C'è da dire che il titolo apparentemente strambo di questa raccolta sta acquisendo sempre più senso, viste le temperature praticamente autunnali, ma suppongo siano dettagli. E sì che a Barcellona c'erano trentasette gradi! I misteri del clima ...
Ma veniamo a noi: ultima puntata di luglio. Oggi presento un nuovo racconto, scritto nella prima metà del mese di maggio. Si tratta decisamente di una Black Story, anzi, onestamente penso di poterla definire davvero molto pesante, ma un'idea è un'idea, e non si scarta perché potrebbe non essere accettata.
La cosa strana è l'unione di due diversi spunti avuti in momenti molto distanti, che ha dato vita al racconto.
Il primo, piuttosto vago e astratto, mi suggeriva di scrivere una storia dai toni dark intitolata, per l'appunto, "la sposa", ma non avevo ancora in mente dove sarei andata a parare. L'idea era stata quindi mollata lì, quasi nel dimenticatoio. Il secondo spunto, nato separatamente, mi incalzava a prendere in considerazione un certo argomento che, per me, è grande fonte di rabbia. Non voglio anticipare nulla in proposito, sarà sicuramente tutto chiaro durante la lettura. I due spunti si sono quindi fusi senza che ci pensassi, natuarlmente.
Avevo anche la fissazione di chiamare Jillian la mia protagonista, e spero di aver dato una spiegazione plausibile al fatto che questo nome appartenga a una ragazza dell'est.
Non lasciatevi ingannare dal primo paragrafo (che sembrerà assolutamente lontano anni luce dalle mie corde e dalla mia solita narrazione), la storia, nel progredire, si concentrerà su contenuti molto forti.
Questo è un racconto che comincia con un sogno a occhi aperti e si conclude con un altro, ma ci sarà qualcosa a renderli molto diversi, seppur accomunati.
Sono sicura che ci fosse anche qualcos'altro che volevo dire a proposito, ma mi è allegramente scappato di mente, per cui lasciamo perdere...
Anche in questo racconto il freddo, ovviamente, sarà un elemento chiave.
Buona lettura e attenzione ai contenuti pesanti. MOLTO pesanti.
LA SPOSA (Jillian)
Era passato tanto tempo dall’ultima volta che Jillian aveva
fatto quel sogno a occhi aperti.
Davvero tanto tempo.
I capelli neri, ricci
e lunghissimi, le cadono con grazia ai lati del viso, fino a posarsi soffici e
maestosi sull’abito bianco che indossa. Il suo abito da sposa.
Un sorriso radioso le
incornicia il volto e fa risplendere come non mai i suoi occhi azzurri come
zaffiri. Le mani e gli avambracci sono coperti da lunghi guanti bianchi di
pizzo, sui quali è ricamata una fantasia floreale. Tra le dita esili, il suo
bouquet.
Ne sente il profumo e
ne è inebriata.
Sul capo non indossa
un velo, ma un piccolo diadema d’argento, talmente brillante da apparire quasi
bianco.
In definitiva, è tutto
bianco intorno a lei: lo è la navata della chiesa, l’altare che l’attende sullo
sfondo. E anche il suo spirito sembra immerso in una bianca luce di gioia e di
speranza.
Ogni cosa, sul suo
cammino, non fa che risplendere.
E come potrebbe essere
diversamente?Quello è il giorno più felice della sua vita.
Suo padre le è
accanto, sorridente, anche se il suo sorriso sembra celare un lieve rammarico,
una punta di amarezza e malinconia.
L’uomo cammina con
lei, accompagnandola lentamente verso l’altare.
Jillian comprende il
suo stato d’animo: una volta raggiunta quella destinazione ormai imminente, lei
smetterà di essere la bambina di suo padre, e sarà effettivamente la compagna
di un uomo.
Jillian lo capisce, ma
non riesce a soffermarsi su quel pensiero se non per pochi secondi: è troppo
felice per fare propria la sofferenza altrui.
A ogni passo, il cuore
sembra accelerare la corsa nel suo petto ed è come se un po’ andasse a ritmo
con la dolce marcia nuziale che le allieta l’udito.
Jillian immagina che
anche il suo cuore si sia fatto bianco, tanto lo sente puro e traboccante di
gioia.
Due piccole damigelle
(anch’esse vestite di chiaro) le sorreggono lo strascico del lungo abito e
camminano seguendo il suo ritmo.
Sulle panche della
chiesa, parenti e amici la osservano estasiati e felici per lei. Jillian
giurerebbe che qualcuno di troppo sensibile e troppo commosso stia già
piangendo.
Anche a Jillian viene
quasi voglia di piangere tanta è la sua emozione; le viene da piangere e da
ridere al tempo stesso. È una strana sensazione, ma è la più bella che abbia
mai provato.
Non solo si sente
felice, ma anche libera, perché ama ed è riamata, perché il suo sogno è appena
cominciato.
Il dolce profumo di
fiori non giunge soltanto dal bouquet che stringe tra le mani lievemente
tremanti. L’intera chiesa è colma di fiori, quasi anch’essi volessero celebrare
il suo giorno, la sua nuova vita, la sua immensa gioia. Sono tutti fiori
bianchi.
Il profumo è così
avvolgente, così stranamente comprensivo che quasi le provoca un brivido.
Ma nulla è in grado di
farla rabbrividire come quella figura che l’attende in fondo al suo cammino,
girata di spalle.
Davanti all’altare, il
suo futuro marito è lì per lei.
Jillian sente che il
cuore le trabocca d’amore in modo quasi insopportabile, eppure non rinuncerebbe
mai a quell’emozione.
Presto sarà da lui,
presto gli stringerà le mani e lo guarderà negli occhi.
Presto coronerà il suo
sogno, divenendo sua moglie.
Avverrà.
Un giorno.
*
Jillian era nata nel 1987, in un piccolo paese dell’Ucraina
confinante con la Russia. I
suoi genitori l’avevano battezzata con un nome inglese come segno di
portafortuna, per augurarle una vita prospera e nel segno dei suoi desideri.
Jillian aveva trascorso la sua infanzia tra feste allegre e
vestiti variopinti, crescendo al ritmo di canzoni tradizionali, che sapevano di
favola.
Tante volte aveva danzato e cantato su quelle melodie, in
infinite occasioni vi aveva lasciato correre sopra la sua fervida immaginazione
di bambina.
Aveva volteggiato, Jillian, nei suoi abiti colorati, e nel
mentre aveva riso; riso fino a farsi venire le lacrime agli occhi.
I suoi splendidi capelli neri avevano volteggiato con lei.
Jillian era sempre stata felice durante l’infanzia, perché
era in grado di sognare e immaginare tante cose.
Teneva tanti sogni custoditi in sé, ai quali ricorreva
quando qualcosa non andava come previsto, oppure quando voleva allontanarsi
dalla realtà.
Di solito si trattava solo di qualche minuto, sufficiente
per ridarle il sorriso nei momenti di tristezza.
Ma quello, senz’altro, era il suo sogno preferito: Jillian
aveva visto e rivisto un’infinità di volte, nella sua mente, il giorno del suo
matrimonio così come se lo augurava.
Per lei era una visione splendida, quasi paradisiaca, e le
appariva talmente reale da essere arrivata a credere che fosse una sorta di
premonizione, e lei, in fondo, lo sperava.
In questa fantasia Jillian vedeva sempre il suo sposo girato
di spalle, perché non riusciva proprio a immaginarsi il suo volto, ma spesso di
era domandata come sarebbe stato. Jillian aveva voglia di crescere ed era
impaziente di conoscere l’uomo del quale si sarebbe innamorata.
Jillian era certa che avrebbe vissuto per l’amore e si
sarebbe accontentata soltanto di quello.
Poi, un giorno, era cambiato tutto.
Entrambi i suoi genitori avevano perso il lavoro e le
giocose feste si erano trasformate in carestia. Non solo loro, ma tutto il
paese si faceva via via più povero.
Jillian iniziò a indossare un unico abito, fino a quando non
fu troppo grande per starci dentro: ma anche quello nuovo era vecchio e
consumato, perché era appartenuto a qualcun altro prima di lei; forse a
un’intera generazione.
Jillian non era più così felice quando compì tredici anni,
doveva ammetterlo, ma tutto sommato andava avanti come poteva: spesso non
avevano di che sfamarsi, ma lei non voleva arrendersi. Non voleva rinunciare
alla vita e, soprattutto, non voleva rinunciare ai suoi sogni.
Jillian strinse i denti e affrontò un giorno dopo l’altro,
sicura che in qualche modo quell’incubo dovesse finire, che tempi migliori sarebbero
arrivati.
Fu con questa speranza nel cuore che, a diciannove anni,
affrontò quel lungo viaggio.
L’attendeva una nuova terra, un nuovo popolo e una nuova
lingua ma, soprattutto, un nuovo lavoro.
Non era il primo che svolgeva, ma nel suo paese aveva sempre
lavorato troppo e per pochi soldi, non riuscendo a racimolare abbastanza per sé
e la famiglia.
Invece sembrava proprio che in quella sua nuova casa le cose
sarebbero andate diversamente.
Molto, molto diversamente.
E sarebbero cambiate soltanto in meglio.
Un giorno si era presentato un uomo a casa sua: alto, ben
vestito, dai lineamenti piacevoli.
Sicuramente una brava
persona, si era ritrovata a
pensare la ragazza, senza nemmeno osservarlo con attenzione. Ma le era bastato
focalizzarsi su quel suo sorriso gentile, su quei suoi abiti da persona per
bene, sul tono sicuro e caldo della sua voce.
Jillian non ne aveva mai dubitato.
L’uomo aveva parlato prima con suo padre, poi con entrambi i
suoi genitori e, infine, aveva voluto tenere un colloquio anche con lei
personalmente.
Le aveva rivolto qualche domanda e Jillian non vi aveva
visto nulla di male all’interno.
Le aveva semplicemente chiesto se era disposta a lavorare
sodo, a impegnarsi per apprendere un nuovo mestiere che avrebbe potuto farle
fare strada.
Lei aveva risposto di sì, accompagnando la sua affermazione
con un deciso movimento del capo, come a voler intensificare il proprio
assenso.
Se quell’uomo le stava proponendo un impiego, aprendole
finalmente una via d’uscita dalla miseria in cui era precipitata da anni, lei
non si sarebbe certo fatta sfuggire l’opportunità.
Non le importava di dover faticare, non le importavano i
sacrifici.
Bastava poter finalmente intravedere una scintilla nel buio.
Non esitò nemmeno quando le fu chiesto se sarebbe stata
disponibile a trasferirsi in un altro paese per intraprendere questo nuovo
lavoro.
L’uomo ben vestito sembrò soddisfatto.
Solo dopo aver incassato il suo sorriso e le sue
congratulazioni per il grande senso di responsabilità che dimostrava, Jillian
gli domandò in che cosa sarebbe consistito questo impiego.
Niente di difficile,
all’inizio. Le aveva risposto il tale. Avrebbe
iniziato facendo le pulizie in un grande albergo, poi, qualora si fosse
dimostrata sveglia e capace, e avesse appreso la nuova lingua senza difficoltà,
avrebbe potuto fare da traduttrice, sempre nello stesso posto. C’era molta
gente ucraina che si fermava in quel paese. Aveva aggiunto infine.
Jillian era stata più che felice, addirittura raggiante
nell’accettare l’offerta.
Sarebbe partita dopo tre giorni e lei non stava più nella
pelle.
Sua madre, al contrario, aveva passato quegli ultimi giorni
a piangere e anche suo padre pareva molto cupo in volto. Sono tristi all’idea di lasciarmi andare via, così lontana da loro. Aveva
pensato la ragazza più volte e le si era stretto il cuore al pensiero
dell’affetto dei suoi cari.
Pensò che anche a lei avrebbe fatto molto male star loro
lontana, ma presto le cose sarebbero migliorate, e allora non ci sarebbe stato
più posto per le lacrime.
Forse, se tutto fosse andato per il verso giusto, Jillian
avrebbe portato a vivere con sé i genitori nel suo nuovo paese, dove forse
avrebbero potuto invecchiare serenamente.
Quando partì, Jillian lo fece con il sorriso sulle labbra,
anche se a stento riuscì a contenere il pianto.
Fu straziante salutare la sua famiglia, soprattutto perché
sua madre non aveva fatto che stringerla e singhiozzare.
E quei singhiozzi l’avrebbero poi accompagnata per tutto il
tempo del viaggio.
Ma Jillian aveva sorriso lo stesso, perché voleva pensare al
futuro.
Infine fu fatta salire su un camper; era ben tenuto e
pulito, e con lei avrebbero viaggiato altre ragazze, tutte più o meno della
stessa età. Qualcuna era anche più giovane, apprese più tardi, intorno ai quindici
anni. Di più vecchie ce n’erano poche e, comunque, lo erano relativamente: la
maggiore aveva ventidue anni.
Nessuna di loro sembrava conoscersi e, molte, non si
preoccuparono di stringere amicizia con le altre. C’era qualcosa, però, che le
accomunava tutte: quella scintilla di speranza negli occhi, che certamente era
contaminata dalla paura dell’ignoto, ma che nulla avrebbe potuto spegnere.
Quelle ragazze si auguravano tutte un futuro migliore,
lontane dalla miseria.
Tutte quante speravano di realizzare i loro sogni, in quel
nuovo paese.
Anche Jillian lo sperava per sé.
Con il cuore a mille si rifugiò in un cantuccio, restando
per conto suo.
E sognò.
Si concesse di rivivere il suo sogno preferito, quello
relativo al giorno del suo matrimonio.
Fu l’ultima volta.
*
Di quelle ragazze che viaggiarono con lei verso la nuova
destinazione e la nuova speranza, Jillian finì per conoscerne soltanto un paio,
ma avvenne dopo, solo alla fine del viaggio.
E alla fine dell’illusione.
Perché si capì subito, appena dopo l’arrivo, che non c’era
alcun lavoro promettente ad attendere le ragazze.
In fretta e furia erano state fatte vestire con abiti
succinti e di dubbio gusto (e Jillian non avrebbe mai dimenticato quegli occhi
famelici che la scrutavano mentre era stata costretta a spogliarsi di fronte a
diversi uomini), poi condotte a vari angoli di strada.
Avevano detto a ciascuna di loro di non provare a scappare,
perché, anche se le ragazze non lo vedevano, erano tutte sorvegliate.
Quegli uomini era bruschi, persino sprezzanti nei loro
confronti. Parlavano quasi tutti in ucraino, eccetto un paio, che dovevano
avvalersi della traduzione simultanea dei compagni; presumibilmente gente del
posto, legata al traffico di fanciulle provenienti dall’est.
La speranza negli occhi delle malcapitate si era spenta poco
a poco, a chi prima e a chi con un po’ di ritardo; alcune piangevano (e furono
punite a suon di ceffoni per questa loro debolezza), altre avevano talmente
paura da non riuscire neanche a muoversi.
Sembrava però che ognuna di loro avesse capito senza
difficoltà che cosa le aspettasse.
Jillian invece no.
Aveva paura, anzi, era terrorizzata, ma non riusciva a
realizzare la gravità dei fatti e, di conseguenza, a inquadrare gli
avvenimenti.
Come sotto choc attese che l’ultimo viaggio in auto finisse
e si rifiutò di fare caso a quella mano che si trastullava tra le sue gambe,
finendo per non reagire.
Pensò a quelle dita bramose e impudiche e a quegli ansiti
pronunciati come a un terribile incubo e quasi si convinse che presto sarebbe
tutto scomparso nell’oblio, perché alla fine, per quanto atroci siano certi
sogni, la luce arriva sempre a liberare la mente.
Ma poi l’auto si fermò a un angolo poco illuminato; l’uomo
che le sedeva accanto le consegnò un foglietto spiegazzato.
Infine ci fu soltanto silenzio per qualche secondo, ma solo
fin quando l’accompagnatore non le tirò una sberla.
<<Scendi>> comandò irritato. Jillian si toccò la
guancia offesa; la sentì calda e quasi pulsante.
E pulsante era anche la rabbia che iniziava a farsi strada
in lei, convincendola che quello non era affatto un orribile incubo.
Era ancora peggio, perché tutto era vero.
Avrebbe voluto saltare addosso a quell’individuo che puzzava
di marcio, avrebbe voluto cavargli gli occhi, ma aveva troppa paura.
Si sentiva persa perché era lontana da casa, perché niente
sarebbe andato come aveva sperato; fu in quell’istante che comprese che non
sarebbe più stata in grado di sognare.
<<Che cosa faccio qui?>> domandò con un filo di
voce, sempre tenendosi la mano sulla guancia.
<<Batti>> osservò l’altro laconico <<lì
c’è scritta ogni cosa che devi sapere>> e detto questo indicò il foglio
che Jillian ancora teneva in mano e che quasi aveva dimenticato.
La ragazza non fece in tempo ad abbassare di nuovo lo
sguardo su di esso che il primo ordine spietato che aveva ricevuto si ripeté,
abbattendosi su di lei come un nuovo schiaffo.
<<Scendi>>.
Tremante e terrorizzata, Jillian obbedì. Sapeva che né
quella notte né quelle a venire sarebbero state piacevoli, ma non voleva
passare un minuto di più in macchina con quel tale.
Un attimo prima che chiudesse la portiera la mano dell’uomo
le ghermì il polso come un’aquila afferrerebbe la preda. Jillian sbarrò gli
occhi e si irrigidì.
L’uomo si era sporto dal sedile posteriore dell’auto verso
di lei e ora il suo volto era vicinissimo a quello della ragazza che, però, non
alzò lo sguardo per incontrare i suoi occhi.
Sentì solo il suo sussurro, e le sembrò il sibilo di un
serpente.
<<Poco prima dell’alba vengo a riprenderti>> e,
non appena terminò la frase, allungò di nuovo la mano (quella che non stringeva
il polso di Jillian) e gliela insinuò tra le gambe, palpandola per qualche
secondo.
Jillian capì che cosa sarebbe successo quando lui fosse
tornato a prenderla, ma in fondo non aveva tutta questa importanza, perché,
prima di lui, l’avrebbero fatto altri.
Non appena la presa su di lei si allentò e l’uomo ritirò la
mano, Jillian sbatté svelta la portiera.
Quando si ritrovò da sola, per un breve e fuggevole istante
provò sollievo.
Ma poi alzò lo sguardo e, in fondo alla strada, sul lato
opposto, notò una delle altre ragazze che avevano viaggiato con lei.
Anche a distanza le sembrò di leggere i suoi pensieri, di
annusare il suo terrore e la sua disperazione. In un attimo, quasi si trattasse
di una malattia contagiosa, provò tutto quanto anche lei.
Mentre gli occhi le se appannavano di lacrime e il freddo
della notte di inizio primavera le colpiva le gambe nude, dandole la pelle
d’oca, si posizionò sotto un lampione e dispiegò il foglio che teneva ancora
stretto in mano.
Lo lesse tra le lacrime e i singhiozzi e, a ogni riga,
avrebbe voluto fermarsi, ma sapeva di non poterlo fare. Avrebbe dovuto imparare
a memoria quel contenuto: per ogni servizio un prezzo diverso e, capì subito,
non si sarebbe potuta permettere di sbagliare. C’era anche riportata la
traduzione in ucraino delle frasi più comuni che le sarebbero state rivolte.
Per un momento provò l’impulso di scappare, poi ricordò
quelle parole, chiare e nitide come se qualcuno le avesse pronunciate in quel
momento al suo orecchio.
Non si poteva fuggire, erano tutte controllate. E Jillian
non lo dubitò.
Stava ancora piangendo quando quell’auto si accostò,
illuminandola con le sue luci come occhi di fuoco.
Il finestrino si abbassò.
Jillian sentì i suoi sogni morire uno a uno, quasi
seguissero il vetro che si abbassava e spariva.
Poi vide quello sguardo, quel sorriso malevolo e ascoltò
quella voce parlare in una lingua sconosciuta.
Afflitta abbassò lo sguardo sul pezzo di carta che ancora
stringeva e individuò che cosa le fosse stato domandato.
Il servizio completo,
e il suo relativo prezzo.
E così i suoi sogni non solo morirono, ma si sgretolarono
all’istante.
*
In quegli ultimi anni, a Jillian era capitato di domandarsi
se i suoi genitori sapevano per che cosa fosse partita. Ricordava fin nei
dettagli le lacrime e i singhiozzi di sua madre, il volto scuro e spento di suo
padre, ma non poteva credere di essere stata ceduta a quell’infamia a cui ormai
era incatenata.
Da un po’ li sentiva abbastanza regolarmente; ciò non era
avvenuto nei primi tempi ma, una volta diventata di casa nel giro della
prostituzione, le era stato permesso di contattare casa.
Ovviamente, le regole erano ben determinate.
Jillian aveva sempre mentito, fingendosi felice, e mai le
era passato per la testa di far trasparire un cenno del suo disagio durante
quelle telefonate e, questo, non solo perché fosse costantemente controllata.
Non ne aveva il coraggio, sarebbe stato troppo umiliante, e
poi non voleva che loro sapessero.
A meno che non fossero
al corrente di tutto fin dall’inizio.
Le suggeriva sempre una voce nella sua testa, ma Jillian si
rifiutava di crederci. Anche se non sapevano di che sfamarsi, i suoi genitori
non l’avrebbero mai fatto; loro l’amavano.
Così erano passati sei anni, e Jillian, ormai, ne aveva
venticinque.
Aveva trascorso quasi ogni notte al suo angolo di strada,
che non si respirasse dall’afa o che nevicasse, e ogni notte vendeva il suo
corpo.
Il copione per lo più era sempre identico: un’auto delle più
anonime accostava, ne veniva abbassato il finestrino e nell’abitacolo si
presentava un uomo dell’età variabile, che le chiedeva quanto volesse per uno o
per l’altro servizio.
Spesso, quei tali avevano addirittura la bava alla bocca o
poco ci mancava.
L’unica consolazione per Jillian era che, nella maggior
parte dei casi, il tutto si svolgeva piuttosto rapidamente.
Molti dei suoi clienti la raggiungevano talmente eccitati
che, solitamente, la prestazione non superava i due minuti sul sedile
posteriore dell’auto.
Altrettanto rapido era anche Konstantin, quello che la sera
del suo arrivo l’aveva schiaffeggiata e l’aveva palpata tra le gambe; il suo
protettore.
Il più delle volte Konstantin non la trattava male,
soprattutto da quando Jillian aveva appreso diligentemente il mestiere, ma
l’andava a riprendere tutte le mattine, e tutte le mattine voleva la sua parte.
Un extra che non aveva mai preteso da ragazze diverse da
Jillian, quasi fosse proprio lei quella che voleva.
Jillian non amava i rapporti con il suo protettore quanto
non apprezzava quelli imposti dai clienti, ma non aveva potuto far altro che
abituarsi.
Era spaventoso pensare che fosse accaduto davvero, eppure
era così: durante i primi tempi Jillian si era disperata e ogni notte moriva di
paura; alla fine, era diventata quasi una cosa normale, che di certo non le
piaceva, ma che non le procurava più che un leggero disagio ogni volta.
Non aveva mai provato alcun piacere mentre svolgeva il suo
lavoro, e a ogni episodio sperava che il tutto si concludesse il più
rapidamente possibile, ma non piangeva più ogni volta che era costretta a
salire sull’auto di questo o di quell’altro, offrendo il suo corpo come carne
in vendita.
Lo faceva e basta.
Solo raramente le era capitato di ricevere richieste per
un’intera notte di compagnia o di essere portata in un luogo diverso dalla
solita piazzola isolata dove l’auto veniva fatta fermare a luci spente.
In un paio di occasioni si era ritrovata a praticare in
appartamento e, alle pareti di uno di essi, aveva potuto notare le fotografie
che ritraevano il suo cliente con moglie e figli.
Tre o quattro volte era stata condotta in camere d’albergo
ma, in definitiva, quel che faceva veniva svolto in strada.
Indossava sempre gonne corte, tacchi alti e magliette
scollate. In inverno le veniva concesso di coprirsi con un cappotto durante
l’attesa, ma nulla di più.
Durante il giorno, poi, Jillian era relativamente libera.
Non le era permesso di trovarsi un vero lavoro e doveva rinunciare a una grossa
fetta di guadagni che era obbligata a consegnare all’organizzazione che gestiva
il traffico in cui lei era implicata.
Ma tutto sommato Jillian guadagnava bene, e poteva
permettersi di vivere per conto proprio, o quasi.
Condivideva l’appartamento con Larisa, una delle ragazze che
avevano raggiunto con lei quel paese sei anni prima. L’abitazione apparteneva
al clan che le prostituiva, dato che le ragazze non erano in possesso di
documenti validi.
Larisa, comunque, era una delle due che Jillian aveva
conosciuto più da vicino.
L’altra si chiamava Irina, e il suo angolo di strada poco
distava da quello di Jillian, per questo era capitato loro di avvicinarsi.
Le ragazze alle volte si tenevano compagnia, ma il loro
rapporto non andava mai oltre.
Non potevano esistere vere amicizie in quell’ambiente, si
rischiava di farsi troppo male, affezionandosi a qualcuno.
Le altre, Jillian le conosceva solo di vista; di alcune
sapeva il nome, di altre no, ma non vi aveva mai realmente avuto a che fare.
Jillian, dunque, si era abituata ad andare avanti come
poteva, allontanandosi in modo brusco e violento dalle illusioni e dai sogni
che l’avevano accompagnata fino a qualche anno prima.
Ma non era più tempo per i sogni, Jillian lo sapeva. Si era
svegliata oramai, e i suoi occhi non volevano più saperne di richiudersi.
Era come destarsi da un incubo e non riuscire più a
riprendere sonno, ma per Jillian era diverso, perché lei era nell’incubo stesso
che si era risvegliata.
Ogni notte tutto ricominciava daccapo, e Jillian si lasciava
trascinare dal vortice infinito degli eventi che non conoscono fine. Si diceva
che ormai era abituata, che battere il marciapiede ed essere costantemente
abusata non le faceva alcun effetto, non la turbava più, ma non era vero.
Perché benché oramai la paura nella sua totalità fosse
svanita, benché fosse subentrata una sorta d’abitudine e benché Jillian non
volesse più far caso alla propria sorte, nel profondo, la povera ragazza non
aveva mai accettato quello che le era successo.
Jillian odiava la sua vita e gli uomini che l’avevano
disintegrata come un vaso fragile che, cadendo, si infranga in mille pezzi.
Ma non aveva potuto far altro che rassegnarsi a viverla; in
fondo, anch’essa aveva una sua routine e qualche consapevolezza.
Infatti, Jillian era convinta che peggio di così non potesse
andare.
Ma si sbagliava.
*
Quel venerdì sera di novembre sembrò iniziare come tutti gli
altri, eppure a Jillian parve diverso fin dal principio, fin da quando, subito
dopo aver indossato i suoi soliti abiti stretti e scollati, si era guardata
riflessa nello specchio del bagno.
Era rimasta incantata per qualche minuto, inizialmente senza
pensare a nulla di particolare.
La sua mente era come un fiume: scorreva. Forse sarebbe
sfociata da qualche parte, ma Jillian non si pose domande in proposito.
Lei fissò la sua immagine riflessa.
Si concentrò inizialmente sui seni che le sporgevano dalla
scollatura generosa; su uno di essi, un segno rosso, quasi violaceo.
Jillian non si accorse di ripiegare le labbra in una smorfia
di disgusto, ma non fu per il succhiotto, o per lo meno, non solo. Fu per il
suo stesso corpo: la ripugnava, detestava vedere la propria pelle e le proprie
forme, quasi in esse ci fosse qualcosa di terribilmente sbagliato.
Notò di avere la pelle d’oca.
Trascorso qualche istante non sopportò più la fissa visione
del suo petto, così alzò lo sguardo, fino a incontrarlo dall’altro lato dello
specchio.
Occhi azzurri in occhi azzurri.
Occhi morti in occhi morti.
Il buio che Jillian intravedeva nei propri occhi era
dilagante e immenso; d’un tratto le sembrò un tunnel e provò il desiderio di
entrarci.
Con la mente fece qualche passo, fino a quando intorno a lei
non ci fu altro che nero.
Nero minaccioso e accogliente al tempo stesso; un’oscurità
che sembrava la stesse valutando, per decidere se permetterle o meno di avere
accesso alla sua dimora.
Jillian si spaventò; fu per questo che tornò indietro, fino
a ricongiungersi con il suo corpo e con il suo riflesso prodotto dallo specchio
del bagno.
Non voleva entrare nel buio, ma chi aveva creato quelle
tenebre nelle quali aveva mosso qualche passo? Erano nei suoi occhi.
Questo la terrorizzava.
Non esistevano più sogni per Jillian, e questo lei lo sapeva
bene, ma doveva stringere i denti, andare avanti, anche se non sapeva per che
cosa. Voleva convincersi che non esistesse più disperazione in lei, più alcun
sentimento.
Jillian voleva essere fredda come il ghiaccio e, si sa,
questo non è certo nero.
Un pensiero tanto gelido le riportò per un attimo alla mente
il ricordo lontano della sua terra, della neve e dei canti tradizionali della
sua infanzia.
Rivide sprazzi d’immagini nella mente, ma in un attimo si
accorse che quelle reminescenze non erano a lei che appartenevano, ma alla
figura dall’altro lato dello specchio.
Era il suo riflesso a ricordare i momenti felici del suo
passato, non Jillian, e questo glieli sbatteva davanti agli occhi come un
trofeo strappatole di mano, come una bandiera colorata da cui coli sangue.
Jillian si rese conto che una parte di lei (la più
importante, la più immensa) era rimasta indietro. Di lei non restavano che i
suoi abiti da lavoro (quasi si trattasse di una divisa) che sembravano poggiare
inerti su qualcosa che un tempo, forse, era stato un corpo.
Jillian tornò a guardarsi i seni, ma questa volta lo fece
abbassando lo sguardo su di sé.
Fu quasi certa che il suo riflesso, di fronte a lei, tenesse
ancora la testa alta e la squadrasse con compassione, ma quando Jillian tornò a
guardarsi allo specchio, non era cambiato nulla.
Lei era lì, ed era anche dall’altra parte, totalmente
identica, con la stessa morte negli occhi, con gli stessi seni esposti agli
avidi occhi della perfidia.
Era tutto come sempre,
si disse quasi muovendo le labbra in un sussurro, tutto come sempre.
Quando si decise a uscire dal bagno, pronta a lasciarsi alle
spalle il suo appartamento per iniziare la notte di lavoro, si ripeté ancora
nella mente quelle poche e rassicuranti parole.
Rassicuranti e tenebrose insieme.
Ma pareva che fosse stata la voce di qualcun altro a
formularle.
La voce di un riflesso che, forse, era già qualche passo
avanti rispetto a lei.
*
Jillian aveva indossato il cappotto complice delle notti
invernali ed era uscita svelta di casa, evitando qualsiasi altro metallo riflettente.
Larisa era uscita prima di lei e, sicuramente, si stava già
dirigendo al suo angolo, ma la ragazza non ci pensò troppo.
Restando in silenzio si avviò a passo deciso verso il solito
posto. Quasi sorrise pensando che da sei anni si recava sempre nello stesso
luogo di lavoro, ma quel suo sorriso non aveva niente di allegro. Sembrò la
distensione delle labbra di uno spettro e per Jillian fu un bene non vedersi
riflessa da qualche parte, perché si sarebbe certamente spaventata della sua
espressione.
E questo non avrebbe cambiato il corso oscuro della notte
che si approssimava.
Era buio ormai da un pezzo, e le temperature, grazie
all’assenza di sole, avevano fatto in tempo a farsi oramai pienamente
invernali.
Jillian si strinse forte nel cappotto, ma erano le gambe
nude il vero problema, come sempre.
Era come aver attaccati al bacino due pezzi di legno. Legno
ghiacciato.
Ma Jillian, se l’era già detto quella sera, voleva essere
fredda, così tentò di non pensarci.
I suoi tacchi alti picchiettavano sull’asfalto come gli
scanditi rintocchi di un orologio; o come una cantilena sussurrata tra le gocce
di pioggia.
La notte avanza,
Jillian. La notte corre. Vai, Jillian, entra nel tunnel buio.
Jillian sorrise di nuovo dello stesso sorriso spettrale di
prima, quando immaginò quelle malsane parole al ritmo dei suoi passi.
Doveva ammetterlo, era strana quella sera. Forse, quel
pomeriggio, doveva aver dormito troppo, si disse con una punta di rimprovero.
Era stato un sonno senza sogni, il suo, come sempre, ma si
era svegliata più tardi del solito e avvolta da un inconsueto e inafferrabile
stato d’ansia, che poi però si era dissolto come un fulmine tra le nubi.
Dormire troppo faceva male al cervello, Jillian si disse che
se lo sarebbe ricordata da allora in avanti.
Quando si arrestò sotto il solito lampione, la strana voce
proseguì nella sua testa, anche senza il rumore dei suoi tacchi a fare da
sottofondo.
La notte avanza,
Jillian. Entra nel tunnel buio.
Jillian scosse il capo per scrollarsi di dosso quel sussurro
e si strinse nelle braccia per proteggersi dal freddo esterno e intensificare
quello che cresceva in lei.
Iniziò a camminare avanti e indietro, in attesa che la prima
auto della notte accostasse.
Un altro lampione, all’altro lato della strada, illuminava
Irina, che se ne stava immobile, sorreggendosi al palo che aveva accanto come
al braccio forte di uomo.
Chissà se Irina era
strana come lei, quella sera? Si chiese Jillian tutto d’un tratto, poi alzò
la mano esile e bianca in segno di saluto; l’altra ragazza ricambiò.
I suoi tacchi avevano ripreso a martellare sull’asfalto,
ridando vita al ritmo sul quale la cantilena nella sua testa si scioglieva.
Quella non si era mai interrotta, nemmeno nel silenzio.
*
L’auto si fermò all’angolo dopo circa tre quarti d’ora
d’attesa. Con lei, si arrestò anche il cuore di Jillian, non appena fu calato
il finestrino.
Sulle prime pensò che la memoria le stesse giocando un
brutto scherzo, che l’uomo che la osservava a occhi spalancati dal sedile del
guidatore non potesse essere …
<<Jillian? Ti chiami Jillian per caso?>> esordì
questo in ucraino.
Le sue parole giunsero amplificate all’udito di Jillian e in
attimo sovrastarono e cancellarono del tutto quelle sussurrate dalla cantilena
nella sua testa.
<<Yuriy!>> esclamò la ragazza senza credere
ancora ai propri occhi.
Non lo vedeva da anni, eppure era sempre inconfondibile,
quindi esistevano soltanto due alternative: o suo cugino si trovava davvero
davanti a lei, oppure era impazzita e stava immaginando ogni cosa.
Jillian aveva visto Yuriy per l’ultima volta poco prima di
partire per il nuovo paese; lui aveva soltanto un anno più di lei e i due erano
quasi cresciuti insieme.
Non erano esattamente come fratello e sorella, ma avevano
giocato spesso insieme quand’erano bambini, e scherzato quand’erano cresciuti,
soprattutto durante le feste di famiglia o del paese.
Gli occhi azzurri e penetranti dell’uomo indugiavano ancora
sulla ragazza che batteva il marciapiede e solo allora Jillian parve ricordarsi
di essere mezza svestita.
Invano tentò di coprirsi parte delle cosce nude e arrossì
visibilmente sotto la luce giallastra del lampione che la sovrastava, e che
sembrava essersi tramutato in un faro.
<<Yuriy … io … cosa … non mi guardare>> balbettò
Jillian frastornata e confusa. Avrebbe voluto sparire in quel preciso istante,
sprofondare nel buio che poco prima aveva visto riflesso nei suoi occhi.
<<Non mi guardare>> ripeté in un sussurro,
mentre sentiva le lacrime pizzicarle gli angoli degli occhi, poi non fu più in
grado di dire altro.
Jillian osservò l’uomo che ora stringeva più forte il
volante.
Era lui, il vecchio Yuriy di sempre, con i capelli rossicci,
gli occhi di ghiaccio e quella bianca cicatrice sulla fronte causata da una
brutta caduta durante l’infanzia.
La stava osservando con occhi spalancati, quasi si fosse
immobilizzato.
Jillian avvertì lo scorrere di quei secondi come le spietate
lame dei secoli.
Per un attimo fu tentata di fuggire, e l’avrebbe fatto, se
Yuriy non si fosse riscosso senza darle il tempo di tramutare in azione il suo
impulso.
L’uomo si slacciò la cintura di sicurezza, si sporse verso
il sedile del passeggero e aprì la portiera da quel lato dell’auto.
<<Entra>> le intimò dolcemente. Jillian esitò
solo qualche secondo, guardandosi intorno.
Nessuno l’avrebbe sospettato, avrebbero creduto tutti che si
trovasse con un cliente.
Quindi eseguì, sollevata di trovarsi di fronte un volto
conosciuto e amico e, forse, anche una salvezza.
Quando si sedette sul sedile, chiudendo subito dopo la
portiera dietro di sé, sentì che il cuore le si scioglieva come ghiaccio posto
accanto al fuoco.
Fu una sensazione bellissima, di totale liberazione.
Forse sarebbe tutto
finito, Yuriy l’avrebbe salvata da quell’inferno e dalla sua stessa vita.
L’auto partì; soltanto dopo i primi minuti di viaggio Yuriy
riprese a parlare: <<Cos’è successo, Jillian? Cos’è questa
storia?>> domandò apparendo apprensivo e preoccupato. Forse anche un po’
disgustato, osservò Jillian, ma non seppe dire se Yuriy lo fosse nei confronti
suoi o della sua situazione.
La ragazza si sentì arrossire nuovamente; la borsetta nera
stretta nei pugni e posta sulla cosce, come a voler creare l’illusione di una
gonna più lunga.
<<Non ho potuto farci niente>> rispose in un
sussurro; e in fondo era l’unico modo per rivelare la verità. Raccontare tutto
il resto sarebbe stato superfluo.
Yuriy si voltò un attimo verso di lei, poi tornò a fare
attenzione alla strada; Jillian non lo vide, attenta com’era a tenere lo
sguardo basso.
<<Da quanto tempo lo fai?>>
<<Sei anni, credo>> e Jillian disse così perché
per un istante non fu più certa di quando la sua vita avesse preso quell’orrenda
piega; in fondo, poi, che differenza faceva se si trattava di sei o dieci anni?
Il risultato era il medesimo.
Yuriy si voltò nuovamente a guardarla; Jillian di nuovo non
lo vide, ma questa volta l’uomo non le disse nient’altro. Si limitò soltanto a
guidare.
Cinque minuti trascorsero così nel silenzio spezzato
soltanto dai sussurri dei respiri. Jillian sentiva il proprio agitato, come il
suo cuore, e fu per questo che alla fine non resistette e dovette chiederlo.
Per farlo, si sforzò anche ad alzare lo sguardo sul cugino:
<<Mi tiri fuori? Mi aiuti?>> proruppe sentendosi ancora le lacrime
agli occhi. Il cuore quasi le esplodeva nel petto quando Yuriy tornò a
guardarla; sorrise.
<<Che diavolo di domande, Jillian. È ovvio che ti tiro
fuori! È ovvio!>> esclamò questo mostrandosi colmo di apprensione.
Jillian si disse che il disgusto di suo cugino non era stato indirizzato a lei;
mai e poi mai.
Era così dolce e comprensivo il tono della sua voce, che
Jillian si sentì subito protetta come sotto una grande ala ombrosa e benevola;
gli sorrise di rimando.
<<Grazie>> sussurrò, deglutendo subito dopo per
non permettere alle lacrime di scendere a rigarle il viso. Avrebbe voluto
dirgli molte più cose, ma quella parola fu l’unica che si decise a uscirle
dalla bocca. Jillian non ricordava da quanto tempo non la pronunciasse più, e
fu bellissimo riappropriarsene.
Yuriy staccò la mano dal volante e strinse una di quelle
ancora fredde di Jillian.
<<Ti aiuterò io, stai tranquilla>> la stretta si
intensificò per un attimo <<ti aiuterò io>> ripeté più piano. Jillian
si lasciò cullare da quelle parole e continuò a farlo anche dopo che queste si furono
perse tra i fruscii della strada che le appariva oltre al finestrino.
Jillian non sapeva dove Yuriy la stesse conducendo, ma era
certa che presto sarebbe stata al sicuro.
Stancamente e colma d’emozione si lasciò andare contro lo
schienale del sedile. Distrattamente posò lo sguardo sul finestrino, sul quale
veniva riflessa approssimativamente la sua figura.
Jillian non seppe come accadde, né perché, ma
improvvisamente non poté far altro che addentrarsi nell’oscurità celata dai
suoi occhi, ritrovando in un attimo quel tunnel buio che aveva già visto nello
specchio circa un’ora prima.
Ma il tunnel di tenebra sparì in fretta e fu così che
avvenne l’inaspettato.
Jillian iniziò a sognare a occhi aperti.
Era un sogno già vissuto tanto tempo prima, ma questa volta
fu molto diverso.
*
A guidare i suoi passi
c’è una musica d’organo; oscura, tetra, eppure accogliente. Cammina piano, su
un terreno nero come la pece. Nero è anche il lungo abito che indossa, così
come lo è il diadema tra la sua chioma corvina.
Tra le dita esili un
mazzo di rose nere.
Jillian si guarda
intorno, senza capire dove si trovi. Si sente persa, ma non ha paura.
La musica l’avvolge in
un’atmosfera sinistra di cui sente di fare parte già da tanto tempo.
Sconcertata e
perplessa, Jillian si guarda intorno.
Vuote panche scure
avvolte in rovi grigi dalla cui spine colano gocce di sangue. Le pareti
laterali del luogo in cui si trova sembrano quelle di una grotta ma, quando
alza lo sguardo al cielo, si accorge di essere all’aperto.
Un cielo plumbeo che
pullula di corvi la sovrasta.
Jillian sente che i
corvi sono suoi amici; anche le nuvole lo sono, così come i rovi da cui cola
sangue.
Quel posto le
appartiene, anche se ancora non lo riconosce; ne è consapevole.
Di fronte a lei solo
un’immensa oscurità.
Jillian stringe forte
il mazzo di rose nere che ha tra le mani e si accorge che anche i lunghi guanti
di pizzo che indossa sono dello stesso colore di tutto il resto.
Ogni cosa è nera e
questo è rassicurante.
Jillian avanza, perché
non c’è nient’altro che possa fare. Si addentra senza timore nell’oscurità che
le sussurra e l’attende, fino a sparirvi all’interno.
Sta cominciando a
capire dov’è diretta.
Anche se non ne
comprende il motivo.
Avevano viaggiato per una buona mezzora, poi Yuriy aveva
posteggiato l’auto di fronte a un bar, dopodiché aveva condotto Jillian con sé
in un appartamento sito al secondo piano di una palazzina piuttosto vecchia.
Jillian salì le scale precedendo il cugino, fermandosi
soltanto quando raggiunse il pianerottolo, attendendo che l’uomo le indicasse
verso quale porta dirigersi.
I cardini del legno cigolarono un po’, ma in definitiva non
troppo.
Quando scivolò all’interno dell’appartamento Jillian si
sentì confusa dalla presenza di quegli altri due uomini.
Era stata investita da una luce color giallo sporco che, in
un attimo, le aveva fatto desiderare un ritorno al buio.
Sentì la porta richiudersi alle sue spalle, ma non vi fece
tanto caso. Perplessa continuava a osservare i due uomini che, fino a un attimo
prima, erano rimasti seduti sul divano e che ora si stavano alzando in piedi.
Non le piacevano i loro occhi, né i loro sorrisi.
<<Ragazzi, questa è Jillian >> fece d’improvviso
Yuriy a voce alta. Forse un po’ troppo
alta, osservò Jillian.
<<Jillian, questi sono i miei amici. Saranno anche amici
tuoi per questa sera. Non c’è bisogno che tu sappia i loro nomi>> seguitò
assumendo un tono che d’un tratto ghiacciò il sangue nelle vene della ragazza.
In lontananza, le sembrò di sentire un corvo gracchiare con prepotenza.
Atterrita da quelle parole, Jillian si volse di scatto verso
il cugino, ma non fece in tempo ad accorgersi che questi si stava avventando su
di lei; prima che potesse rendersene conto, Jillian era intrappolata tra le
braccia dell’uomo che, fino a quel momento, credeva l’avrebbe aiutata.
Sentiva il cuore martellarle sempre più forte nel petto e
sentì anche rinascere in lei quell’odio furente, quello che non provava da
tanto tempo.
Mentre la stringeva forte con un braccio, Yuriy utilizzò la
mano libera per estrarre un coltello a serramanico dalla tasca dei pantaloni.
Ne fece scattare la lama a pochi centimetri dal volto teso di Jillian; era
un’arma corta ma molto affilata.
<<Mi dispiace, bimba>> le sussurrò Yuriy
all’orecchio, poi fece un cenno del capo a uno degli altri.
Jillian fu obbligata a sedersi su una sedia di legno che fu
posta al centro della sala; le furono legati i polsi dietro la schiena e
ciascuna caviglia alle gambe della sedia, poi una corda più lunga e più spessa le
fu girata attorno al corpo mezzo svestito.
Mentre l’amico di Yuriy la legava alla sedia, quest’ultimo
si piegò fino a raggiungere con le labbra l’orecchio di Jillian: <<Noi
dobbiamo divertirci, capisci bimba? Se non a te, sarebbe toccato a
un’altra>> sussurrò per poi rialzarsi.
Stringeva ancora in mano il coltello a serramanico.
I suoi occhi si sono
abituati in fretta all’oscurità, oramai vede tutto con chiarezza.
Il suolo nero
progredisce sotto i suoi piedi, così come la musica spettrale. Jillian è
piacevolmente turbata da quel lungo; è fresco, ma non eccessivamente.
Il profumo dei fiori è
sottile ma percepibile, ed è diverso da quello che le è capitato di sentire
finora. Sente odore di fiori di tenebra, minaccioso e invitante insieme.
Ma dove sono questi
fiori? Jillian vede soltanto il mazzo che stringe a sé.
Mentre cammina aguzza
lo sguardo alla loro ricerca.
Ed eccola lì, una
prima rosa nera, posata a terra accanto a una delle panche vuote.
Solitaria e
abbandonata, eppure sembra sentirsi a casa. Tristemente a casa.
Eccone un’altra,
pendente dai rovi sanguinanti.
E un’altra ancora,
stretta nel becco nero di un corvo che plana verso di lei. L’uccello le vola
vicino, la sfiora con il vento gelido del quale è portatore.
Ma Jillian non ha
sentito il ghiaccio di quel contatto; al contrario, ne è stata riscaldata.
Comincia a pensare che
dovrà abituarsi presto al freddo, e questa volta per davvero.
Jillian segue il corvo
con lo sguardo e lo vede posarsi sul vecchio legno ingrigito di una delle
panche laterali, le quali continuano a ripetersi sempre uguali.
Tiene la rosa nera
sempre stretta nel becco e alza la piccola testa piumata; sembra voler
invogliare anche Jillian a fare lo stesso.
Ed è lì che le vede
tutte.
Il sogno si interruppe perché Jillian sentiva troppo male.
Tornò in sé con prepotenza eppure si sentiva in procinto di
svenire.
Yuriy era stato il primo, perché era lui a essere
considerato il capo, e in quel momento era ancora il suo turno.
Era così terribilmente
doloroso.
Accovacciato all’altezza della sedia su cui Jillian era
legata, suo cugino stava abusando di lei. Sentiva il suo ansimare disgustoso
picchiarle violentemente contro l’orecchio, e sembrava al punto di
lacerarglielo.
Ma non erano quelli gli unici dolori che provava; in fondo
Jillian avrebbe potuto sopportarli. Non era mai stata legata prima d’allora, ma
era abituata a quel genere di violenza.
Il vero problema era il coltello. Quel maledetto coltello corto ma molto affilato.
Con una mano Yiriy si teneva aggrappato alla sedia, con
l’altra stringeva l’arma.
E quella mano era in movimento.
Le stava straziando le gambe e le braccia riempiendogliele
di tagli; ma la ferita che aveva ricondotto la ragazza al suo corpo era stata
quella al volto.
Ora Jillian sentiva il sangue colarle sul viso come un fiume
di lacrime; ne sentiva il sapore in bocca.
Era dolceamaro.
Forse sono centinaia.
Tutte
meravigliosamente nere, intrecciate tra loro come per mostrarle la via.
Jillian si ritrova a
domandarsi se quelle rose nere siano sospese nel vuoto o se qualcosa le
sostenga: lei è troppo in basso, e non riesce a vedere.
Senza darsi troppo
pensiero, prosegue.
Improvvisamente
l’ambiente attorno a lei cambia.
Al posto delle rose
nere, maestosi alberi dalla chioma rossa, uno di seguito all’altro, quasi
fossero bambini che si tengono per mano.
Bambini morti.
E in effetti Jillian
li sente sussurrare, come se si scambiassero pensieri all’orecchio.
“Sono tutti qui per
me” pensa la ragazza orgogliosa, e si bea di quegli sguardi cremisi che seguono
con trepidazione ogni suo passo.
Sono questi a illuminare
flebilmente il nero profondo, come enormi candele sanguinanti.
Il loro bagliore rosso
intenso si sprigiona sul suo viso e le accarezza l’abito nero, creando ombre
suadenti e giocose.
Poi cambia tutto di
nuovo: su due lunghe assi laterali poggiano file interminabili di candele dalla
cera nera, tutte accese. Il nero e il rosso, fusi insieme, sembrano dirigere
un’orchestra di pensieri confortevoli.
Ora Jillian non è più
sola: vede e sente quelle presenze che ha intorno.
E vede e sente anche
lui, lì in fondo, girato di spalle.
Gran parte del sangue le si era asciugato sul viso e sul
collo, formando una sorta di orribile crosta.
Yuriy aveva finito, lasciandola inerme e agonizzante.
Le urla e le risa degli altri erano come cani feroci che le
latrassero contro.
Attraverso le palpebre socchiuse, Jillian era investita
dalla luce color giallo sporco della stanza, che ora, però, si stava facendo un
po’ più grigia.
E fu in quella stessa orrenda luce che la ragazza vide il
secondo uomo avvicinarsi.
Yuriy, poco distante, si stava ancora tirando su i calzoni
con le mani insanguinate.
Quello che si approssimava alla sedia di Jillian aveva un
orrendo sorriso sbilenco tratteggiato in volto.
Nella mano, invece, aveva una catena a cappio.
Senza che Jillian avesse la forza di ribellarsi gliela fece
passare dalla testa, poi si slacciò i pantaloni e si accovacciò come poco prima
aveva fatto Yuriy.
Quando l’uomo si spinse dentro di lei, iniziò a tirare la
catena.
Gli occhi di Jillian si sporsero dalle orbite.
Jillian sorride,
rendendosi conto che ci sono anche gli invitati.
Un sorriso appena
accennato il suo, quasi personale.
Nessuna di quelle
presenze è realmente definita, ma Jillian le sente molto vicine a sé; anche
loro sono lì per lei.
Solo la luce rossa delle
candele conferisce loro una parvenza di forma, ma questa è solo come un lontano
riflesso.
Jillian sa che non
potrebbe toccarli, ma si sente loro affine.
Quelle orbite vuote
sono tutte puntate su di lei. Jillian sente l’assenza fredda dei loro respiri.
Continua a camminare.
Si sta avvicinando a
lui, che l’attende sempre girato di spalle, di fronte all’altare nero; la
tunica dello stesso colore gli ricopre il capo.
È così intensa la
gioia di Jillian a ogni suo passo.
Solo ora si rende
conto di quanto desideri essergli accanto, di quanto lo desideri da tanto
tempo.
Non ha occhi né amore
che per quella figura che attende soltanto lei e che, sussurrando nella sua
testa, la chiama a sé.
È un sussurro che
calma ogni fibra del suo corpo, rendendolo via via più freddo e più
arrendevole, così come deve essere.
È lì per lei, Jillian
non può farlo attendere a lungo. La loro unione deve compiersi.
Un corvo si posa sulla
sua spalla, sembrando fondersi con il nero del vestito. Le avvicina il becco al
volto, e vi posa quel che sembra un gelido bacio.
È quasi da lui; solo
pochi passi.
Lui tirava e allentava, tirava e allentava, tutto al ritmo
dei movimenti del suo bacino, spezzando di continuo il fiato di Jillian. Infine
c’era stata una stretta più lunga delle precedenti, poi la catena si era
allentata del tutto.
Quando l’uomo che l’aveva seviziata gliela tolse, il collo
le doleva di ripetuti morsi d’acciaio.
Il capo le pendeva inerte all’indietro e l’orribile luce,
che si faceva sempre più grigia di polvere, le arrivava dritta negli occhi, ma
Jillian non aveva la forza di chiuderli del tutto.
Ma non l’aveva nemmeno di riaprirli.
Se ne stava come sospesa a metà tra il corpo e la mente,
come sotto ipnosi.
Sentiva le risate sguaiate dei suoi torturatori, in particolare
quella di Yuriy, che seguitava a riconoscere.
Poi una voce che rigurgitava una frase scandita: <<È
il tuo turno, sfigato>>.
Di seguito, un'altra: <<Ti hanno lasciato il meglio
per ultimo, troia>>; quello a cui la prima battuta era stata riferita.
Infine ci fu quasi un sussurro, ma fu talmente chiaro che
sembrò aver seguito un canale che l’avesse condotto direttamente all’orecchio
di Jillian: <<Divertiti, bimba>>; la voce di Yuriy.
Jillian si sentiva il sangue tra le dita delle mani e nelle
scarpe.
Lo vide solo vagamente mentre si avvicinava. Fece maggior
caso al lungo bastone di legno che teneva in mano.
Con una mano Jillian
stringe più forte il suo bouquet di rose nere mentre solleva l’altra, che
sembra più esile mano a mano che si raffredda, verso la figura che ha
raggiunto, e che ormai le è accanto.
La sfiora. Non ha mai
provato un simile brivido.
Questa comincia piano
a voltarsi.
Prima, però, le ha
preso la mano nella sua fatta di ossa.
Il corvo che l’ha
baciata è ancora sulla sua spalla. Anche lo sposo ne ha uno sulla sua.
L’aveva fatto con quello.
Con la mano libera si dava piacere da solo.
Jillian rifletté per un attimo sull’odiosa fortuna di quegli
uomini di avere due mani e di saperle usare per compiere azioni diverse.
Non durò molto, ma fu più doloroso delle ferite inferte dal
coltello sulle sue membra.
Jillian si sentiva squarciata, le sembrava di aver assunto
le sembianze di una polpa informe.
Nel finire, l’uomo l’aveva sporcata in viso. L’aveva fatto
apposta, Jillian l’aveva visto indirizzarsi verso di lei.
E quell’osceno liquido si mescolò con il sangue.
Era sangue anche quello che, attraverso le palpebre
socchiuse, intravide sulla punta del bastone di legno, mentre il terzo mostro
si allontanava.
<<L’abbiamo sporcata un po’. Le diamo una ripulita?>>.
Di nuovo la voce di Yuriy, alta e sadica.
Seguirono altre risa e altre urla.
Poi fu il momento della confusione, ma Jillian non si
accorse da dove provenisse né quanto durò; seppe solo che al suo termine
iniziarono le secchiate d’acqua gelida.
Come gli spietati schiaffi di un demone.
Jillian osserva
estasiata quelle orbite vuote in cui ogni cosa è racchiusa.
Sente di amare quella
figura come non credeva più di esserne capace.
Le ormai gelide mani
di lei strette nelle lunghe e bianche ossa dell’altro.
“Non mi lascerà mai”
pensa Jillian soddisfatta. “Non lo lascerò mai” prosegue tranquilla.
Sente che i suoi occhi
si stanno facendo pesanti, iniziando a reagire alla lenta musica d’organo che
vuole conciliare il suo riposo.
Tutti i muscoli del
suo corpo si appesantiscono.
Sente che il profumo
dei fiori della notte è ormai esploso, irradiandosi dominante per lei. Lo sente
ricoprirla come un manto soffice; eppure ha anche un che di spinoso.
Gli invitati morti
trattengono il fiato che da tempo non appartiene più loro.
È intenso quello
sguardo inesistente che le è di fronte; è ghiacciato e penetrante e le sta
mostrando tante cose.
Molte di queste,
Jillian non riesce a comprenderle, ma ce n’è una di cui si avvede, e che la fa
sorridere debolmente.
Ne è consapevole ora:
loro non sapevano niente. Non l’avevano mai saputo né sospettato.
È un sollievo sapersi
ancora amata.
Ma ora è con quella
figura fatta di ossa e avvolta nel drappo nero che vuole restare. È a questa
che è destinata.
La Morte lascia una delle mani di Jillian e avvolge
una sua ciocca corvina sul proprio dito ossuto.
Un segno del suo
amore.
È quasi ora.
Presto saranno uniti
per l’eternità.
Manca solo che Jillian
pronunci quelle parole.
Quelle due parole.
Il manto soffice che
la ricopre si fa più spesso; “ma sembra essere anche spinoso” riflette un’altra
volta Jillian. Infatti si accorge che il braccio le sta sanguinando.
Jillian sanguinava.
Braccia, gambe e volto le si erano fatti completamente
rossi, come una seconda pelle.
Intorno e dentro di lei c’era solo un freddo immenso,
oceanico.
Jillian tremava nei suoi vestiti bagnati mentre sentiva il
suono dell’acqua scrosciante nel buio.
Conducendo a sé un faticoso respiro profondo ricordò
fugacemente gli ultimi avvenimenti: dopo essersi divertiti tra urla e
schiamazzi a lanciarle addosso una secchiata dopo l’altra di acqua gelida, i
tre uomini avevano nuovamente abusato di lei.
Lo fecero con la stessa frequenza delle secchiate d’acqua:
uno dopo l’altro, senza lasciarle un secondo di respiro. Questa volta, però,
non avevano utilizzato attrezzi, ma ogni violenza era stata più lunga della
precedente.
Jillian però non c’era; aveva lasciato indietro il suo corpo
come un vecchio straccio bagnato.
Ricordare fu come vivere quell’orrore per la prima volta.
Senza pensare, la ragazza scosse il capo fradicio per
scacciare quelle immagini opprimenti; il dolore al collo che ne conseguì fu
come un’ulteriore coltellata.
Gemendo si strinse nelle braccia sanguinanti, e continuò a
ricordare sconfitta.
Finita l’ultima violenza carnale era stata brutalmente
slegata e, tra calci e spintoni, condotta di nuovo verso la porta. Mentre la
trascinavano verso la rampa di scale, Jillian vide un ragazzo fermo sulla porta
di fronte a quella da cui erano appena usciti tutti; notò i suoi occhi sbarrati
ma privi d’espressione, come se fosse gonfio di droga.
Jillian immaginò di aver urlato, forte e a lungo, anche se
non se n’era resa conto, ma le fu chiaro fin da subito perché non si era vista
l’ombra dei soccorsi: gli altri inquilini del palazzo non dovevano essere molto
diversi dal ragazzo che aveva appena visto.
Infine la ragazza era stata scaraventata nella macchina di
Yuriy, la stessa su cui, durante il viaggio di andata, aveva sperato di essere
salvata.
Non seppe quanta strada le fu fatta percorrere, mentre
teneva la testa pesantemente appoggiata al sedile posteriore dell’auto e il suo
respiro si faceva via via più flebile. Non seppe nemmeno se quegli uomini
avessero parlato o meno durante il viaggio.
Poi, improvvisamente, l’auto si arrestò, la portiera fu
aperta e Jillian fu fatta cadere fuori. Nessuno si scomodò a scendere con lei,
nemmeno per un attimo.
Era scivolata all’esterno senza dar segni di essere
cosciente; forse l’avevano creduta già morta.
Jillian aveva avvertito appena il rombo del motore che si
allontanava.
Da quel momento in poi, aveva sentito soltanto lo scroscio
dell’acqua. E aveva visto soltanto il buio.
Per diversi minuti era rimasta stesa a terra come
immobilizzata, senza pensare a niente, accorgendosi soltanto dei propri capelli
bagnati che le si erano incollati al viso.
Chissà quant’era
durato? Si domandò poi d’un tratto. Qualcuno
si era accorto della sua assenza? Ma, in definitiva, Jillian scoprì che non
le importava niente.
Lentamente si era tirata a sedere sul duro cemento che le
faceva da giaciglio, poi si era guardata le braccia. Anche al buio le vedeva
sanguinare. Ne sentiva l’odore acre e pungente.
E il retrogusto dolciastro. Era stato in quell’istante che
aveva iniziato a ricordare.
L’acqua scrosciava più forte.
Fu solo in quell’istante che Jillian si accorse del suo
richiamo.
La notte avanza,
Jillian. La notte corre. Vai, Jillian, entra nel tunnel buio.
Quelle due parole.
Mancavano solo quelle due parole, poi tutto sarebbe stato completo.
Silenziosa e dolorante la ragazza si alzò sulle gambe
deboli.
Il respiro parve mancarle un attimo per lo sforzo, ma subito
tornò da lei. Ad occhi ancora socchiusi osservava l’oscurità che si estendeva
tutto attorno come una campo protettivo.
Fece due passi e incontrò un parapetto; vi appoggiò le mani.
Il rumore dell’acqua si accentuò, facendosi quasi
assordante.
Qui nessuno può farti
del male, Jillian. Vieni. Quelle due parole, ti mancano solo quelle due parole.
Sembrava che l’acqua gridasse verso di lei, violentemente, concitatamente.
Il suo era come un ruggito.
Jillian inspirò e lo fece proprio.
Si sfilò le scarpe con i tacchi alti, poi si issò in piedi
sul parapetto.
Sentiva la pietra fredda sui piedi nudi e imbrattati di
sangue, sentiva il vento sferzarle i capelli ancora bagnati e gelidi.
Respirò a fondo mentre allargava le braccia.
Il fiume si agitava potente sotto di lei.
Non aveva mai visto fiumi durante i sei anni di permanenza
in quel luogo, dovevano averla portata lontana da dove viveva di solito.
Comunque fosse, stava di fatto che l’acqua continuava a
chiamarla.
Vieni, Jillian.
Poi tutto fu chiaro.
Sulle acque che si increspavano nella notte, Jillian vide
apparire quel volto di ossa. Rivide le sue orbite vuote e la sua infinita
conoscenza.
Era lì, ad aspettarla, mancavano soltanto quelle ultime due
parole.
Le sussurrò con un filo di voce, dischiudendo appena le
labbra.
Le disse mentre si lasciava cadere dal parapetto.
<<Lo voglio>>.
Jillian adagia il capo
sul petto dello sposo di ossa.
La Morte le accarezza i capelli.
6/15 maggio 2014
***
*lady in blue*