra stringeva l’arma.
E quella mano era in movimento.
Le stava straziando le gambe e le braccia riempiendogliele di tagli; ma la ferita che aveva ricondotto la ragazza al suo corpo era stata quella al volto.
Ora Jillian sentiva il sangue colarle sul viso come un fiume di lacrime; ne sentiva il sapore in bocca.
Era dolceamaro.

Forse sono centinaia.
Tutte meravigliosamente nere, intrecciate tra loro come per mostrarle la via.
Jillian si ritrova a domandarsi se quelle rose nere siano sospese nel vuoto o se qualcosa le sostenga: lei è troppo in basso, e non riesce a vedere.
Senza darsi troppo pensiero, prosegue.
Improvvisamente l’ambiente attorno a lei cambia.
Al posto delle rose nere, maestosi alberi dalla chioma rossa, uno di seguito all’altro, quasi fossero bambini che si tengono per mano.
Bambini morti.
E in effetti Jillian li sente sussurrare, come se si scambiassero pensieri all’orecchio.
“Sono tutti qui per me” pensa la ragazza orgogliosa, e si bea di quegli sguardi cremisi che seguono con trepidazione ogni suo passo.
Sono questi a illuminare flebilmente il nero profondo, come enormi candele sanguinanti.
Il loro bagliore rosso intenso si sprigiona sul suo viso e le accarezza l’abito nero, creando ombre suadenti e giocose.
Poi cambia tutto di nuovo: su due lunghe assi laterali poggiano file interminabili di candele dalla cera nera, tutte accese. Il nero e il rosso, fusi insieme, sembrano dirigere un’orchestra di pensieri confortevoli.
Ora Jillian non è più sola: vede e sente quelle presenze che ha intorno.
E vede e sente anche lui, lì in fondo, girato di spalle.

Gran parte del sangue le si era asciugato sul viso e sul collo, formando una sorta di orribile crosta.
Yuriy aveva finito, lasciandola inerme e agonizzante.
Le urla e le risa degli altri erano come cani feroci che le latrassero contro.
Attraverso le palpebre socchiuse, Jillian era investita dalla luce color giallo sporco della stanza, che ora, però, si stava facendo un po’ più grigia.
E fu in quella stessa orrenda luce che la ragazza vide il secondo uomo avvicinarsi.
Yuriy, poco distante, si stava ancora tirando su i calzoni con le mani insanguinate.
Quello che si approssimava alla sedia di Jillian aveva un orrendo sorriso sbilenco tratteggiato in volto.
Nella mano, invece, aveva una catena a cappio.
Senza che Jillian avesse la forza di ribellarsi gliela fece passare dalla testa, poi si slacciò i pantaloni e si accovacciò come poco prima aveva fatto Yuriy.
Quando l’uomo si spinse dentro di lei, iniziò a tirare la catena.
Gli occhi di Jillian si sporsero dalle orbite.

Jillian sorride, rendendosi conto che ci sono anche gli invitati.
Un sorriso appena accennato il suo, quasi personale.
Nessuna di quelle presenze è realmente definita, ma Jillian le sente molto vicine a sé; anche loro sono lì per lei.
Solo la luce rossa delle candele conferisce loro una parvenza di forma, ma questa è solo come un lontano riflesso.
Jillian sa che non potrebbe toccarli, ma si sente loro affine.
Quelle orbite vuote sono tutte puntate su di lei. Jillian sente l’assenza fredda dei loro respiri.
Continua a camminare.
Si sta avvicinando a lui, che l’attende sempre girato di spalle, di fronte all’altare nero; la tunica dello stesso colore gli ricopre il capo.
È così intensa la gioia di Jillian a ogni suo passo.
Solo ora si rende conto di quanto desideri essergli accanto, di quanto lo desideri da tanto tempo.
Non ha occhi né amore che per quella figura che attende soltanto lei e che, sussurrando nella sua testa, la chiama a sé.
È un sussurro che calma ogni fibra del suo corpo, rendendolo via via più freddo e più arrendevole, così come deve essere.
È lì per lei, Jillian non può farlo attendere a lungo. La loro unione deve compiersi.
Un corvo si posa sulla sua spalla, sembrando fondersi con il nero del vestito. Le avvicina il becco al volto, e vi posa quel che sembra un gelido bacio.
È quasi da lui; solo pochi passi.

Lui tirava e allentava, tirava e allentava, tutto al ritmo dei movimenti del suo bacino, spezzando di continuo il fiato di Jillian. Infine c’era stata una stretta più lunga delle precedenti, poi la catena si era allentata del tutto.
Quando l’uomo che l’aveva seviziata gliela tolse, il collo le doleva di ripetuti morsi d’acciaio.
Il capo le pendeva inerte all’indietro e l’orribile luce, che si faceva sempre più grigia di polvere, le arrivava dritta negli occhi, ma Jillian non aveva la forza di chiuderli del tutto.
Ma non l’aveva nemmeno di riaprirli.
Se ne stava come sospesa a metà tra il corpo e la mente, come sotto ipnosi.
Sentiva le risate sguaiate dei suoi torturatori, in particolare quella di Yuriy, che seguitava a riconoscere.
Poi una voce che rigurgitava una frase scandita: <<È il tuo turno, sfigato>>.
Di seguito, un'altra: <<Ti hanno lasciato il meglio per ultimo, troia>>; quello a cui la prima battuta era stata riferita.
Infine ci fu quasi un sussurro, ma fu talmente chiaro che sembrò aver seguito un canale che l’avesse condotto direttamente all’orecchio di Jillian: <<Divertiti, bimba>>; la voce di Yuriy.
Jillian si sentiva il sangue tra le dita delle mani e nelle scarpe.
Lo vide solo vagamente mentre si avvicinava. Fece maggior caso al lungo bastone di legno che teneva in mano.

Con una mano Jillian stringe più forte il suo bouquet di rose nere mentre solleva l’altra, che sembra più esile mano a mano che si raffredda, verso la figura che ha raggiunto, e che ormai le è accanto.
La sfiora. Non ha mai provato un simile brivido.
Questa comincia piano a voltarsi.
Prima, però, le ha preso la mano nella sua fatta di ossa.
Il corvo che l’ha baciata è ancora sulla sua spalla. Anche lo sposo ne ha uno sulla sua.

L’aveva fatto con quello.
Con la mano libera si dava piacere da solo.
Jillian rifletté per un attimo sull’odiosa fortuna di quegli uomini di avere due mani e di saperle usare per compiere azioni diverse.
Non durò molto, ma fu più doloroso delle ferite inferte dal coltello sulle sue membra.
Jillian si sentiva squarciata, le sembrava di aver assunto le sembianze di una polpa informe.
Nel finire, l’uomo l’aveva sporcata in viso. L’aveva fatto apposta, Jillian l’aveva visto indirizzarsi verso di lei.
E quell’osceno liquido si mescolò con il sangue.
Era sangue anche quello che, attraverso le palpebre socchiuse, intravide sulla punta del bastone di legno, mentre il terzo mostro si allontanava.
<<L’abbiamo sporcata un po’. Le diamo una ripulita?>>. Di nuovo la voce di Yuriy, alta e sadica.
Seguirono altre risa e altre urla.
Poi fu il momento della confusione, ma Jillian non si accorse da dove provenisse né quanto durò; seppe solo che al suo termine iniziarono le secchiate d’acqua gelida.
Come gli spietati schiaffi di un demone.

Jillian osserva estasiata quelle orbite vuote in cui ogni cosa è racchiusa.
Sente di amare quella figura come non credeva più di esserne capace.
Le ormai gelide mani di lei strette nelle lunghe e bianche ossa dell’altro.
“Non mi lascerà mai” pensa Jillian soddisfatta. “Non lo lascerò mai” prosegue tranquilla.
Sente che i suoi occhi si stanno facendo pesanti, iniziando a reagire alla lenta musica d’organo che vuole conciliare il suo riposo.
Tutti i muscoli del suo corpo si appesantiscono.
Sente che il profumo dei fiori della notte è ormai esploso, irradiandosi dominante per lei. Lo sente ricoprirla come un manto soffice; eppure ha anche un che di spinoso.
Gli invitati morti trattengono il fiato che da tempo non appartiene più loro.
È intenso quello sguardo inesistente che le è di fronte; è ghiacciato e penetrante e le sta mostrando tante cose.
Molte di queste, Jillian non riesce a comprenderle, ma ce n’è una di cui si avvede, e che la fa sorridere debolmente.
Ne è consapevole ora: loro non sapevano niente. Non l’avevano mai saputo né sospettato.
È un sollievo sapersi ancora amata.
Ma ora è con quella figura fatta di ossa e avvolta nel drappo nero che vuole restare. È a questa che è destinata.
La Morte lascia una delle mani di Jillian e avvolge una sua ciocca corvina sul proprio dito ossuto.
Un segno del suo amore.
È quasi ora.
Presto saranno uniti per l’eternità.
Manca solo che Jillian pronunci quelle parole.
Quelle due parole.
Il manto soffice che la ricopre si fa più spesso; “ma sembra essere anche spinoso” riflette un’altra volta Jillian. Infatti si accorge che il braccio le sta sanguinando.

Jillian sanguinava.
Braccia, gambe e volto le si erano fatti completamente rossi, come una seconda pelle.
Intorno e dentro di lei c’era solo un freddo immenso, oceanico.
Jillian tremava nei suoi vestiti bagnati mentre sentiva il suono dell’acqua scrosciante nel buio.
Conducendo a sé un faticoso respiro profondo ricordò fugacemente gli ultimi avvenimenti: dopo essersi divertiti tra urla e schiamazzi a lanciarle addosso una secchiata dopo l’altra di acqua gelida, i tre uomini avevano nuovamente abusato di lei.
Lo fecero con la stessa frequenza delle secchiate d’acqua: uno dopo l’altro, senza lasciarle un secondo di respiro. Questa volta, però, non avevano utilizzato attrezzi, ma ogni violenza era stata più lunga della precedente.
Jillian però non c’era; aveva lasciato indietro il suo corpo come un vecchio straccio bagnato.
Ricordare fu come vivere quell’orrore per la prima volta.
Senza pensare, la ragazza scosse il capo fradicio per scacciare quelle immagini opprimenti; il dolore al collo che ne conseguì fu come un’ulteriore coltellata.
Gemendo si strinse nelle braccia sanguinanti, e continuò a ricordare sconfitta.
Finita l’ultima violenza carnale era stata brutalmente slegata e, tra calci e spintoni, condotta di nuovo verso la porta. Mentre la trascinavano verso la rampa di scale, Jillian vide un ragazzo fermo sulla porta di fronte a quella da cui erano appena usciti tutti; notò i suoi occhi sbarrati ma privi d’espressione, come se fosse gonfio di droga.
Jillian immaginò di aver urlato, forte e a lungo, anche se non se n’era resa conto, ma le fu chiaro fin da subito perché non si era vista l’ombra dei soccorsi: gli altri inquilini del palazzo non dovevano essere molto diversi dal ragazzo che aveva appena visto.
Infine la ragazza era stata scaraventata nella macchina di Yuriy, la stessa su cui, durante il viaggio di andata, aveva sperato di essere salvata.
Non seppe quanta strada le fu fatta percorrere, mentre teneva la testa pesantemente appoggiata al sedile posteriore dell’auto e il suo respiro si faceva via via più flebile. Non seppe nemmeno se quegli uomini avessero parlato o meno durante il viaggio.
Poi, improvvisamente, l’auto si arrestò, la portiera fu aperta e Jillian fu fatta cadere fuori. Nessuno si scomodò a scendere con lei, nemmeno per un attimo.
Era scivolata all’esterno senza dar segni di essere cosciente; forse l’avevano creduta già morta.
Jillian aveva avvertito appena il rombo del motore che si allontanava.
Da quel momento in poi, aveva sentito soltanto lo scroscio dell’acqua. E aveva visto soltanto il buio.
Per diversi minuti era rimasta stesa a terra come immobilizzata, senza pensare a niente, accorgendosi soltanto dei propri capelli bagnati che le si erano incollati al viso.
Chissà quant’era durato? Si domandò poi d’un tratto. Qualcuno si era accorto della sua assenza? Ma, in definitiva, Jillian scoprì che non le importava niente.
Lentamente si era tirata a sedere sul duro cemento che le faceva da giaciglio, poi si era guardata le braccia. Anche al buio le vedeva sanguinare. Ne sentiva l’odore acre e pungente.
E il retrogusto dolciastro. Era stato in quell’istante che aveva iniziato a ricordare.
L’acqua scrosciava più forte.
Fu solo in quell’istante che Jillian si accorse del suo richiamo.
La notte avanza, Jillian. La notte corre. Vai, Jillian, entra nel tunnel buio.
Quelle due parole. Mancavano solo quelle due parole, poi tutto sarebbe stato completo.
Silenziosa e dolorante la ragazza si alzò sulle gambe deboli.
Il respiro parve mancarle un attimo per lo sforzo, ma subito tornò da lei. Ad occhi ancora socchiusi osservava l’oscurità che si estendeva tutto attorno come una campo protettivo.
Fece due passi e incontrò un parapetto; vi appoggiò le mani.
Il rumore dell’acqua si accentuò, facendosi quasi assordante.
Qui nessuno può farti del male, Jillian. Vieni. Quelle due parole, ti mancano solo quelle due parole. Sembrava che l’acqua gridasse verso di lei, violentemente, concitatamente.
Il suo era come un ruggito.
Jillian inspirò e lo fece proprio.
Si sfilò le scarpe con i tacchi alti, poi si issò in piedi sul parapetto.
Sentiva la pietra fredda sui piedi nudi e imbrattati di sangue, sentiva il vento sferzarle i capelli ancora bagnati e gelidi.
Respirò a fondo mentre allargava le braccia.
Il fiume si agitava potente sotto di lei.
Non aveva mai visto fiumi durante i sei anni di permanenza in quel luogo, dovevano averla portata lontana da dove viveva di solito.
Comunque fosse, stava di fatto che l’acqua continuava a chiamarla.
Vieni, Jillian.
Poi tutto fu chiaro.
Sulle acque che si increspavano nella notte, Jillian vide apparire quel volto di ossa. Rivide le sue orbite vuote e la sua infinita conoscenza.
Era lì, ad aspettarla, mancavano soltanto quelle ultime due parole.
Le sussurrò con un filo di voce, dischiudendo appena le labbra.
Le disse mentre si lasciava cadere dal parapetto.

<<Lo voglio>>.

Jillian adagia il capo sul petto dello sposo di ossa.
La Morte le accarezza i capelli.

6/15 maggio 2014

***

*lady in blue*

venerdì 18 luglio 2014

COLD JULY 2: Gelida

Ciao, questa volta anticipo la seconda puntata di questa raccolta di una paio di giorni, dato che domani si parte ... Sì, giusto cinque giorni, ma non ci si lamenta di certo :) Di nuovo, Barcellona, che bello! Tre giorni per visitarla, l'anno scorso, erano stati troppo pochi, meglio tornare ...
E sarebbe da restare lì, va', che è un posto tanto bellino ....
Ma per una volta non sprechiamo spazio e tempo in eccessive ciance, e veniamo seriamente all'argomento del giorno: oggi posto un racconto che ho scritto quattro mesi fa. Considerarlo completamente una storia originale, però, non sarebbe corretto. Il soggetto presentato si riferisce al videoclip del brano "Frozen" dei Within Temptation ... Questa è la canzone che mi ha fatto conoscere la band e il video ha colpito fin dal primo istante la mia propensione alle storie drammatiche e possibilmente senza lieto fine ... Ho voluto quindi tramutare in racconto le immagini molto forti che accompagnano la musica ... Certe piccolezze (come il nome della protagonista) sono state inventate, altre semplicemente ampliate da quel che si può vedere nelle immagini...
Consiglio la visione del videoclip, prima di passare alla lettura del racconto, anche per valutare se si è inclini ad "accettare" l'argomento spinoso e difficile ...
E' possibile vederlo qui:


(Il link, nel caso il video sopra non funzionasse: https://www.youtube.com/watch?v=IfLoCG1MLqI)

Per chi volesse farsi un'idea in proposito, qui si può leggere il testo del brano con la relativa traduzione:



FROZEN (GELIDA)

I can't feel my senses (Non riesco a sentire i miei sensi)
I just feel the cold (Sento soltanto il freddo)
All colors seem to fade away
(Tutti i colori sembrano svanire)
I can't reach my soul
(Non riesco a raggiungere la mia anima)
I would stop running,
(Smetterei di fuggire)
If I knew there was a chance (Se sapessi che c’era una scelta)
It tears me apart to sacrifice it all
(Mi distrugge sacrificare tutto)
But I'm forced to let go (Ma sono obbligata a lasciar perdere)

Tell me I'm frozen but what can I do?
(Dimmi che sono gelida, ma cosa posso farci?)
Can't tell the reasons I did it for you
(Non posso dire le ragioni, l’ho fatto per te)
When lies turn into truth
(Quando le bugie si tramutano in verità)
I sacrificed for you  (Mi sono sacrificata per te)
You say that I'm frozen but what can I do?
(Mi dici che sono gelida, ma cosa posso farci?)

I can feel your sorrow
(Riesco a sentire il tuo dolore)
You won't forgive me
(Non mi perdonerai)
But I know you'll be all right (Ma so che starai bene)
It tears me apart that you will never know
(Mi distrugge il fatto che non saprai mai)
But I have to let go (Ma devo lasciar perdere)

Tell me I'm frozen but what can I do?
(Dimmi che cosa gelida, ma cosa posso farci?)
Can't tell the reasons I did it for you
(Non posso dire le ragioni, l’ho fatto per te)
When lies turn into truth
(Quando le bugie si tramutano in verità)
I sacrificed for you (Mi sono sacrificata per te)
You say that I'm frozen but what can I do?
(Mi dici che sono gelida, ma cosa posso farci?)

Everything will slip away
(Ogni cosa svanirà)
Shattered pieces will remain
(Rimarranno solo pezzi frantumati)
When memories fade into emptiness
(Quando i ricordi svaniranno nel vuoto)
Only time will tell its tale
(Solo il tempo racconterà la sua storia)
If it all has been in vain (Se tutto è stato invano)

I can't feel my senses
(Non riesco a sentire i miei sensi)
I just feel the cold (Sento soltanto il freddo)
Frozen
(Gelida)
But what can I do? (Ma cosa posso farci?)
Frozen (Gelida)

Tell me I'm frozen but what can I do?
(Dimmi che sono gelida, ma cosa posso farci?)
Can't tell the reasons I did it for you (Non posso dire le ragioni, l’ho fatto per te)
When lies turn into truth (Quando le bugie si tramutano in verità)
I sacrificed for you (Mi sono sacrificata per te)
You say that I'm frozen… frozen
(Mi dici che sono gelida … gelida)

**
Una piccola parentesi a proposito del titolo: Frozen, in realtà, avrebbe anche il significato di immobile, bloccato, che è quello con cui viene più comunemente tradotto nel caso di questo testo specifico ... Io però lo trovo più significativo con questo, forse scontato, riferimento al freddo e al significato più immediato del termine ... Per il racconto, poi, era indispensabile interpretarlo in questo modo.
Segnalo poi che, nello scritto sottostante, c'è una frase che si riferisce palesemente al testo della canzone; non la cito perché è facilmente individuabile.

Se nel racconto vi dovesse capitare di trovare qualche "N" tra un paragrafo e l'altro non preoccupatevi, non sono impazzita, semplicemente il blog non mi visualizza i miei amati teschietti come separatori dei paragrafi, corrispondenti a quella lettera nel carattere di scrittura da cui provengono ... Dove ho individuato il problema ho sostituito le N con gli asterischi, ma può essere che qualcuno mi sia sfuggito ... 

Se il testo non dovesse rendere a sufficienza, portate pazienza : l'ho scritto durante le pause pranzo del lavoro, dato che in quel periodo non avevo tempo, altrimenti.

Buona lettura!
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GELIDA

Per scrivere, le avevano concesso soltanto una matita.
Il foglio di carta che le avevano portato era stropicciato e ingiallito, e forse aveva atteso per anni il momento di essere utilizzato, chiuso in un cassetto.
Sopra di esso, segni calcati di parole che erano state cancellate; forse dei semplici appunti, dei banali promemoria, ormai inservibili.
Invece era enorme il dolore che sarebbe scaturito da ciò che Eliza vi avrebbe impresso.
Come può tanta pena essere condensata nei fuggevoli segni della grafite?
La cella era fredda, più fredda di quanto si fosse aspettata. O forse, quel freddo, veniva da lei.
Avrebbe trovato il coraggio per scrivere quella lettera? Per dare forma a parole tanto dolorose? Se l’era chiesto per settimane, ma ora che il tempo era scaduto, non aveva più tempo per porsi domande.
L’indomani mattina sarebbe stato tutto finito.
Aveva a disposizione solo quell’ultima notte per affrontare il suo demone più grande.
La candela posta sul misero tavolino a cui sedeva bruciava silente, indifferente alla desolazione che le regnava intorno.
Eliza non ne sentiva il flebile calore. Anche la fiamma le appariva fredda; gelida, come un pezzo di ghiaccio.
E gelida come lei.
Persino la lacrima che d’improvviso le bagnò un occhio le sembrò troppo fredda; un morto avrebbe pianto alla stessa maniera, se avesse potuto.
Ma Eliza non piangeva per la morte, non piangeva nemmeno per il freddo.
La sua lacrima era per Ana, per il dolore di quest’ultima e per il fatto che lei non l’avrebbe mai perdonata. Ana non avrebbe capito né avrebbe saputo perché l’aveva fatto; non aveva l’età per una o per l’altra cosa.
A otto anni non si può comprendere che cosa spinga a uccidere, nemmeno quando la vittima sia il mostro che ha schiacciato lo stesso fanciullo.
Ana aveva solo otto anni, e non avrebbe dovuto vivere quel che aveva subito.
Ma non avrebbe nemmeno dovuto restare sola, eppure lo sarebbe stata; dall’indomani mattina.
Anzi, Ana era già sola da settimane.
Era per questo che Eliza sentiva che sua figlia non l’avrebbe mai perdonata per quel che aveva fatto, perché il suo gesto le imponeva di abbandonarla.
Ana era la vera vittima di quel che era avvenuto.
Ma Eliza non aveva avuto altra scelta; lei, che non aveva mai fatto del male a nessuno, si era ritrovata a uccidere, perché quella era stata l’unica cosa che avesse potuto fare.
L’unica possibilità di proteggere Ana e di darle l’occasione di dimenticare, quando fosse passato il tempo.
Il tempo che forse avrebbe lenito quelle atroci ferite.
Eliza guardò la matita adagiata sul tavolo con espressione vacua.
Aveva smaniato tanto per averla insieme al foglio di carta, eppure in quel momento non riusciva a decidersi a prenderla in mano.
Scriverle una lettera? Perché? A che cosa sarebbe servito? Per darle una spiegazione, per aiutarla a capire, nonostante l’età; per dirle che l’aveva fatto per lei, che l’amava, anche se stava per abbandonarla.
Eliza non sapeva se dentro di sé avesse davvero la forza di riempire quel foglio con i segni del suo dolore, ma non importava, perché doveva farlo comunque.
Per Ana, perché trovasse ancora un senso nella vita, perché fosse spinta ad andare avanti, anche senza sua madre, anche se preda dell’agonia.
Quasi senza respirare allungò la mano ormai gelida e afferrò la matita. La strinse forte, come per sentirne la consistenza e assicurarsi di essere ancora viva.
Chiuse gli occhi, mentre nuove lacrime scendevano a rigare quel volto disperato, cercando di rievocare un’immagine di sua figlia.
E la vide.
Era seduta lì, di fronte a lei. La guardava con espressione dura, con odio. Nei suoi occhi l’ombra della rabbia, della morte, della solitudine, del cuore infranto.
Eliza avrebbe voluto tendere la mano verso di lei, per accarezzarle il viso, ma non poté farlo.
La luce scaturita dalla candela danzava in sfumature arancioni sul volto di Ana, sulla sua espressione spenta. Eliza tratteneva ancora il respiro, anche nella sua immaginazione.
All’improvviso un suono distinto, dolce eppure agghiacciante: la voce di Ana.
“Sei gelida” le stava dicendo.
Eliza riaprì gli occhi di colpo. No, non aveva la forza di scrivere una lettera d’addio a sua figlia, ma anche in questo caso non aveva altra scelta.
Avvicinò la matita al foglio; la mano un po’ le tremava. 
“Cara Ana …”
Cominciò.
Eliza non poteva far altro che scrivere quella lettera, come non aveva potuto far altro che uccidere suo marito. Non poteva prendersi altro tempo, doveva lasciare le sue ultime parole per Ana quella notte, perché, l’indomani mattina, l’attendeva la forca.
“…ho fatto quel che ho fatto soltanto per te. Ti prego, perdonami …”.
*
Sul tavolo, quella sera, non c’era una sola candela, ma tre. Erano grandi, luminose, tenute in piedi dal candelabro d’oro che la famiglia di Eliza si tramandava da generazioni.
Ce n’erano anche altre, di fiammelle accese, nel resto della sala.
La luce si diffondeva in fluide ondate, come una marea; la casa ne pareva avvolta. E si sentiva il loro calore, le piccole lingue di fuoco ardevano di vita.
Non poteva essere altrimenti, dal momento che illuminavano il suo viso.
Ana sorrideva quella sera. Insieme stavano preparando il tavolo per la cena.
A dire la verità, anche Eliza stava sorridendo: erano felici entrambe, lo erano già da un paio di giorni.
Lui era via per affari, sarebbe rimasto lontano una settimana. Madre e figlia non potevano che godere di quell’inaspettata libertà, di quella ventata d’aria fresca.
Sarebbero state loro due, per un’intera settimana. Niente urla, niente ordini, niente disprezzo e, per quanto riguardava Eliza, niente percosse.
Suo marito era sempre stato violento, fin dall’inizio. Ovviamente, non era stata lei a scegliere di sposarlo; la sua famiglia gliel’aveva imposto e  lei non aveva potuto far altro che abbassare la testa.
Da quando condivideva la casa con quell’uomo, la vita di Eliza si era tramutata in un inferno, ma poi era arrivata Ana, ed Eliza si era sforzata di andare avanti solo per lei. Sopportava, perché non poteva fare diversamente. Era riconoscente a Dio, se non altro, per il fatto che suo marito non pareva degnare di molta considerazione la figlia, sotto alcun aspetto.
Per lui, quasi Ana non esisteva.
E questo sollevava l’ormai fragile animo di Eliza; tante volte aveva immaginato di ritrovarsi davanti la sua bambina con i vestiti macchiati di sangue, magari con un occhio pesto o, peggio, un arto rotto, come era capitato a lei. Era certa che non avrebbe potuto sopportarlo, eppure si diceva che anche in quel caso avrebbe chinato il capo e sarebbe andata avanti come ogni giorno, anche se lacerata dal dolore e dalla rabbia.
Perché in Romania, in quegli anni, una donna non poteva fare altro.
Ma in quei giorni quei pensieri atroci e quelle oscure preoccupazioni erano lontane anni luce; lei e Ana erano sole, libere, felici.
In casa, il silenzio era rotto soltanto dalle loro voci soavi, dalla risata della bambina.
La bottiglia di whiskey era chiusa nell’armadio a vetro, e lo spregevole odore del liquore era imprigionato con lei. Eliza odiava quell’odore.
<<Mamma, sta bene così?>> la voce della bimba svegliò con un sobbalzo Eliza dai suoi pensieri; fu come destarsi da un incubo e ritrovarsi in un mondo sereno, sicuro.
Eliza guardò sua figlia. Ana aveva disposto della frutta sul centrotavola e l’aveva posizionato accanto al candelabro d’oro.
Il colore della frutta, sulla tovaglia bianca, creava un contrasto amico della vista, come se la vita potesse nascere dalla neve.
Eliza rispose alla bambina con un sorriso e un semplice cenno affermativo del capo, poi le si avvicinò, stringendola forte per le spalle.
L’avvolse d’un tratto il profumo dei suoi capelli, della sua pelle e della sua biancheria.
La bambola di Ana sedeva al tavolo, come se attendesse l’arrivo della propria portata. Era una bambola nuova, ma Ana ci si era già enormemente affezionata.
L’aveva chiamata Ecaterina, aveva lunghi e ricci capelli biondi, gli occhi azzurri e il viso bianco di porcellana.
Una bambola che era il simbolo dell’innocenza, della purezza e della fragile infanzia, candida e ignara di tutto, ma che va maneggiata con cura.
Quella bambola, se fosse caduta al suolo con sufficiente forza, si sarebbe infranta in mille pezzi, per questo Ana vi prestava sempre molta attenzione.
Ana era sempre molto cauta con tutto, anche quando sentiva sbraitare suo padre. Quando suo marito perdeva le staffe, Eliza aveva sempre visto la figlia restare al suo posto, in silenzio, a capo chino, come se sperasse di diventare una statua. Ana sapeva di non doversi mettere in mezzo alle ire dell’uomo; non avrebbe potuto fare nulla per aiutare sua madre.
<<Mamma, ci pensi … se fosse sempre così>>.
Le parole di Ana, però, si persero d’improvviso come fumo che si dilegui all’arrivo di una folata di vento più violenta del previsto.
La porta si aprì con un tonfo.
Una delle candele dell’ingresso si spense da sola.
*
Per istinto, Eliza rimase vicina alla figlia. Aveva sobbalzato, e il suo cuore aveva saltato un battito, quando l’uscio si era spalancato violentemente.
Soltanto lui avrebbe potuto farlo; quello era il suo modo personale di presentarsi, di far vedere chi fosse e, soprattutto, di far capire chi comandasse.
Eliza sgranò gli occhi quando lo vide sulla soglia. No, non era possibile. Doveva restare lontano una settimana, e invece …
E invece lui era lì.
Le guardava, con la sua solita espressione truce e adirata disegnata in volto. Un’espressione che sembrava una maschera che non fosse mai tolta e che l’uomo riservava sempre a Eliza e ad Ana, quasi madre e figlia fossero costantemente colpevoli di qualcosa. Forse di esistere.
Eliza trattenne il fiato ripensando alle ultime parole che Ana aveva pronunciato, pregando che lui non le avesse sentite, altrimenti sarebbero stati guai seri. Eliza non poteva sopportare l’idea di vedere suo marito avventarsi contro la bambina, soprattutto perché era certa che non sarebbe stata in grado di reagire per difenderla: aveva troppa paura di lui, e il suo spirito era troppo annientato per farsi forza.
Adrian si tolse il cappello e si richiuse la porta alle spalle con la stessa scarsa delicatezza con cui l’aveva aperta. Continuava a guardare sua moglie e sua figlia con rabbia e odio, forse persino con fastidio.
Eliza sentì che accanto a lei Ana si stava facendo piccola piccola, quasi tentasse di diventare trasparente. Senza guardarla le pose una mano sulla testa, cercando di infonderle quel coraggio che lei stessa non aveva. Si disse con infinita  tristezza che il sogno, il loro sogno, era finito.
Ogni cosa tornava quella di sempre prima del tempo; e quel che è abituale non fatica a riprendere possesso del luogo che gli appartiene. Così il terrore rinacque subito in Eliza, quasi come se non si fosse mai assopito.
L’uomo fece qualche passo in loro direzione, sempre scrutandole con collera e disprezzo, ma Eliza tirò un sospiro di sollievo, quando lo vide passare oltre, distogliere lo sguardo, e andare ad aprire l’armadio a vetro contenente i liquori.
Il suo, però, non era che un sollievo momentaneo: Adrian non si limitava certo a un goccetto, e probabilmente, entro la fine della serata, sarebbe stato sufficientemente sbronzo da perdere il controllo, malmenarla per un nonnulla e, forse, abusare anche di lei.
Adrian era un alcolizzato, ma disgraziatamente non beveva mai a sufficienza per perdere conoscenza o la capacità di controllare il proprio corpo. Sembrava quasi lo facesse apposta, per essere in grado di farle del male.
Eliza notò Ana, che con la coda dell’occhio osservava il padre versarsi un bicchiere di whisky e trangugiarlo come fosse acqua. Infine la bambina abbassò il capo, sempre come per non farsi vedere, e la madre scorse nel suo sguardo quella stessa paura che conosceva e provava anche lei.
Ma sembrava che Adrian non avesse sentito le parole di Ana, perché dopo la sua prima bevuta non la degnò nemmeno di uno sguardo, come in fondo faceva quasi sempre.
Per Eliza era un sollievo sapere che Ana, per lui, era invisibile.
Camminando deciso e con passo pesante (forse un po’ troppo pesante), Adrian raggiunse il posto di capotavola e, dopo aver fatto strisciare con forza la sedia sul pavimento, si mise comodo. Immancabilmente aveva portato la bottiglia di whiskey con sé, quasi fosse il suo angelo custode.
Si versò un nuovo bicchiere.
Eliza non capiva perché Adrian fosse già tornato dal suo viaggio d’affari e, di certo, non aveva il coraggio di domandarglielo. Il fatto però la turbava, e non solo perché il suo bel sogno di una settimana di pace da sola con Ana si era guastato, ma anche per via di quel suo sguardo troppo arrabbiato, di quel suo passo troppo pesante. Forse qualcosa non era andato secondo i suoi piani e, poco ma sicuro, Adrian non si sarebbe senz’altro sfogato per conto suo.
<<Allora! Quando diavolo arriva questa cazzo di cena?>> sbraitò l’uomo rompendo il silenzio come si lacera un tessuto. Eliza sobbalzò di nuovo, colta alla sprovvista, benché in fondo si aspettasse un’uscita del genere. Eppure, nonostante tutto, non ci avrebbe fatto mai l’abitudine.
Ogni volta, per lei, era come ricevere un colpo in pieno viso dal quale doversi riscuotere.
<<Ti vuoi muovere, maledetta stronza!>> urlò di nuovo, battendo anche il pugno sul tavolo.
Eliza si sforzò di tornare in sé nonostante lo choc che subiva ogniqualvolta la scena si ripetesse.
<<S-sì. Subito, caro>> accondiscese, con il capo chino.
Anche Ana teneva la testa bassa, lo notò guardandola di sottecchi.
Ana voleva sparire. Ana voleva non esistere.
Proprio mentre si voltava per dirigersi in cucina, Eliza lo sentì parlare furiosamente di nuovo: <<Siediti!>> stava ordinando ad Ana <<ora si aspetta la cena>> concluse.
Eliza aveva paura di voltarsi a guardare, ma lo fece ugualmente.
Ana, sempre guardandosi i piedi, obbedì senza fiatare all’ordine del padre, e si posizionò a uno dei lati del tavolo, sistemando a terra con cura la sua bambola di porcellana dai capelli biondi.
Il centrotavola colmo di frutta, sgargiante di colori, ora sembrava avvolto da un’ombra sinistra, la stessa che presto si sarebbe propagata come un fiume nero in tutta la casa.
Prima di girarsi di nuovo, Eliza vide Adrian versarsi e scolarsi il terzo bicchiere della serata.
*
Dopo quei primi accenni di sfuriata, Adrian sembrava essersi chiuso in un ostinato mutismo, quasi fosse perso nei propri pensieri e nei propri fastidi.
Eliza non sentì alcun suono provenire dalla grande sala, mentre preparava la cena e, benché fosse atterrita e ancora spaventata, era contenta che Ana non dovesse subire da sola le ire dell’uomo.
Forse, per lui, essere in quella stanza con la bambina equivaleva a essere solo; e per Eliza era meglio così.
Quando infine tornò in sala, trovò la stessa identica scena che aveva lasciato in precedenza, quasi i corpi si fossero congelati. In effetti, sembrava quasi fare più freddo lì dentro, tutto a un tratto.
Eliza non si sarebbe stupita di vedere il proprio fiato condensarsi in nuvole di vapore.
Era tutto gelido in quella stanza, credeva sarebbe potuta morire assiderata.
Invece avanzò, con il piatto di minestra stretto tra le mani. Lo posò di fronte al marito, il quale doveva sempre essere servito per primo.
Lui, ovviamente, non ringraziò. Si limitò a lanciarle un’occhiata disgustata, quasi lo urtasse ricevere la cena da un essere che considerava tanto inferiore.
Eliza non ci fece troppo caso. Piuttosto, si sentì raggelare ancora di più, quando lui si versò un altro bicchiere.
Nel giro di pochi minuti, infine, la famiglia al completo sedeva al grande tavolo della sala, con Ana a uno dei lati, e i genitori uno di fronte all’altro.
La bambola di porcellana a terra.
Le candele ancora danzavano con la loro luce, ma ora questa dava l’idea di una danza spettrale, quasi seguisse una musica eseguita dal diavolo.
Ana mangiava in silenzio e con gli occhi bassi; anche Eliza non pronunciava parola e si era sforzata di convincere il suo stomaco a provare un po’ di appetito nonostante la situazione sgradevole e imprevista.
Ma il silenzio, quasi gradevole e promettente, non durò a lungo.
<<Che schifo. Questa porcheria è già fredda! Non si può mangiare così>> sbottò Adrian di punto in bianco, scaraventando la forchetta sul tavolo e tirando un pugno sul legno.
Le stoviglie tintinnarono per il colpo, Eliza sobbalzò e non finì di portarsi il cucchiaio alle labbra.
Ana, dal canto suo, ancora una volta tentò di farsi sempre più piccola.
<<Come si può mangiare un simile orrore, eh? Credi di cucinare per la mensa dei poveri?>> .
Un nuovo rimprovero, un nuovo pugno sul tavolo.
Adrian si versò un altro bicchiere di whiskey, lo trangugiò per poi alzarsi di colpo.
<<Con chi credi di avere a che fare, eh, stronza?>> abbaiò facendosi avanti.
Eliza, terrorizzata, si alzò dalla sedia tremante.
Sapeva che cosa avveniva quando lui le andava incontro in quel modo, quando le parlava così.
Niente avrebbe potuto fermarlo, niente poteva valere come ragione per farlo desistere, per questo Eliza non disse niente, eppure l’istinto le suggeriva di scappare, come ogni volta.
Ma c’era Ana.
Ana che si rimpiccioliva sempre di più.
Infine, Adrian le fu addosso. Eliza si sentì investire dal suo alito mefitico carico di liquore, ma ebbe troppa paura per dimostrare di esserne disgustata.
<<Credi che perché tu sei una persona inutile, debba esserlo anch’io?>> tuonò con ferocia, sputandole addosso schizzi di saliva contaminata dall’alcool. <<Andiamo>> ordinò infine, prendendola per un braccio e iniziando a trascinarla verso il corridoio.
Eliza in quel momento iniziò a gridare. Sapeva che questo l’avrebbe fatto infuriare di più, ma era più forte di lei, lo era sempre stato, non poteva sopportare l’idea di dover essere picchiata.
Invano tentò di divincolarsi mentre lui la tirava dietro di sé come un vecchio straccio da gettare via.
La obbligò a salire i primi gradini che li avrebbero condotti al piano di sopra, verso la loro stanza da letto. Il nido feroce del falco.
Eliza però si buttò a terra, tentando il tutto per tutto per impedirgli di farle del male.
<<NOOOOOOO!!>> urlava nel frattempo <<NOOOOOOO!!>>.
Adrian, allora, la prese per i capelli e glieli tirò con forza.
<<Ti ribelli, inutile stronza? Andiamo, andiamo>> ruggì.
Infine, Eliza si ritrovò costretta a salire le scale dalla forza dell’uomo: un blando tentativo di ribellione è sfiancante per un corpo abituato a sottomettersi.
In camera da letto, poi, ci giunsero in fretta.
Una volta richiusosi malamente la porta alle spalle, Adrian la scaraventò a terra e le fu subito addosso. Le sferrò un primo calcio all’altezza delle costole.
Eliza si morse con forza il labbro inferiore per impedirsi di urlare.
<<Allora, stronza! Non ti ribelli più, ma che strano>> esordì l’uomo, prima di infierire sulla poveretta stesa a terra con un secondo calcio.
Questa volta Eliza non poté trattenersi e urlò, scoppiando il lacrime.
<<Vedi cara, ci sono tante belle cose che devi far entrare nella tua testa vuota, la prima delle quali è che qui comando io>>, un terzo calcio, un nuovo urlo da parte di Eliza.
<<Non è fantastico?>> continuò Adrian con enfasi, poi si chinò e prese la moglie con violenza per i capelli, obbligandola a guardarlo in viso.
Di nuovo quel puzzo disgustoso di liquore, di nuovo la sua saliva ripugnante che le schizzava in viso.
<<Hai capito, stronza? IO comando>> proseguì alzando il tono e scuotendola per i capelli come se fosse un cane preso dalla collottola.
<<E il mio cibo non deve mai essere freddo, capito stronza?>> e, detto questo, Adrian la scrollò di nuovo, per poi sbatterla a terra e pestarle di proposito una mano con la scarpa mentre si tirava di nuovo eretto.
Eliza gridò, piangendo più forte.
Adrian invece rise, e di gusto.
<<Oh, ma quanta foga. Che disperazione. Non solo stronza e inutile, anche piagnona>>, osservò quasi fosse divertente, allargando le braccia.
<<Stronza, inutile e piagnona! Abbiamo fatto tombola, signori>> continuò alzando la voce, dunque si abbassò nuovamente su di lei e le tirò un pugno.
Il colpo non fu troppo forte, forse non le avrebbe nemmeno lasciato un’ecchimosi, ma la stordì per un secondo.
Poi, tutto di colpo si fermò.
Eliza ebbe appena il tempo di riconoscere il suono cigolante della porta che veniva aperta e si tirò a sedere mentre il marito si alzava in piedi.
<<Ana!>> chiamò spaventata, quando vide la figlia in piedi all’entrata della stanza.
Ana non aveva mai fatto una cosa del genere, perché quella sera aveva voluto vedere?
La bambina aveva il terrore negli occhi, l’infanzia sgretolata da quel che stava vedendo sembrava colarle dal viso.
Stringeva a sé la sua bambola dai lunghi capelli biondi.
<<Brutta piccola …>> fece Adrian tra i denti, indispettito, poi si diresse a passo veloce verso la porta. Ana, vedendo il padre correre verso di lei, scappò spaventata.
Quei secondi, per Eliza, furono i più lunghi e terrorizzanti che avesse vissuto.
Ana era fuggita rapidamente, forse per raggiungere la sua stanza e ormai la donna non la vedeva più.
Adrian correva verso l’entrata della stanza e sembrava una belva feroce che insegua la preda che gli ha fatto torto.
Eliza riuscì solo a immaginare quel che avrebbe potuto farle, e il solo pensiero era orribile.
La sua bambina malmenata, non poteva sopportarlo.
Il cuore le martellava impazzito nel petto, quasi volesse esplodere per poi divorarla.
Avrebbe voluto morire in quell’istante. Avrebbe voluto che tutto sparisse.
Ma poi, all’improvviso, le sembrò di tornare a respirare: Adrian non aveva intenzione di seguire Ana, aveva soltanto richiuso la porta sbattendola con forza.
Eliza pianse più forte quando Adrian tornò verso di lei e iniziò a schiaffeggiarla.
Pianse di gioia, perché per Adrian, Ana era invisibile.
*
La bimba si sveglia di soprassalto a causa del rumore della porta che viene aperta.
È piena notte, e lei dorme abbracciata alla sua bambola dai lunghi capelli biondi.
Chi è entrato nella sua stanza non si è preoccupato di fare troppo silenzio; voleva svegliarla.
Ancora intontita dal sonno apre e richiude più volte gli occhi, stira le membra, e guarda in direzione dell’ingresso.
È gelida questa notte.
E la stanza è buia, vede soltanto una sagoma che se resta ferma lì a guardarla, dopo aver richiuso la porta.
A chiave.
Ci spera, per un momento.
<<Mamma…>> azzarda in un sussurro, ma sa che non è lei.
È lui.
Lo sente respirare.
Congelata dalla propria paura, impossibilitata a muoversi, lo guarda. Si tiene il lenzuolo appena sotto gli occhi, quasi nascondergli il respiro potesse farlo desistere.
Ma lui si avvicina, ed è pietrificante quell’espressione che ha disegnata il volto. Se fosse un po’ più grande, la bimba capirebbe fin da subito le intenzioni dell’uomo, ma questa notte non sa cosa aspettarsi.
L’aria è tanto gelida.
Sa per certo, però, che non è lì per farle del bene.
E si avvicina. Si avvicina. Indossa solamente la vestaglia.
La sta guardando, la bimba lo sa, anche se è buio.
Ad ogni passo l’uomo è sempre più prossimo al letto dove lei giace congelata dal terrore.
Quando ormai non gli mancano più che pochi passi per raggiungerla, la bimba si copre completamente con il lenzuolo, sperando di poter sparire all’istante.
Sarebbe bello non esistere più, essere gelida, davvero.
Ma poi sente il suono amplificato dei suoi ultimi passi. Con una mano tiene stretta la sua bambola, con l’altra il lenzuolo con il quale si copre la testa.
Ma poi il lenzuolo scompare e la bimba comprende di essere sola. E perduta.
Lui è lì di fronte a lei.
E sorride.
Da fuori, colpi ripetuti e disperati sulla porta chiusa a chiave e il suo nome urlato tra le lacrime.
*
Eliza non seppe mai che cosa di preciso la svegliò in quella notte gelida, fu soltanto certa di non poter più dormire oltre.
La sera precedente, Adrian si era stancato abbastanza presto di malmenarla e la donna si era detta di essere stata tutto sommato fortunata, perché lui non le aveva fatto granché male. Forse avrebbe avuto qualche dolore per due o tre giorni, ma nulla che non si sarebbe risolto in fretta e, considerando com’era andata altre volte, Eliza aveva quasi avuto una buona serata.
Dopo le percosse, l’uomo era crollato sfinito a letto, addormentandosi all’istante.
Eliza non aveva avuto la forza né il coraggio di andare da Ana, non voleva mostrarle i residui del suo terrore e poi c’era anche la vergogna. Tanta. Troppa.
Quando questa si fosse affievolita, forse, le avrebbe raccomandato di non intromettersi più in una situazione come quella, per il suo bene.
Le avrebbe anche detto che era stata fortunata.
Forse, però. Perché non sapeva se se la sarebbe mai sentita di affrontare con lei un simile discorso.
Quella notte, però, quando aprì gli occhi all’improvviso, non pensò nemmeno per un attimo alle parole che forse, un giorno, avrebbe rivolto a sua figlia per salvaguardarla.
L’aria era troppo gelida quella notte e questo era terrorizzante.
Si tirò a sedere sul letto, concedendosi una smorfia di dolore e si pietrificò, quando si rese conto che Adrian non era sdraiato accanto a lei. La coperta, dal suo lato, era tirata indietro.
Ci mise qualche secondo prima di riscuotersi. Era spaventata, ma ancora non ci pensò.
Si limitò ad accendere svelta il lampada a olio che aveva accanto, lo sollevò e, indossata la vestaglia, uscì dalla stanza.
Camminare a piedi nudi sul pavimento ghiacciato di quella notte era come farlo direttamente sulla neve, eppure c’era qualcosa di più spettrale e agghiacciante su quelle lastre fredde.
Camminava in silenzio, ma era come sospinta da sussurri disperati, da gelidi richiami d’avvertimento. Il cuore iniziò a batterle più forte prima ancora che potesse capirne il perché.
Quando raggiunse la porta della stanza di Ana non avrebbe mai pensato di trovarla chiusa a chiave dall’interno, per questo quello stesso suo cuore impazzito le saltò in gola con violenza.
Provò ancora una volta, e una seconda. Niente.
Per qualche istante accostò l’orecchio al legno ma non sentì niente; ugualmente iniziò a bussare con insistenza alla porta di sua figlia.
<<Ana! Ana! Apri la porta, ti prego! Apri la porta!>> si ritrovò a gridare preda dell’angoscia.
Lui era lì dentro, non poteva essere altrimenti e quella volta non c’erano alternative: Adrian l’avrebbe picchiata per la sua sfrontatezza, ma per farlo, aveva atteso la notte, quando i lupi possono agire indisturbati.
<<Ana, ti prego! Apri la porta!>> una nuova supplica disperata, nuovi violenti colpi contro la porta.
Poi, improvvisamente, quell’urlo. E quella risata.
Disperata tentò ancora una volta di aprire la porta, provò a sbloccare la serratura e persino ad abbattere l’uscio con dei colpi della spalla, ma fu tutto inutile.
<<Ana! Ana!>> urlò ancora sconvolta, tra le lacrime.
Si era aspettata di sentire i colpi iniziare da un momento all’altro, ma non fu così.
Dall’interno della stanza sentiva arrivare soltanto silenzio e questo l’agghiacciò. Tesa e senza fiato accostò l’orecchio alla porta: al primo momento non sentì niente, poi la consapevolezza dell’orrore la travolse come un fiume in piena fatto d’acqua gelida.
Sentì quel pianto sommesso.  E sentì quel respiro accelerato.
In quell’istante comprese, e fu devastante. Atterrita si portò una mano alle labbra, convinta che non avrebbe più ripreso a respirare.
Sapeva che cosa stava succedendo all’interno della stanza ed era tutto più orribile di quanto avesse immaginato; perché non credeva che Adrian sarebbe arrivato a  quello, non era mai riuscita a immaginarlo.
Quando la coscienza la destò dallo choc, si fiondò nuovamente contro la porta. Lacrime gelide le rigavano il volto, urla strazianti fuoriuscivano dalle sue labbra.
Era sempre stata certa che non avrebbe reagito qualora Adrian si fosse avventato su Ana, ma ora che stava avvenendo, Eliza sapeva che non era vero.
Il suo istinto materno le traboccava dalla pelle ma non poteva dirigerlo verso Ana.
La porta era chiusa a chiave.
La sua bambina era lì dentro, che piangeva terrorizzata, e lei non poteva essere lì per difenderla.
La sua bambina, che veniva violentata dal padre.
Allo stremo delle forze, Eliza cadde in ginocchio davanti alla porta.
Pronunciò di nuovo il suo nome nell’infinto oceano della sua disperazione, ma fu sempre invano.
Ancora colpiva il legno con i pugni, furiosamente.
E pianse. Pianse. Pianse.
Pianse.
*
La bimba, seduta per terra, ha i capelli sciolti che le ricoprono il viso; la bambola bionda tra le piccole mani.
La bimba piange. Non sa esattamente che cosa le sia accaduto, sa soltanto che si sente terribilmente sporca.
Indossa ancora la camicia da notte bianca, ma a lei sembra che questa sia macchiata.
Sente il sangue che le cola tra le gambe, ma anziché essere caldo, è un rosso rivolo gelido.
Anche il sole che è appena sorto, è gelido.
La bimba singhiozza, disperata.
Di quella notte ricorda la paura e il dolore, ma soprattutto l’insopportabile e terribile freddo.
Perché si era sentita gelare, nonostante quel corpo caldo che la sovrastava.
Era stato come morire, ma forse morire sarebbe stato meglio.
Ora, intorno a lei, è tutto sporco, tutto gelido, tutto orribile.
Abbassa lo sguardo annebbiato dalle lacrime sulla bambola che ancora stringe  a sé. Sì, anche quella è diventata orribile. Anche lei è sporca e disgustosa.
Soprattutto, la bimba nota quanto sia sporco il suo sorriso.
Prima d’ora l’aveva sempre adorato, ma adesso lo trova assolutamente insopportabile.
Non esistono sorrisi in quel mondo gelido in cui sente di essere precipitata, solo orribili smorfie di rabbia, terrore e paura.
Ed è in una di queste smorfie tremende che si tramuta il suo volto, nel momento in cui inizia a infierire sui bei capelli biondi della bambola.
Non le importa di rompersi le unghie, di ferirsi le dita. La bimba le strappa violentemente quei capelli che le erano sempre piaciuti tanto.
È diventata orribile quella bambola, ma così non basta, deve essere ancora peggio.
Non va più maneggiata con cura, tanto vale che si rompa.
Anche la bimba si sente rotta.
Una nuova, terribile smorfia le si disegna in viso quando solleva la bambola oltre la testa e con forza la scaraventa al suolo.
I cocci del viso di porcellana si sparpagliano sul pavimento; i capelli biondi giacciono anch’essi a terra, come un’orribile protuberanza che vada eliminata.
I capelli della bimba, invece, ancora sciolti, continuano a ricoprirle il volto.
*
Eliza aveva urlato accovacciata davanti alla porta della stanza di Ana fino a quando questa non si riaprì con forza. Lui, uscendo come se niente fosse, si era fermato per un attimo a guardarla e le aveva mostrato un sorriso trionfante. Lei era rimasta seduta a terra, incapace di reagire, conscia dell’orrore che quel mostro si era lasciato alle spalle.
L’aveva osservato mentre si allontanava, desideroso di tornarsene a dormire e si era sentita completamente svuotata.
Dall’oscurità che aleggiava nella stanza a cui era vicina, sentiva provenire ancora quel pianto sommesso. Era come il lamento spaventato di un cucciolo ferito e sembrava nascere dal buio stesso.
Eliza si era stretta le gambe al petto e aveva pianto disperata.
Non osava raggiungere Adrian in camera da letto, ma neanche avvicinarsi a Ana. Sentiva che sua figlia era lontana, come intrappolata in un’altra dimensione.
Eliza, invece, era preda del freddo: i piedi congelati dal pavimento sembravano irradiarle il gelo per tutto il corpo, fino ad attanagliarle le membra in una morsa atroce.
Tra le lacrime, si chiedeva che cosa avrebbe potuto fare.
Se fosse riuscita ad abbattere la porta, mentre questa era bloccata, avrebbe salvato Ana; ma ormai Ana non poteva più essere salvata e lei si sentiva morire.
Niente sarebbe più servito, niente avrebbe aiutato sua figlia.
Devastata dai singhiozzi, Eliza si sentiva perduta perché la vita di sua figlia si era sgretolata nel peggiore dei modi e lei non aveva potuto impedirlo.
Eliza non seppe per quanto tempo continuò a piangere con le ginocchia strette al petto, sentendosi demolire internamente, ma si alzò poco dopo che l’oscurità fu disfatta dal beffardo e gelido sole che sorgeva.
Non era pronta ad affrontare quello che l’aspettava all’interno di quella stanza, ma non aveva altra scelta. Scossa dai brividi, si mosse come un fantasma.
Per qualche attimo sostò sulla soglia: le lacrime si erano ormai inaridite sul suo volto, ma le venne nuovamente voglia di piangere, quando vide Ana alzare la sua bambola preferita sopra la testa e scaraventarla al suolo facendole infrangere il viso di porcellana in mille pezzi.
È così che ti senti? Infranta?
Ma non ebbe il coraggio di chiederglielo.
Eliza notò che Ana si era rivestita e che stava piangendo.
Tentò di respirare a fondo, ma non ci riuscì. Sembrava non essere più in grado di respirare.
Infine si fece forza, e le si avvicinò.
Senza dire una parola la prese per un braccio e l’aiutò ad alzarsi da terra; le tirò indietro i capelli, scoprendole il viso e avrebbe voluto morire quando scorse la sua espressione e le sue lacrime.
Asciugò queste ultime con i palmi delle mani, sapendo che questo gesto non sarebbe valso a cancellare ogni cosa.
Ana era macchiata e lo sarebbe rimasta in eterno. Che cosa poteva fare per lei, ormai?
Non poteva lasciare Adrian: per come andavano le cose in Romania, avrebbero potuto affidare a lui la bambina, ma non poteva nemmeno lasciare che l’abominio di quella notte accadesse ancora.
Mentre rifletteva, Eliza tolse alla bambina la camicia da notte.
Ana non oppose molta resistenza, ma iniziò a tremare non appena fu nuda. Eliza le toccò la pelle: era gelida. E non sentiva più quel buon odore che scaturiva da lei, dai suoi capelli, dalla sua biancheria. Eliza le avvertiva addosso soltanto il tanfo di lui.
Tentando di sopportarlo, prese Ana in braccio e la fece sedere sul letto. La sua pelle si era fatta così terribilmente bianca. Eppure il sangue le colava tra le cosce che la bambina serrava con forza.
Eliza si assentò un momento per andare a prendere uno straccio bagnato, poi iniziò a ripulirla, sempre in silenzio, e mentre l’acqua gelida lavava via il sangue di Ana, Eliza cominciò a darsi una risposta.
Se non poteva lasciare suo marito e non voleva che la violenza su Ana si ripetesse c’era una sola cosa che potesse fare.
Altre volte l’aveva presa in considerazione, dopo essere stata picchiata da lui, ma mai seriamente. Era sempre stato come un desiderio lontano, inafferrabile, quasi appartenente a qualcun altro.
Ma ora, invece, era vivido e spietato e, soprattutto, Eliza era certa che fosse l’unica cosa da fare.
L’unica soluzione, per Ana.
Perché in quel momento la bimba piangeva, ma forse un giorno avrebbe dimenticato.
La lavò in fretta, poi la rivestì.
Sempre senza che Ana si ribellasse le pettinò i capelli e glieli legò come faceva sempre, poi la costrinse a voltarsi verso di lei. La guardò in viso. Le lacrime non cessavano di bagnarle il volto, ma non erano queste l’aspetto più orribile percepito da Eliza. Fu il gelo, che la colpì.
Eliza l’abbracciò. E fu ancora più certa di doverlo fare.
*
Quella stessa mattina Eliza uscì di casa molto presto, portando Ana con sé, e si procurò quel veleno in polvere.
Le costò parecchio, ma non le importò.
Voleva che tutto finisse il più presto possibile e non ammetteva la possibilità che ad Adrian fosse consentito un giorno in più di vita.
Tra lei e Ana, per tutto il tempo, regnò soltanto un gelido silenzio.
La mano della bimba, che Eliza stringeva nella sua, era come l’inerte arto di un morto.
Agì quella stessa mattina.
Quando madre e figlia rientrarono, Adrian non si era ancora alzato, ma l’uomo fu sveglio nel giro di venti minuti.
Eliza gli fece trovare pronto il suo giornale quotidiano sul tavolino accanto alla sua poltrona preferita e, senza dire una parola, si prodigò a preparargli il tè.
Prima, però, aveva riportato Ana nella sua stanza, lasciandola sola.
Adrian si comportò come se niente fosse e nulla fosse successo. Con grande interesse leggeva le notizie riportate sul quotidiano e non fece caso a quel mezzo sorriso spento che si disegnò sulle labbra della moglie, quando questa gli portò la tazza fumante.
Non era certo zucchero, la polvere bianca che Eliza vi aveva versato all’interno, poco prima.
In realtà, quello di Eliza avrebbe voluto essere un vero e proprio sorriso, ma non le riuscì, perché il ricordo di quella notte, l’idea di lui che schiacciava il fragile corpo di Ana, le faceva ancora troppo male.
Adrian bevve.
Quando iniziò a lamentarsi e a portarsi una mano alla gola che gli si chiudeva e gli bruciava, Eliza rimase a osservarlo rivolgendogli sempre lo stesso mezzo sorriso spento.
Continuò a guardarlo fino a quando non fu certa che fosse morto.
In quegli istanti non provò alcuna emozione; era diventata completamente gelida.
Eppure, l’aveva fatto per lei.

*

Eliza non avrebbe saputo dire se avesse mai pensato o sperato di farla franca. Forse, l’idea non le era nemmeno venuta in mente né l’aveva considerata, ma stava di fatto che l’avevano arrestata quello stesso giorno.
In Romania, in quegli anni, una donna non poteva assolutamente niente, fu per questo che non si premurarono nemmeno di accertarsi dello svolgimento dei fatti. Quando, infine, si trovò il testimone che le aveva venduto il veleno, Eliza fu accusata irrimediabilmente dell’omicidio di suo marito.
Ricordava vagamente il momento in cui l’avevano portata via, tutto era stato così confuso in quegli istanti, che quasi faticava a distinguerli da un sogno.
L’unica cosa chiara e ancora vivida nella sua mente era stata l’espressione disegnata sul viso di Ana. La bambina non aveva pianto vedendo arrestare sua madre, non aveva protestato; era rimasta in un angolo, in silenzio, mostrando quel terribile odio negli occhi.
Eliza ne fu certa fin dall’inizio: era lei che Ana odiava, perché la stava lasciando da sola. Quello sguardo furente sembrava pronunciare chiaramente due sole e terribili parole: Sei gelida.
Non seppe dire perché, ma Eliza ne ebbe la certezza.
Sua figlia credeva che lei avesse agito con freddezza, uccidendo per vendetta, senza però preoccuparsi del fatto che sarebbe stata proprio lei a rimetterci.
Non si era data pensiero, sapendo di abbandonarla.
Per questo Ana la detestava, ed Eliza era lacerta dal pensiero che la figlia non avrebbe mai saputo la verità.
Forse era diventata davvero gelida, e in lei non esisteva più niente, ma non aveva agito in quel modo per vendicarsi, ma soltanto per proteggerla.
Senza Adrian, Ana forse avrebbe dimenticato, con il tempo.
Ana credeva che sua madre fosse stata egoista, ma il suo, altro non era che un sacrificio.
Offriva se stessa in cambio dell’oblio della sua bambina, in cambio della sua salvezza.
Aveva creduto che non sarebbe stata in grado di scriverle quell’ultima lettera, ma alla fine le parole, seppur dolorose, scorsero dalla sua mano come le acque di un fiume in piena.
Un gelido fiume che fermava il sangue.
Aveva tentato di dirle tutto; o quasi. Non aveva mai menzionato la violenza che Ana aveva subito, ma aveva cercato di farle capire quel che più le premeva.
“…sii libera, Ana. Fai a pezzi il passato e continua a vivere. Con il tempo potrai dimenticare, e poi il tempo racconterà la sua storia, dirà se ogni cosa è stata vana. Comunque vadano le cose, tu chiudi gli occhi e dimentica.
Dimentica anche me.
Con affetto,
tua madre.”
Così si concludeva la prova più difficile della sua vita. In confronto, uccidere Adrian era stato molto più semplice.
Sul tavolo striminzito, la candela quasi del tutto consumata stava finendo di bruciare, presto si sarebbe spenta. Ma presto sarebbe anche sorto il sole.
Eliza si chiese se aveva realmente paura di morire, ma subito si rispose di no. Era terrorizzata dall’idea che Ana non sarebbe mai riuscita a comprendere, né a perdonarla.
Temeva anche che non avrebbe mai ricevuto la sua lettera o, peggio, che l’avrebbe stracciata lei stessa senza leggerla.
Perché Ana la odiava e, nella sua mente, Eliza continuava a sentire la sua voce ripeterle che era gelida. Ed Eliza sentiva che Ana aveva ragione.
Quando sentì il rumore del chiavistello e il cigolio della porta della cella che veniva aperta, il cuore di Eliza sembrò sgretolarsi. Si strinse forte al petto la lettera che aveva scritto ad Ana, come per darsi la forza di ricomporlo.
Non aveva paura di morire, ma non avrebbe voluto che tutto finisse così. Avrebbe voluto essere con Ana, qualora lei avesse pianto, avrebbe voluto abbracciarla forte per aiutarla a dimenticare.
Invece Ana era da sola.
Eliza si alzò in piedi senza attendere che la guardia glielo ordinasse e, prima che le fossero legate le mani dietro la schiena, consegnò il foglio piegato all’uomo in uniforme.
<<Per mia figlia>> disse in un sussurro.
L’uomo non rispose. Le prese la lettera di mano e la infilò nella tasca interna della giubba. Eliza la vide sparire come la vita si era dileguata da lei ben prima che fosse aperta la botola.
Le lacrime ancora le bagnavano il viso quando precedette la guardia fuori dalla cella, diretta verso l’esterno e verso la sua condanna, ma non stava più piangendo.
Le sue, non erano che lacrime morte, congelate.
Gelide, come lei.

6/ 21 marzo 2014

 
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*lady in blue*