world of darkness

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sabato 15 giugno 2013

Cimici (A Luigi Carlo)

Originariamente postato sul vecchio blog il 27 marzo 2013

Oggi mi obbligo a essere qui ad aggiornare, anche se questo tributo è stato scritto all’inizio dell’ottobre scorso.
Non che c’entri qualcosa con questa data, ma come per lo scritto su Maria Teresa, ho deciso di postare quello sul fratello di quest’ultima, Luigi Carlo, il giorno dell’anniversario della nascita dello stesso. Perché non l’otto giugno, data di ricorrenza della morte? Onestamente non lo so nemmeno io, ma forse è perché questo testo non si riferisce a quel momento, e allora non avrebbe senso.
Non che si rifaccia al periodo della nascita del principe. Ma in giugno avrei solo potuto parlare della sua morte, e non della sua prigionia, non delle cimici. Forse è anche un po’ per creare il contrasto tra la nascita nello splendore e la morte avvenuta nelle più misere condizioni.
Questo tributo non ha come ambientazione un momento preciso; si colloca verso l’inizio del 1794, in pieno periodo di prigionia per il bambino che allora si trovava ad aver appena compiuto, o a star per compiere, i nove anni (come ho già detto, non ho precisato una data per lo svolgimento di questo scritto, quindi il mese di marzo potrebbe essere già trascorso esattamente come no). Arriverà ai dieci, ma forse per lui sarebbe stato meglio riuscire a morire prima.
Con questo testo non si vuol certo affermare che le condizioni di un bambino principe siano più importanti di quelle di chiunque altro, ma solamente indagare nelle mente di un personaggio che è passato alla storia; altri lo meriterebbero, certamente.
Ma lui non aveva colpa di nulla, quindi, dato che è possibile ricordarlo, perché non farlo?
In queste parole ci sono i ricordi concatenati a un presente dove il tempo non passa, non esiste. Si parla di una vita ormai ferma e che il bambino (ormai vecchio dentro e fuori per i mali che lo affliggono e che ha subito) desidera ricacciare indietro.
Il piccolo Luigi Carlo vuole solo morire, perché non sopporta più la sua condizione e non sopporta più i propri ricordi, anche se oramai vive di quelli.
Tutto quel che ho scritto a proposito di questo personaggio è stato ampliato da informazioni spiluccate (come per Maria Teresa) qui e là sul web.
Su di un documento che avevo trovato al riguardo era riportato che davvero il bambino aveva desiderio di morire durante la sua prigionia.
Non è un tributo lungo, ma è ciò che sono riuscita a esprimere al riguardo.
Buona lettura!

CIMICI

 

A Luigi Carlo (27 marzo 1785- 8 giugno 1795)



Primi mesi del 1794

Ce ne sono ovunque. Dappertutto. Le sento che mi camminano addosso, ma non ci faccio neanche tanto caso, non me ne curo. Quasi vorrei farlo, ma non posso: sono troppo stanco.

Fa freddo qui, è buio. Hanno chiuso tutto, non c’è che quella piccola fessura da cui qualche guardia mi passa il cibo; sempre bollito, zuppa, o legumi secchi. Ho sempre mangiato, anche se non mi perveniva mai niente di gradevole, ma sono due giorni ormai che lascio la scodella lì dove viene riposta dai miei carcerieri. Il fatto è che desidero morire, perché così non ce la faccio più.

Mi prude il collo. Mi prude la testa. Credo sia scabbia.

E ho dolore al petto quando respiro. A volte tossisco sangue. Per quale motivo dunque dovrei desiderare di continuare a vivere? Perché mai? Per ricordare ciò che dissi di mia madre e mia zia? Perché ora lo ricordo, che io sia dannato! Ora lo ricordo! Prima la mia mente era annebbiata: dal vino che mi facevano trangugiare e che in realtà detestavo, dalle percosse di Simon, dalla paura, e anche dalle parole sconce che mi mettevano in bocca e che io amavo ripetere. Perché sì, in fondo quello mi piaceva. Mi è sempre piaciuto ripetere ciò che sentivo dire. È sempre stato insito nella mia natura. Ed era eccitante, era l’unica cosa che mi togliesse dalla mente il terrore costante di essere battuto.

Era ciò che mi faceva dimenticare.

E così lo dissi: Possibile che queste benedette puttane non siano ancora state ghigliottinate? Dio, mi si accappona le pelle a pensarci, eppure so che quelle parole sono uscite dalla mia bocca, lo so; anche se preferirei non ricordarlo. E quanto mi acclamarono quel giorno Simon e gli altri: avevano raggiunto il loro scopo, mi avevano trasformato in ciò che volevano. In quel che non ero.

E poi c’è stata quell’accusa. So che non corrispondeva alla realtà: è vero che ho imparato a fare certe cose, ma da solo, buon Dio, non di certo perché avviato a queste pratiche da quelle due donne la cui figura ora è tanto nitida nella mia mente. Come a volermi far del male.

Ma qui non c’è altro che buio e freddo. E fetore. Nessuno viene mai a disinfettare o pulire questa cella, nessuno si cura di eliminare i miei bisogni; così, non ricordando nemmeno da quanto tempo io sia chiuso qui dentro, non posso far altro che lasciarmi andare al desiderio della morte.

Oh, Signore Onnipotente, verresti a prendere con te questo povero bambino? Saresti tanto clemente?

Sono sdraiato in questa culla. Lo so che c’è un letto più grande qui accanto, ma non ci voglio stare: perché è soltanto stando così rannicchiato che riesco a sentire meno dolore. E poi preferisco questo giaciglio troppo piccolo per me, troppo scomodo: perché in qualche modo, non so come, mi riporta con la mente indietro, a quando la mia infanzia era davvero tale, a quando non sentivo questo orribile tanfo, di cui io sono il responsabile, salirmi alle narici violentandomi il cervello.

Vagamente riesco a ricordare il principe che fui, forse, un tempo.

Riesco a ricordare bene i volti di coloro che ho amato di più, e dei quali sento una mancanza lacerante: mia madre, mio padre, mia zia, la mia povera sorella. La verità è che bramo soltanto un loro abbraccio. E il loro perdono.

Mio Dio, come mi si lacera il cuore quando ripenso al viso di Maria Teresa, mentre io mentivo dicendo che era vero, che nostra madre e nostra zia mi avevano iniziato a quegli atti osceni, tenendomi anche steso tra di loro. Che infame menzogna! Che infame fanciullo che sono stato!

Forse è per questo che non posso morire, sebbene lo desideri: devo scontare fino all’ultima goccia il dolore di ciò che dissi. Perché è stata tutta colpa mia: non dovevo lasciare che il vino offuscasse le mie percezioni, non dovevo farmi corrompere dai giochi e dall’esaltazione della mia pigrizia che Simon metteva in pratica, e soprattutto … avrei dovuto sopportare le percosse; fino alla fine, fino alla morte. A quel punto sarei stato in pace.

Ma ora rimangono solo le cimici. Sento il frullare raccapricciante delle loro ali, le loro zampe mi corrono tra i vestiti, sulla pelle, come un’eterna condanna a non essere mai libero. Una condanna a continuare a ricordare.

Mi gratto freneticamente il collo; sento la pelle che si lacera sotto le mie unghie troppo lunghe, fa male da morire.

Ma non tirerò mai quel campanello, oh no! Non l’ho mai fatto da quando sono qui, e non lo farò fino a quando non sarò morto, perché sopporterò il freddo, il buio, la paura, il dolore e le cimici senza fiatare, piuttosto che piegarmi a supplicare.

Di piangere non sono più in grado da molto tempo, ormai, ma non voglio nemmeno dover chiedere aiuto. Quindi me ne resto qui, con le ginocchia al petto, invaso dalla mia sporcizia e dal mio male di vivere. Circondato dalle cimici che ormai fanno parte di quel brandello di vita che mi è lasciato da conservare; quel brandello che mai e poi mai sarei in grado di rammendare.

Forse saprebbe farlo mia sorella; lei è sempre stata più forte, e anche molto meno pigra di me.

Lei mi manca; come tutti gli altri.

Come mio padre; quel grande uomo che nel mio cuore chiamo ancora il re.

Di quando in quando, mentre sono in procinto di assopirmi cullato dal ronzio degli insetti che ormai mi fa da ninnananna, mi capita di sentire la sua voce, di udire l’ultima frase che mi rivolse: con orgoglio e fermezza, senza per questo omettere l’amore infinito che ha sempre provato per me e per mia sorella, mi disse che mai e poi mai avrei dovuto tentare di vendicare la sua morte. Avrei dovuto perdonare coloro che l’avevano condannato a quella fine tanto indegna per un re.

In quei momenti sento me stesso piangere come feci allora, come ora non sono più in grado di fare.

Mi sento dire tra i singhiozzi che lo giuro. In effetti, ho perdonato.

Se mio padre è stato in grado di farlo, chi sono io per comportarmi diversamente? Lui che era saggio e sapeva che cosa fosse giusto. Lui che mi ha istruito e consigliato fino alla fine.

Chissà se anche mia madre, mia zia e Maria Teresa hanno perdonato? Credo di sì, perché sono sempre state buone di cuore e nobili d’animo.

Vorrei che potessero apprendere quanto mi mancano; le dolci donne della mia vita.

Ma oramai il passato non è altro che un petalo di rosa perso nel vento: non si dissolve, non lo farà, ma si allontana. Si allontana. E si perde. Si fa irraggiungibile. Così come gli affetti.

Ah, il vento, l’aria! Quasi credo di non ricordarli, qui al chiuso. Il sole, il cielo, la pioggia, quegli splendidi fiori che amavo donare alla Regina mia madre. Che nostalgia!

Dov’è finito adesso quel mondo? Quel mondo splendido.

È tutto perduto, per sempre, tra le braccia del nulla a cui sento di aver contribuito; sarebbe stato meglio se mi fossi lasciato inghiottire, da quello stesso nulla, invece l’ho assecondato.

Smetto di grattarmi il collo per stringermi forte le ginocchia al petto con le braccia: quanto freddo che fa qui! In che mese mi trovo? In che anno? Ahimè, non esiste più il tempo, non qui.

Qui ci sono solo le cimici a scandire i secondi.

E tutti gli altri parassiti che condividono con me lo stesso piccolo, sudicio, repellente materasso.

Non saprei dire se sia estate o inverno, non ne ho cognizione; e il gelo che avverto poco mi aiuta a farmi un’idea in proposito: penso non cambierebbe nulla, nemmeno se fosse un caldo luglio e fuori splendesse il sole di un Febo raggiante. Perché qui dentro, dove sono io, non cambiano mai le stagioni, i giorni non passano, e nemmeno i mesi o gli anni. Qui dentro, dove sono io, è sempre lo stesso giorno che si ripete. O forse, sempre la stessa notte.

Ma non so se importa realmente, forse non più ormai.

Di tanto in tanto mi pare di sentire il tanfo della mia prigione che si dilegua per qualche istante, per permettermi di sentire l’odore non molto invitate, ma sicuramente meno pungente e nauseante, che proviene dalla scodella posta davanti a quella fessura, dove l’hanno lasciata da un tempo ormai indefinito. Eppure non sento la pulsione di alzarmi per raggiungerla.

Non voglio cibo, non voglio nutrirmi.

Non si può dar da mangiare a chi è già morto dentro. Non lo si può riportare in vita.

Io posso solo restare con i miei ricordi, o con la nebbia che a volte essi formano; perché si concatenano tra loro, si uniscono, si fondono. E mi aggrediscono; sono dolci ricordi, dolci pensieri, la rimembranza di dolci momenti in cui l’aria ancora non era proibita, e mi assediano incatenandomi a loro. Ed è con loro che voglio restare; non voglio alzarmi (anche perché mi provoca troppo dolore, non credo che le mie povere gambe potrebbero sorreggermi), non voglio mangiare. Non voglio più esistere.

Voglio soltanto ricondurre a me il sorriso e l’abbraccio di mia madre, che mi manca infinitamente, e di tutti coloro che ho amato.

Qualche volta, quando dormo e sogno, rivedo Versailles. Rivedo me bambino, come ora non sono più, perché adesso sono un nulla. Forse non più che una disgustosa cimice a mia volta.

Ma in quei sogni di cimici non ne esistono; no, esiste soltanto la pace della vita che fiorisce.

In alcuni casi, insieme al resto della mia famiglia, mi appaiono le fattezze del mio defunto fratello maggiore, che fu Delfino prima di me, che ho amato e che tanto fatico a ricordare quando sono sveglio. Nei sogni, invece, il suo volto è così nitido e vivo da poterlo scorgere poi anche se chiudo gli occhi. Lui mi sorride, il mio caro Luigi Giuseppe, mi sorride anche se soffre per via della sua malattia, anche se sta male e la sua schiena si incurva. Mi sorride e mi prende la mano.

Non parla mai, ma io non voglio che lo faccia. Sono così sereno quando vedo il suo sorriso, che vorrei restare lì per sempre.

E poi, in ogni sogno, porto alla Regina mia madre decine e decine di fiori; infiniti fiori, perché la amo tanto teneramente e voglio che lei lo sappia. Voglio che mi perdoni.

Ma purtroppo, quando la realtà obbliga quella pace onirica a disfarsi in semplice foschia, il suo viso si perde a sua volta nella nebbia, fino a quando non torna a mostrarsi tanto marcato nella mia mente come ora, come quando temo che non potrà mai perdonarmi.

In altri momenti, nel dormiveglia, ciò che sento sono i singhiozzi di mia sorella; so che sono quelli del giorno della morte di nostro padre, che ella tanto amava.

Sento come se le sue lacrime mi cadessero in volto, sono sicuro di percepire la loro fragile umidità lacerata dal dolore. Le avverto come le gocce di quella pioggia che non mi sarà mai più consentito di sentire sulla pelle. Quella pioggia che qui, tra le cimici, non avrà mai motivo d’esistere.

E allora che cosa mi rimane da fare, se non starmene qui ad affondare nella mia sporcizia e nel mio dolore, attendendo soltanto che la morte mi colga con la sua benevolenza?

È così doloroso ricordare, eppure è l’unica cosa che io oramai sia in grado di fare; l’unica cosa che voglia, se proprio la vita ancora non vuole abbandonarmi.

Perché voglio tenere con me la mia famiglia fino all’ultimo istante, anche se non potrò ricevere da ognuno dei suoi membri un ultimo addio, un ultimo abbraccio, un ultimo bacio.

Chiudo gli occhi lasciandomi alle spalle il buio infinito di questo luogo dove non esistono che muri e limiti, e mentre riprendo a grattarmi il collo con furia per l’eccessivo prurito, cerco di concentrarmi a fondo sul volto di mio padre; voglio immaginare che stia tendendo le mani verso di me, dall’alto, e che sia in procinto di prendermi con sé.

Non voglio essere il re, padre mio. Non voglio, non posso. Voglio solo raggiungervi. Desidero ardentemente che i miei occhi non riescano più a tornare ad aprirsi, così come lo brama un vecchio che voglia smettere di soffrire nel suo letto di morte.

Perché, in fondo, che cosa sono io, oramai, se non un povero vecchio infermo nel corpo di un bambino? Posseggo davvero, ancora, la fisionomia di un fanciullo? Anche mia madre, nei miei ricordi del nostro ultimo periodo insieme, appare tanto più vecchia di quanto fosse in realtà.

I suoi capelli grigi, il suo viso sciupato, quelle rughe. Lo ricordo, sì, è tutto chiaro.

Forse anche a me è toccata la stessa sorte, credo che capiti quando si è chiusi in un luogo in cui non esiste il tempo: perché esso si concentra con forza sulla pelle del recluso e lo riduce al suo schiavo.

Eppure il tempo non passa in una cella, non passa mai. Non esiste. Però ci si fa vecchi in fretta.

E se io sono solo un vecchio, allora spero che il Signore non indugi, e abbia presto pietà di me; del povero vecchio malato. Del vecchio-bambino.

Di colui che un tempo fu il Delfino di Francia. Un tempo. Quando il tempo esisteva ancora.

Ora, qui nel nulla che mi appartiene, ho solo da restarmene rannicchiato nella mia piccola culla fingendo di essere un bebè.

A ricordare quel che fu e che oramai si è dissolto nell’aria che qui dentro non si respira.

A grattarmi lì dove mi affligge la scabbia.

A pregare perché la mia famiglia abbia perdonato le infamie che ho gettato loro addosso.

A ricondurre a me il calore perduto della mia famiglia.

A sognare un abbraccio di mia sorella. E un sorriso di mia madre ai fiori che vorrei donarle.

A immaginare le braccia di mio padre, lui che ormai è con Dio, che si tendono verso di me, per alleviare finalmente le mie pene nell’eterna e silenziosa beatitudine del sonno senza tempo.

Perché di tempo qui dentro non ne esiste più.

Niente orologi. Niente minuti, ore, giorni, mesi o anni.

Qui esistono solo le cimici. Fa freddo. È buio. C’è fetore. Ho paura.

E voglio dimenticare l’inferno che ho vissuto.

E voglio morire, anche se parleranno di me come il principe non più tale, che spirò su un lenzuolo fatto di orribili insetti verdi.

Voglio morire lo stesso, anche se tra le cimici.

Così avrò espiato il peccato scaturito dalle parole che dissi.

Ora non mi resta che chiudere gli occhi e attendere, continuando a vedere dietro le palpebre abbassate, i volti amati che spero mi accompagneranno fino all’ultimo rintocco.

Loro, invece, le cimici, sono ancora qui. E sono ovunque. Sono su di me.

Questo è ciò che resta dell’ormai perduto principe.

1 ottobre 2012

*lady in blue*

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