world of darkness

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domenica 21 luglio 2013

Field of Innocence (Origin)

Di nuovo domenica, finalmente. Ma come al solito passerà troppo in fretta.
Sono stanchina, non vedo l'ora di godermi le due settimane di riposo che mi attendono per metà agosto. Forse, grazie a quelle, ricaricherò finalmente le batterie la cui spia rossa continua a lampeggiare.
Ultimamente ho il cervello un po' in tilt e non mi dispiacerebbe andare a farmi un bel giretto in un mondo immaginario stile Amy Lee, con il cielo viola e il campo di fiori di carta (ok, lo ammetto...proprio ora sto ascoltando Imaginary degli Evanescence).
Solo che la cosa grave è che temo che, una volta entrataci, ci resterei parecchio.
Ma che cosa sto dicendo? Non lo so, meglio non scendere nel dettaglio...solo che davvero l'immagine al momento mi alletta particolarmente :)

Va beh, a proposito di Evanescence, ripeschiamo Origin.

Traccia numero sei: Field of Innocence, ossia Campo di Innocenza.

Il testo di questo brano mi piace; è molto nostalgico e sembra riferirsi a tutti coloro che hanno bisogno di fermarsi...e di guardare indietro. Anche se tornare indietro non si può.
Il ricordo, in questa canzone, corre verso l'infanzia, verso quel periodo fatto di innocenza e di beata ignoranza nei confronti del mondo. Ed è come volercisi adagiare di nuovo, almeno per un po', in quel Campo di Innocenza. Un po' come a dire: e ora che sono arrivata fino a qui, che cosa mi resta? Dov'è andato il mio cuore (frase tratta direttamente dal testo)?
Ma credo che questa ricerca non porti a niente, se non ai recessi della memoria che ci si sforza di tenere con sé, come uno scudo nei confronti delle delusioni e dei mali del mondo.
E del male che, crescendo, può insediarsi in noi.
In effetti, quelle di Field of Innocence, sono parole molto belle.
La definirei una canzone grigia. Almeno a me porta immagini di questo colore.
Musicalmente parlando, invece, devo dire che questo brano non è tra i miei preferiti di questo album, né tra quelli degli Evanescence in genere. Non che non mi piaccia, anche perché forse doveva essere così per esprimere al meglio il concetto che si porta dietro, ma sicuramente molto meno di altre. E' un po' troppo lenta, e l'ascolto ne risente un po', si appesantisce. Ma davvero, sul messaggio in sé non ho niente di negativo da dire.
La cosa che meno mi piace è l'aggiunta di un coro in latino chiaramente religioso che si può sentire dopo le prime due strofe e i primi due ritornelli.
Adoro invece uno stralcio, dove la voce di Amy lascia spazio a quella di Ben Moody che espone un pezzo parlato: questo  mi piace sia per il suono, sia per il significato delle parole da lui pronunciate, particolarmente oscuro (NB: sono quelle riportate in corsivo nel testo allegato sotto).
Detto questo, penso di aver esposto tutto ciò che penso riguardo a questa canzone. Come canzone in sé, le darei giusto giusto un 6+. Ma il significato vale molto di più.

Qui è possibile ascoltarla:



(Il link, nel caso il video sopra non funzionasse: https://www.youtube.com/watch?v=83NwFaNAXt8)

Il testo:


FIELD OF INNOCENCE (CAMPO DI INNOCENZA)





I still remember the world (Ricordo ancora il mondo)
From the eyes of a child (Attraverso gli occhi di un bambino)
Slowly those feelings (Lentamente, quei sentimenti)
Were clouded by what I know now (Furono offuscati da quello che so adesso)

Where has my heart gone (Dov’è andato il mio cuore?)
An uneven trade for the real world (Un’irregolare tratta per il mondo reale)
Oh I... I want to go back to (Oh io … Io voglio tornare indietro)
Believing in everything (A credere in tutto)
And knowing nothing at all  (E a non sapere niente di niente)
I still remember the sun (Ricordo ancora il sole)
Always warm on my back (Sempre caldo sulla mia schiena)
Somehow it seems colder now (In qualche modo ora sembra più freddo)
Where has my heart gone (Dov’è andato il mio cuore?)
Trapped in the eyes of a stranger (Intrappolato negli occhi di uno straniero)
Oh I... I want to go back to (Oh io … Io voglio tornare indietro)
Believing in everything (A credere in tutto)
As the years pass by before my face (Mentre gli anni mi scorrono davanti agli occhi)
As wars rage before me (Mentre le guerre infuriano di fronte a me)
Finding myself in these last days of existence (Ritrovo me stesso in questi ultimi giorni di esistenza)
This parasite inside me, I forced it out (Ho espulso questo parassita che dimorava in me)
In the darkness of the storm lies an evil,(Nell’oscurità della tempesta giace un essere malvagio)
But it's me (Ma questo sono io)
 Where has my heart gone (Dov’è andato il mio cuore?)
An uneven trade for the real world (Un’irregolare tratta per il mondo reale)
Oh I... I want to go back to (Oh io … io voglio tornare indietro)
Believing in everything (A credere in tutto)
Oh, Where (Oh, dove)
Where has my heart gone (Dov’è andato il mio cuore?)
Trapped in the eyes of a stranger (Intrappolato negli occhi di uno straniero)
Oh I... I want to go back to (Oh io … io voglio tornare indietro)
Believing in everything (A credere in tutto)
I still remember. (Ricordo ancora)



**



E a proposito di Evanescence: Ho trovato il fantastico carattere di scrittura utilizzato dalla band (o almeno uno che ci somiglia)...e ovviamente me ne sono appropriata.

E ora eccolo lì: utilizzato per il titolo del blog :)


*lady in blue*

domenica 7 luglio 2013

Andrò all'inferno

Ciao!!
Come va? Io continuo con il delirio totale, ma fa nulla :) In qualche modo pare che ce la si faccia...anche se in sti giorni, sarà il caldo oltre al lavoro, ma ho proprio le batterie scariche..

Va beh, fa niente. Oggi mi sono decisa a postare un nuovo racconto, anche se all'inizio pensavo di inserire un'altra cosa: un breve testo un po' particolare. Ma credo sarà per un'altra volta, al momento preferisco lasciarlo indietro.
Quello che invece posto oggi è un racconto che ho scritto lo scorso inverno, tra fine gennaio e inizio febbraio, come si vedrà dalla data riportata sotto. Ok, è un racconto un po' difficile, penso che potrebbe anche dare un po' fastidio visto l'argomento trattato: perché "toccare" i bambini o ragazzini con i problemi è sempre considerato terribile. Anche se credo che spesso ci sia molta ipocrisia in certe frasi dei benpensanti. Se poi a questi stessi bambini con i problemi si affibbia un comportamento cattivo, discostandosi dalla solita credenza secondo la quale siano angeli o portatori di affetto, penso sia quasi da condanna al rogo per l'eresia.
Ora, ovviamente, con questa storia non ho avuto e non ho intenzione di offendere nessuno, né di dar contro ai ritardati mentali. Come al solito ho solo voluto dar voce a un'idea e si sa che le mie idee non sono sempre delle più ... comuni. Né lo sono i miei personaggi :)
E come al solito mi piace analizzare le situazioni potenzialmente drammatiche, potenzialmente tragiche e potenzialmente sfigate...come sempre, sono io!! :D
L'ispirazione mi è venuta appunto quest'inverno, mentre ero in metro, e ho visto una ragazzina down alla quale sedeva accanto quella che ho immaginato essere la sorella minore. Ho pensato che quest'ultima non sembrasse felice.
Così ho cominciato a immaginare chiedendomi... E se? Ok, questa è una delle innumerevoli storie il cui inizio mi viene in mente in metropolitana, generalmente osservando qualcuno che attira la mia attenzione. Solo che il più delle volte l'ispirazione si ferma a quello stesso inizio, e non prosegue, lasciando che la vaga idea si perda nel nulla. In questo caso però non è successo.
Sarà il caso che la pianti di blaterare!!

Buona lettura!!


ANDRÒ ALL’INFERNO


 

Mi chiamo Nina, ho nove anni, vado in quarta elementare e tre pomeriggi a settimana mi alleno nella squadra di atletica della mia scuola; dicono tutti che sono una brava bambina, ma io lo so già: quando morirò, andrò all’inferno.

Prendo buoni voti, anche se studiare non è la mia passione, sono brava e leale nel mio sport, non rispondo mai male ai miei genitori né mi comporto male con i compagni di classe, ma non ho nessun dubbio: andrò all’inferno.

Ogni tanto mi è capitato di sognarlo, la notte. Ho avuto paura al risveglio, tremavo ed ero tutta sudata, ma ero sicura che non si trattasse solo di un incubo. È la visione di quello che mi succederà, è stato Dio a mandarmela.

Come faccio a esserne certa? È semplice: la suora che mi insegna catechismo dice che i peccatori vanno all’inferno e che ci resteranno per l’eternità, in un groviglio infinito di fuoco, fiamme e pene indescrivibili. E io sono una peccatrice, perché odiare è peccato.

Giuro che non vorrei odiare Margaret, ci provo ogni giorno con tutte le mie forze per evitarlo, ma poi succede sempre, anche se mi dico che devo resistere, che dovrei volerle bene.

Margaret è mia sorella, ha dodici anni, ed è affetta dalla sindrome di down. Tutti quanti la chiamano l’angelo della famiglia, perché con tutti è docile e affettuosa, un vero amore mandato direttamente dal cielo per benedire chi le sta attorno. Margaret è adorabile con tutti, meno che con me.

Quando siamo da sole, lei di solito mi picchia o mi lancia addosso tutto ciò che le capiti a tiro, e questo corredato da quei suoi suonacci orrendi, quei versi gutturali spaventosi che mi fanno venire la pelle d’oca. Non so per quale motivo Margaret sia violenta con me, e con me soltanto, ma sta di fatto che non l’ho mai detto a nessuno. Non so se mi crederebbero e comunque non ha molta importanza; lei è l’angelo, è la bambina con i problemi, quindi non la si può toccare. Forse è per questo che non ho mai tentato di difendermi. So nascondere bene i lividi che le sue poco delicate maniere mi procurano: di solito faccio in modo che nessuno li veda, coprendoli accuratamente con i vestiti, e se mi è proprio impossibile, mi invento che sono dovuti a qualche caduta durante gli allenamenti. Senza dubbio è plausibile.

Non oso pensare come reagirebbero, tutti quanti, se sapessero che il loro angioletto si trasforma come se niente fosse in uno spietato demonio. Probabilmente sentenzierebbero che non è colpa sua, che la causa è la malattia, che non sa quel che fa. Forse direbbero che sono io a provocarla, non lo so. D’altra parte ogni scusa è buona per difenderla, quasi fosse colpa di qualcuno, se lei è nata così.

Io so che dovrei volerle bene, e davvero ci provo, anche perché ho tanta paura di finire all’inferno quando morirò, ma non ci riesco proprio. La odio; la detesto con tutte le mie forze.

Mi domando tutti i giorni perché io non possa avere una sorella normale; come Vicky, la mia migliore amica. Lei ha una sorellina poco più piccola che si chiama Crystal. So che non vanno molto d’accordo, infatti Vicky mi racconta che spesso litigano, però le loro sono lotte alla pari e che al massimo si concludono con una tirata di capelli. E, soprattutto, i loro battibecchi hanno un motivo, nascono sempre da un’incomprensione piuttosto che da un torto di una nei confronti dell’altra.

Ma Margaret non ne ha di motivi per aggredirmi, io non le ho mai fatto niente. Credo che anche lei mi odi, solo che Margaret non andrà all’inferno. La sua malattia la porterà direttamente in paradiso, perché questa la giustifica di tutto e la avvicina di più a Dio. Anche questo me l’ha detto la suora del catechismo.

Io invece non dovrei odiarla, solo che mi riesce difficile sopportare con rassegnazione e benevolenza le sue percosse. E poi quei versi che fa; se almeno non ci fossero quelli sarebbe tutto più accettabile. Quei suoi urli disumani mi mettono una paura del diavolo e mi sembra di essere stata rinchiusa in una gabbia con un animale feroce che non aspetta altro che divorarmi.

In fondo forse è davvero questa la natura di Margaret: lei è un animale, spesso mi ripugna; questo avviene soprattutto quando mangia. In quei momenti, mentre si impiastriccia le mani e la faccia, masticando con la bocca aperta e lasciando fuoriuscire pezzi di cibo ridotto in poltiglia, mi disgusta atrocemente.

Io cerco di starle il più lontano possibile, ma purtroppo capita spesso che restiamo sole io e lei; i miei genitori credono che io possa badare a lei, anche perché, sostengono, Margaret è un vero angelo, e non sarebbe mai capace di darmi problemi. In ogni caso, se questi dovessero sorgere, potrei sempre rivolgermi ai vicini con una veloce telefonata.

Una volta, mentre tremavo di paura e sentivo i suoi urli minacciosi da fuori dalla porta della mia stanza, ho provato l’impulso di comporre veramente il numero dei vicini per chiedere aiuto.

Tenevo il cordless nella mano tremante, mentre con l’altra tiravo verso di me la porta che Margaret tentava forsennatamente di aprire. La sentivo lamentarsi dall’esterno; percepivo il suo respiro e la sua smania di colpirmi. Mi dicevo che avrei dovuto farlo, altrimenti non avrei avuto scampo. Margaret è forte, e io non avrei resistito per molto. In fondo era giusto che qualcuno mi difendesse, era giusto che si venisse a sapere quel che mia sorella mi faceva di continuo. Non avrei avuto nulla da temere, avrebbero capito tutti. Nessuno se la sarebbe presa con me. Neanche con Margaret, è ovvio, perché lei non ha mai colpa di niente, ma forse non mi avrebbero più lasciata da sola con lei, e questo era ciò che contava.

Ne ero quasi convinta, quando lasciai cadere il telefono e mollai la presa della maniglia della porta. Non so perché io l’abbia fatto; o forse sì. La verità è che ho provato una gioia perversa al pensiero che finalmente i miei genitori scoprissero la vera natura del loro angelo, anche se mai e poi mai l’avrebbero odiata come facevo io.

Mi sentii felice all’idea di smascherarla e di mostrare finalmente i lividi che celavo sempre con tanta cura. Forse avrebbero cominciato a considerare un angelo anche me, la figlia che non ha bisogno di troppe attenzioni perché è nata normale, e per questo è fortunata.

Quel giorno avrei potuto far finire tutto, e invece mi sono arresa, spaventata dall’immensità dell’odio che provo per mia sorella; in quel momento ho avuto così tanta paura dell’inferno, che ho preferito subire le sue botte piuttosto che essere ancora più certa di finirci quando arriverà la mia ora. E se vado avanti così, sarà causata dalla mano di Margaret.

Quel giorno mi fece anche un occhio nero; per non dire la verità mi inventai che avevo disobbedito e che ero uscita di nascosto, lasciando Margaret da sola in casa. Fuori avevo litigato con quel moccioso attaccabrighe che vive qualche isolato più in là, ed era stato lui a farmi l’occhio pesto.

Io fui sgridata severamente per qualcosa che non avevo fatto (per fortuna i miei non sono genitori che alzano le mani), Margaret fu coccolata più del solito ed elevata al ruolo di angelo abbandonato, ma quel che è peggio è che mio padre conferì con quello del ragazzino che avevo accusato.

Daniel, così si chiama il bulletto, al contrario di me, ha un padre che non si limita a mostrare il proprio disappunto con parole deluse e sguardi penetranti.

Così, da quel giorno, è il caso che mi tenga a debita distanza anche da Daniel, se non voglio prenderne doppie. Suo padre deve esserci andato giù pesante quella volta, perché seppi che Daniel non uscì di casa per una settimana e non fu per una semplice punizione restrittiva.

Fortunatamente Daniel e io non frequentiamo la stessa scuola, così mi è più facile evitarlo. Non l’ho ancora incontrato da quand’è successo il fattaccio, e mi auguro vivamente che non avvenga, anche se ormai sono abituata alle botte.

Eppure mia sorella non è sempre stata violenta con me.

Io non l’ho mai adorata, questo è vero, anzi, quando ero molto piccola ero gelosa di lei, perché sentivo che i miei genitori davano più attenzioni a Margaret che a me, perché, secondo loro, io non ne avevo così bisogno come quest’ultima. Però lei non mi aveva ancora mai toccata. Ogni tanto mi lanciava delle occhiate che mi raggelavano, ma credevo che da una come lei fosse normale e che in sé non covasse cattive intenzioni nei miei confronti. Fu quando ormai mi ero rassegnata a essere posta sempre in secondo piano perché ero normale, e avevo deciso di accettare mia sorella per quello che è, che ha iniziato a suonarmele di santa ragione.

La prima volta lo fece di notte. Mi stavo rigirando nel letto dopo essermi svegliata spaventata da un incubo che non riuscivo a ricordare ma che, dalla sensazione che mi aveva lasciato, doveva essere stato tremendo. Mi stringevo al cuscino e speravo di riuscire a riprendere sonno per dimenticare al più presto la paura, ma i miei occhi continuavano ad aprirsi.

Ricordo che provavo un’angoscia terribile, come se presentissi che stava per accadermi qualcosa; forse avevo sognato proprio quel che avrei subito a breve, ma non saprei dirlo con certezza.

Per me in quel momento esisteva soltanto il buio della notte e la paura in qualcosa che non capivo cosa fosse.

La mia vista non si era ancora abituata all’oscurità della stanza quando sentì aprire la porta. Impaurita mi strinsi forte sotto le coperte, deglutii e finsi di dormire.

Sentivo quel respiro che si avvicinava, accompagnato da quelli che mi parvero rantoli, e che mai saprò se furono reali o solo in frutto della mia fantasia.

Tremavo.

In quel periodo ero vicina al mio settimo compleanno.

Avvertii chiaramente la presenza oscura che prendeva posto sul letto accanto a me; al primo momento mi tranquillizzai quando mi resi conto che si trattava di mia sorella. Per un attimo credei che anche lei avesse avuto un incubo e che volesse dormire con me perché aveva paura.

Non che la cosa mi facesse piacere; avevo ormai deciso di arrendermi all’evidenza che i miei genitori l’avrebbero sempre preferita a me per via della sua condizione, ma questo non significava che avessi scelto di amarla alla follia. D’altra parte quelle sue occhiate mi inquietavano sempre un po’, anche se non credevo celassero niente di allarmante.

Però non la odiavo. Non ancora.

Margaret se ne stava in ginocchio accanto a me, sul mio letto. Mi aspettavo che si stendesse per dormire ma, dato che non lo faceva, stranita e curiosa, mi posi in ginocchio anch’io.

<<Meg, è notte. Che ci fai qui?>>, le sussurrai a bassa voce; feci anche per toccarla, ma lei afferrò il mio polso nella sua mano forte e iniziò a stringere.

Forte. Sempre più forte.

Mi venne da piangere ma il terrore che iniziai a provare mi impedì di emettere qualsiasi suono.

Avevo capito perché mia sorella si trovava nella mia stanza di notte; era orribile. Riuscivo a percepire le sue intenzioni dal modo in cui respirava.

Fu mentre sentivo le ossa del mio polso sul punto di scricchiolare, che Margaret mi colpì al volto con la mano libera. Mi diede uno schiaffo così forte che mi rivoltò la faccia; io smisi di respirare per qualche istante.

La guancia mi bruciava e io avevo iniziato a tremare più forte.

Avrei voluto chiederle per quale motivo l’avesse fatto ma non avevo voce per farlo; e non ne ebbi nemmeno il tempo. Margaret mi scaraventò di nuovo stesa sul letto e iniziò a colpirmi sempre con maggiore forza con schiaffi e pugni. Sentivo che da qualche parte spuntavano anche i calci.

Proprio mentre i miei occhi cominciavano a scorgere la sua sagoma, abituatisi alle tenebre, decisi di chiuderli per non doverla vedere oltre. Sentivo soltanto i colpi che mi piovevano addosso senza nemmeno capire dove arrivassero realmente. Sapevo soltanto che mia sorella mi stava facendo male e non ne capivo il motivo.

Margaret non mi permise neanche di farmi scudo con le braccia: faceva di tutto per immobilizzarmi. Voleva che io sentissi più dolore possibile.

In quel momento capivo benissimo che Margaret sapeva esattamente quel che stava facendo, ma mi resi anche conto che nessun altro l’avrebbe pensata allo stesso modo.

Intesi che quella non sarebbe stata l’ultima volta, ma mentre mia sorella ancora mi picchiava, già decisi che non ne avrei mai parlato con nessuno.

Quando finalmente si stancò, Margaret mi lasciò andare. Mentre si alzava percepii una goccia della sua saliva cadermi sul volto. Mi disgustò, ma per la paura che potesse riprendere non mi pulii.

<<Tu sei… cattiva>>, biascicò sottovoce Margaret prima di andare via.

Da quella volta, non parlò mai più dopo avermi inflitto le sue immotivate percosse.

Ormai sono rimaste soltanto le sue urla agghiaccianti che, ovviamente, emette unicamente quando siamo da sole. Anche per questo, sono certa che lei sappia quello che fa.

E forse, dentro di sé, ha anche un motivo.

Quella notte da incubo restai ancora per un po’ stesa sul mio letto, spaventata a morte all’idea che Margaret potesse tornare. Dal volto mi tolsi subito l’impronta ripugnante della sua saliva, ma per il resto non feci niente, se non starmene lì ad ascoltare il mio respiro accelerato.

Mi alzai soltanto all’alba, quando le prime luci del mattino iniziarono a filtrare dalla mia finestra. Anche se ancora tremante, mi feci coraggio e, in punta di piedi, raggiunsi il bagno.

Lì mi guardai allo specchio. Mi resi conto che Margaret non mi aveva lasciato segni sul viso, forse perché lì si era limitata a infierire con gli schiaffi, ma quando sollevai la maglia del pigiama mi venne di nuovo da piangere.

All’altezza delle costole e dei fianchi ero piena di segni bluastri, anche piuttosto grandi e marcati.

A tentare di toccarli mi facevano un male incredibile.

Fu da quel preciso istante che iniziai a odiarla. Mentre mi guardavo allo specchio, esaminando le ecchimosi che mia sorella mi aveva lasciato in ricordo, vidi chiaramente l’odio nascere nei miei occhi: aveva la forma di una spietata lingua di fuoco.

Il fuoco dell’inferno, dove andrò quando sarò morta, perché detesto mia sorella che è violenta con me. Quella sorella intoccabile per via delle sue condizioni.

 

**

Oggi è una giornata d’inverno. Fa freddo e fuori c’è la nebbia.

Stanotte ho fatto di nuovo un incubo che non riuscivo a ricordare, ma che mi ha fatta svegliare di soprassalto in preda all’ansia. Per ore ho temuto che Margaret arrivasse e mi facesse la festa, ma per fortuna non è avvenuto. Ho ancora da smaltire gli ultimi lividi che mi ha lasciato la scorsa settimana e non ho proprio voglia di collezionarne di nuovi.

Tutta la famiglia è seduta al tavolo della colazione. Margaret porta il bavaglino come una poppante, ma nonostante questo riesce a sporcarsi ovunque. E sì che non mi pare difficile mangiare una fetta di pane imburrata e bere una tazza di latte.

Mentre mastica con la bocca aperta mi guarda, e nei suoi occhi leggo lo stesso odio che io provo per lei; anzi, per un attimo ho il dubbio che Margaret mi odi più di quanto faccia io con lei, ma subito mi dico che è impossibile. Il sentimento terribile che mi condurrà all’inferno non può essere eguagliato da nulla.

Nonostante il ribrezzo che mi ispirano la sua figura e il suo modo di mangiare, mi sforzo per finire la colazione e per non contrarre le mie labbra in un’espressione di disgusto. Devo stare molto attenta, perché mi basterebbe la minima distrazione per far sì che avvenga, e credo che i miei non la prenderebbero molto bene. Mi piacerebbe evitare di essere anche sgridata per colpa sua.

Mia madre si alza, fa per prendere la mia tazza ormai vuota e, mentre si avvicina al tavolo, mi posa una mano sulla spalla. Proprio su quella spalla dove Margaret, la settimana scorsa, mi ha colpito vigorosamente più volte.

Non posso fare a meno di sobbalzare e di lamentarmi.

Mia madre ritrae la mano e indietreggia di un passo, lievemente spaventata dalla mia reazione, dopodiché mi torna vicina e, senza che io possa impedirlo, mi abbassa la maglia del pigiama scoprendo il livido vistoso che mi ricopre l’articolazione.

<<E questo? Di quand’è?>>, fa preoccupata, accompagnando la sua domanda a un tono di rimprovero. <<Di settimana scorsa>>, affermo, lanciando volontariamente una fugace occhiata a mia sorella. So che lei l’ha colta. E so perfettamente che ha capito.

<<Ti sei fatta di nuovo male durante l’allenamento?>>, insiste mia madre con aria afflitta; io mi limito ad annuire. <<Se continui così dovrò esonerarti dallo sport, Nina. Ti fai male di continuo, prima o poi ti farai qualcosa di serio>>, afferma ponendosi le mani sui fianchi.

Io lancio una nuova occhiata d’odio a Margaret, intanto penso che non sarò io a farmi qualcosa di serio, ma che qualcun altro lo farà a me e che, guarda caso, anche se fossi esonerata dall’atletica, i lividi comparirebbero magicamente comunque.

E poi non mi starebbe affatto bene dover rinunciare all’unica mia distrazione dalle continue botte di mia sorella; anche perché il mio sport è l’unica cosa che davvero mi appassioni e non ho intenzione di perderlo per colpa di quella schifosa bavosa.

<<Starò più attenta d’ora in poi, te lo giuro, ma non esonerarmi dall’atletica, mamma, ti prego>>, piagnucolo alzandomi in piedi. All’idea mi viene davvero da piangere, soprattutto perché so che non è lo sport a farmi male. Eppure non posso dire la verità, non mi è concesso.

Devo tenermela dentro, anche se brucia da morire.

Sento che le fiamme dell’inferno stanno già cominciando a divorarmi.

Penso che quasi quasi dovrei buttare fuori tutto, anche se le cose non andrebbero proprio come vorrei, ma ecco che quella lurida malata mentale, che nonostante tutto capisce molto più di quanto lasci credere, inizia a urlare distogliendo l’attenzione di mia madre da me.

Lei si avvicina a Margaret e tenta di tranquillizzarla; intanto che c’è, provvede a pulirle il viso e le mani con il bavaglino.

Ormai mia madre non mi vede più, succede sempre quando Margaret si mette in mezzo; a volte sono arrivata a credere che si senta in colpa nei suoi confronti, quasi fosse a causa sua se Margaret è nata così. Onestamente non credo che lo sia, anche se, così com’è, si è sviluppata dentro di lei. E forse il suo senso di colpa è accentuato dal fatto di aver avuto una seconda figlia perfettamente normale, come se qualcosa in lei si fosse ribellato mentre aspettava mia sorella, trasformandola in quello che è. Per questo, forse, mi considera meno degna di attenzione rispetto a Margaret, perché crede di aver fatto un torto a quest’ultima.

Conoscesse la verità … ma no, probabilmente non cambierebbe nulla.

Così mi limito a riprendere in mano l’argomento che più mi sta a cuore al momento: <<Allora non mi esoneri dall’atletica, vero? Ti prego>>, insisto.

Lei solleva un momento lo sguardo su di me, prima di tornare a concentrarsi ossessivamente su mia sorella che scalcia e si dimena per attirare la sua attenzione e per tenerla occupata.

<<Ancora no. Ma fai davvero attenzione, perché la prossima volta che ti trovo un livido come quello non vorrò più sentire ragioni>>.

Scelgo di accontentarmi, sollevo le spalle e poi lancio un’altra occhiata a Margaret. Mi provoca tanto disgusto e tanto timore che mi defilo correndo verso la mia stanza per vestirmi.

Non voglio proprio vederla oltre, per oggi. Anzi, vorrei non vederla mai più. Sarebbe bello se morisse, se se la riprendessero quei maledetti angeli, o quel che sono, che l’hanno mandata.

Mi investe ancora, d’improvviso, la sensazione d’ansia dovuta all’incubo di questa notte che proprio non riesco a ricordare.

 

 

Ho indossato una delle mie solite e adorate tute, ho messo le scarpe da ginnastica, poi il cappotto e infine il cappello di lana. Sono un maschiaccio, mi piace vestirmi sempre sportiva; anche perché oggi pomeriggio ho gli allenamenti. Prendo la cartella e mi avvio di nuovo al piano di sotto.

Mia madre sta mettendo il cappotto a Margaret che continua a dimenarsi facendola impazzire, ma mia madre non perde la pazienza. Non la perde mai con lei, credo sempre per via di quel discorso sul senso di colpa. Credo che Margaret non abbia mai preso uno schiaffo in vita sua, nemmeno un semplice buffetto di rimprovero.

Solitamente mio padre accompagna sia me che mia sorella alle nostre rispettive scuole, (Margaret frequenta un istituto apposito per bambini come lei; chissà perché sono certa che anche con gli insegnanti e con i compagni si dimostri il solito angelo), ma oggi non ho proprio voglia di dividere con lei il sedile posteriore, anche se so che in presenza di mio padre non mi toccherebbe mai nemmeno con un dito. Non mi va di averla accanto nemmeno per un solo secondo, oggi.

Non so perché, ma temo che il mio odio nei suoi confronti stia peggiorando. E anche la paura.

Così, prima che possano chiedermi spiegazioni, esco correndo di casa e urlo che ho voglia di andare a scuola a piedi per tenermi in allenamento.

Non mi importa granché che faccia un freddo del diavolo, mi interessa soltanto stare lontana da quell’obbrobrio di mia sorella.

Desidero davvero che muoia e non mi vergogno di pensarlo; tanto, che differenza può fare? Andrò comunque all’inferno, anche se non desiderassi la sua scomparsa.

Arrivo a scuola trafelata, ma sollevata dalla distanza che mi separa da Margaret e sono molto felice di dover restare a scuola per gli allenamenti, dopo le lezioni. Di solito, in queste occasioni, torno a casa a fare merenda, ma oggi sono certa che lo eviterò.

Così non sarò a casa prima delle sette.

Non voglio vederla. Non voglio nemmeno pensare a lei.

Tutta sudata e rossa in viso per la corsa raggiungo il mio posto a sedere in aula.

Vicky, che è la mia compagna di banco oltre che la mia migliore amica, mi aspetta trepidante per raccontarmi che la sera prima Crystal è stata punita dai genitori per averla sorpresa a rompere alcuni giocattoli della sorella. La mia amica, raggiante, sostiene che ora Crystal non potrà vedere la televisione per un mese e che, tutte le sere dopo cena, non riceverà il dolce.

Io mi limito a sorriderle e non le rispondo. Invidio Vicky, vorrei tanto avere una sorella come la sua. Poco mi importerebbe se per dispetto mi rompesse qualche giocattolo, anche perché è sempre meglio che rischiare di rimetterci le ossa.

Vicky prosegue nel suo racconto che non ho molta voglia di ascoltare, fino a quando non giunge il suono della campanella a sottrarmi dal suo entusiastico resoconto.

Stanno per iniziare le lezioni, e io finalmente potrò tentare di volgere il mio pensiero il più lontano possibile da Margaret e dall’inferno che questa ispira e che mi obbligherà a raggiungere.

 

**

 

Dopo la scuola e dopo gli allenamenti di atletica, purtroppo, sono costretta a tornare a casa. Non so come mai, ma oggi avrei voluto restare a correre su quella pista molto più del solito. Quando sono arrivate le sei e mezzo, ovvero l’ora della fine dell’allenamento, quasi non potevo crederci e per la seconda volta oggi mi è venuto da piangere.

Non mi va di tornare a casa, non voglio vedere Margaret. La odio. La odio con tutta me stessa.

Mentre cammino lentamente, stanca per via dello sforzo fisico e dei miei pensieri opprimenti, ripenso alle parole di Vicky di questa mattina.

Perché? Perché? Mi domando. Perché io non posso avere una sorella normale? Non importa quanto potrebbe essere dispettosa. Credo che non odierei una sorella come Crystal; probabilmente non ci andrei d’accordo, ma non proverei per lei quello che sento per Margaret.

Questa sera la voglia di piangere in me è tanto forte che non posso proprio contrastarla. Le lacrime mi rigano le guance e le mie spalle sono scosse dai singhiozzi.

Non voglio più che Margaret sia mia sorella, non sono più disposta a sopportarla. Decido, su due piedi, che quando crescerò non avrò mai più contatti con lei, né me ne importerà qualcosa.

Cercherò di stare il più lontano possibile anche dal resto della mia famiglia; se le cose vanno come spero, potrei viaggiare per il mondo per prendere parte a importanti concorsi sportivi. E comunque, anche quando non fossi impegnata con questi, preferirei vivere altrove, in un’altra città, o meglio ancora in un altro stato.

Quando poi i miei non ci saranno più, se disgraziatamente Margaret dovesse essere ancora viva (ho letto che chi è affetto dalla sindrome di down non vive mai troppo a lungo), la farò rinchiudere in un ospizio e non lascerò miei recapiti.

Il pensiero di un futuro in cui potrò starle lontana mi fa sorridere tra le lacrime.

Sembra così bella l’idea di una vita senza di lei, penso che finalmente riuscirei a vivere in pace.

So che l’inferno mi attenderà in ogni caso, ma a quel punto non varrà la pena pensarci, perché almeno non lo vivrò più sulla Terra, e questo sarà già qualcosa di buono.

Sono ancora immersa nelle mie fantasticherie di un’esistenza da trascorrere alla larga da Margaret, quando qualcuno mi afferra con poca cura per la spalla ricoperta dal livido.

Sobbalzo vistosamente, mi ritraggo dalla presa dello sconosciuto e subito mi porto una mano all’articolazione dolorante.

Mi volto spaventata, ancora preda del dolore non indifferente e ci metto un po’ a scorgere i lineamenti del ragazzino che mi trovo dinanzi, illuminato lievemente dalla luce del lampione.

È Daniel, l’attaccabrighe che due mesi fa ho accusato ingiustamente di avermi fatto un occhio nero per non rivelare la vera colpevole del gesto.

Il terrore mi coglie all’improvviso e spalanco gli occhi, chiedendomi se riuscirò a trovare una via di fuga.

<<Ehi, cretina. Perché spari balle?>>, mi ammonisce Daniel con sguardo minaccioso. Io faccio finta di non capire, intanto mi guardo intorno, sperando che il ragazzino non abbia deciso di portare con sé qualche amico per farmi una bella sorpresa e, di conseguenza, una bella festa.

<<Due mesi fa hai detto che ti ho fatto un occhio nero, quando non ti ho mai neanche sfiorata, perché spari balle?>>, riprende facendosi più vicino. Io indietreggio tremante, sperando in un miracolo.

<<Io … io non ti ho mai accusato di niente, lo giuro>>, tento blandamente e con voce tremante, <<ah, no? E allora sai dirmi perché tuo padre è venuto a parlare con il mio, dicendogli che ti avevo picchiata?>>. Daniel fa una pausa, scrutandomi con espressione truce, <<hai idea di quante cinghiate ho preso per colpa tua? Per non aver fatto niente? Ma ora me la paghi!>>, ringhia.

<<Io non ti ho mai accusato, davvero>> per lo spavento si sono inaridite le lacrime che stavo versando poco fa, anche se qualche goccia di sale mi imperla ancora il volto. <<Era stato un altro a picchiarmi, si vede che mio padre ha capito male quando gliel’ho detto, io non sapevo che fosse venuto a casa tua a parlare con tua padre>>, invento sul momento.

So che come scusa non può reggere molto, ma devo tentare il tutto per tutto.

<<Ancora spari balle! E ti aspetti che ci creda?>>, Daniel stringe i pugni e me li mostra. Digrigna i denti e sento che è pronto ad attaccarmi, così comprendo che ho un’unica alternativa: benché sia stanca per essermi allenata per un’ora e mezzo, mi metto a correre il più velocemente possibile verso casa.

Non voglio prendere le botte di Daniel, non questa sera che ho il morale già così a terra e covo in me un’agitazione senza pari. Voglio soltanto rinchiudermi in casa, al sicuro, anche se momentaneamente; sono persino disposta a sopportare la presenza di Margaret, tanto, finché mamma e papà sono in casa, lei non mi sfiorerà.

Daniel è più grande di me, ha undici anni, ma per fortuna io sono piccola e veloce, oltre che abituata alla corsa, così riesco a rifugiarmi in casa prima che il ragazzino mi becchi e mi conci per le feste.

Tiro un sospiro di sollievo quando mi chiudo la porta alle spalle, sana e salva, e non mi accorgo nemmeno di mia madre che si rivolge a me. Probabilmente sta commentando il fatto che sia tornata a casa così come me ne sono andata stamattina: correndo. E sicuramente avrà sostenuto che mi può far male.

Non mi interessa. Con il battito del cuore che mi martella nelle orecchie salgo le scale che mi conducono al piano di sopra e mi chiudo in camera; mi stendo sul letto e lascio che il mio respiro vada via via calmandosi.

Oggi sono scappata a Daniel, non accadrà per sempre, ma ora non voglio pensare né a domani né ai prossimi giorni. Voglio solo riposare.

Non so quanto tempo sia da passato dal mio rientro, quando mia madre apre la porta della mia camera; io mi tiro a sedere sul letto. Inorridisco quando vedo che indossa il cappotto.

<<Allora noi andiamo, d’accordo? Ho già messo in tavola la cena per te e tua sorella, assicurati che mangi abbastanza>>, afferma con un sorriso.

Io la osservo a occhi spalancati. <<Dove?>>, dico con tono spaventato. Non stasera. Stasera non voglio restare sola con lei. No.

<<Non mi hai sentito prima?>>, fa mia madre corrugando la fronte. Io scuoto la testa.

<<Io e tuo padre siamo stati invitati a cena dai vicini. Non staremo via tanto, comunque per qualsiasi problema basta che chiami loro e noi torneremo subito>>, fa una pausa, <<tanto non ce ne saranno, come sempre, Margaret è un angelo>>.

Un angelo con le corna e la coda a punta. Penso tra me e me. Chissà perché ho l’impressione che entro la fine della serata avrò qualche livido in più, e stranamente comparirà nonostante gli allenamenti di atletica siano già passati.

Purtroppo, però, non posso far altro che arrendermi e rispondere affermativamente a mia madre.

Lei mi sprona a scendere subito a tavola, prima che la cena si freddi e perché, come è mio dovere, devo badare a quella sorellina angelica tanto più sfortunata di me.

Senza battere ciglio, eppure profondamente afflitta, scendo le scale, arrivo in cucina e mi metto a tavola. Margaret è già lì, con il suo immancabile bavaglino (non è lo stesso di questa mattina; quello era così lercio che la mamma deve averlo già messo a lavare) che mi guarda in cagnesco e ha già iniziato a sporcarsi la faccia con il cibo.

Mia madre mi invia un’ultima raccomandazione per la serata, poi sento che chiude la porta a chiave dall’esterno.

Sconfitta e in preda all’ansia decido di distrarmi accendendo la tv. C’è il telegiornale, stanno parlando di un uomo che ha ucciso la figlia e poi si è tolto la vita. Mi domando perché non possa farlo anche mio padre con Margaret; ovviamente senza poi doversi suicidare, non è certo la sua morte che desidero.

Comunque le notizie non mi interessano granché; rivolgo lo sguardo allo schermo unicamente per non pensare al mostro che siede al tavolo con me e che non ho alcuna intenzione di aiutare a mangiare. Evitando di guardarla riesco anche a conservare il mio appetito, che se ne andrebbe in un lampo se mi voltassi verso di lei, osservando il suo modo orribile di nutrirsi.

Sento che ogni volta che avvicina la posata al piatto fa cozzare rumorosamente l’una con l’altro; non so se voglia attirare la mia attenzione per poi spaventarmi con il suo sguardo, oppure se lo stia facendo senza rendersene conto, ma sta di fatto che non voglio guardarla.

Mi infastidisce quel suono, ogni tintinnio emesso dalla forchetta che sbatte sul piatto aumenta vorticosamente il mio odio per lei. E poi avverto il suo respiro. Quei suoi rantoli orribili.

Ma non vi volterò, non gliela darò vinta; so che vuole provocarmi, vuole farmi paura, vuole vedere il terrore riflesso nei miei  occhi, ma io continuerò così, fingendo che sia invisibile, che non esista. Farò finta di prendere posto da sola a questo tavolo. Forse, se la ignoro, riuscirò a sottrarmi alle sue perfide brame, per lo meno fino a che non avrò finito di mangiare; e se proprio le devo prendere, preferisco avere lo stomaco pieno.

Resto con lo sguardo fisso e assente rivolto verso il televisore per un buon quarto d’ora, finisco di mangiare e mi concedo un momento per respirare profondamente nel tentativo di tranquillizzarmi.

Non ho idea di quanto abbia mangiato Margaret, anche se mia madre mi ha detto di badare che mangiasse abbastanza, ma sinceramente non mi importerebbe un fico secco se quella povera stupida avesse soltanto sparso il cibo per la cucina senza averne ingurgitato nemmeno un boccone.

Se non mangiasse forse non avrebbe la forza per farmi male, il che sarebbe un gran vantaggio. E se poi smettesse di nutrirsi per sempre, tanto meglio, alla fin fine me ne libererei definitivamente, che è ciò che voglio.

Quanto detesto questa maledetta bambina ritardata, ho ancora paura dell’inferno, ma non posso fare a meno di odiarla con tutte le mie forze; vorrei che sparisse in questo preciso istante, vorrei …

Non faccio in tempo a finire di formulare il pensiero; ho smesso di respirare quando mi volto a guardare prima mia sorella, che ora si trova in piedi di fianco a me, e poi la mia mano adagiata sul tavolo, nelle cui carni è stata conficcata la forchetta. E la posata è lì, in verticale, come l’asta di una bandiera che decreti l’appartenenza di un territorio.

Il dolore inizia solo adesso; è tremendo, ma non voglio dare a mia sorella la soddisfazione di vedermi piangere. Serro talmente forte le labbra da non sentirvi più all’interno lo scorrere del sangue.

La mano trafitta ha iniziato a tremare; Margaret osserva con trionfo la sua opera, anzi, il suo dominio, poi sposta lo sguardo su di me.

Ora me ne rendo conto, e ne sono più che certa, anche se solo questa mattina mi sembrava impossibile: mia sorella mi odia più di quanto io odi lei, e questo è spaventoso, perché non riesco a immaginare che questo sia possibile.

Improvvisamente Margaret si mette a ridere; la sua è un’ilarità diabolica, terrorizzante. È felice perché mi ha fatto del male, è in estasi perché mi ha in pugno.

Sa di avere il coltello dalla parte del manico: io non dirò mai niente e lei sarà considerata sempre un angioletto. Ma questa volta si sbaglia, perché questo è troppo.

Stasera non manterrò il silenzio, non ho intenzione di restare qui a farmi tagliuzzare come una bistecca. Non importa se non le daranno la colpa, ma i miei genitori non mi lasceranno mai più da sola con lei; magari si rivolgeranno a un medico, forse questo consiglierà loro di rinchiuderla in un istituto, il che sarebbe grandioso.

Non voglio più subire, ma non voglio nemmeno rischiare che la situazione degeneri: se ora provassi a prendere il telefono per avvertire i miei Margaret se ne renderebbe conto, e potrebbe farmi ancora più male. Sicuramente prenderò qualche botta entro la fine della serata, ma sarà l’ultima volta.

Sospirando stoicamente mi faccio forza e, con la mano tremante, afferro la forchetta che mi trafigge l’altra. So che il dolore non sarà indifferente, ma devo estrarla.

Prima ancora che possa provarci, però, mi ritrovo il viso rivoltato da un ceffone violento.

La guancia mi brucia, ma ancora di più brucia l’odio che sento in me. Se devo andare all’inferno, giuro che ti ci trascinerò con me. Penso in preda all’ira più furente che abbia mai sperimentato.

Forse, più che parlarne con i miei genitori, dovrei agire quando l’angioletto dorme ed è inoffensivo. Non dovrebbe essere difficile soffocarla con il cuscino. Forse il dolore della sua perdita, per mia madre, sarebbe minore rispetto a quello che proverebbe sapendola un demonio violento.

Non so perché, ma mentre ancora mi impegno per incassare con serenità lo schiaffo, mi piace pensare che in fondo, molto in fondo, dove nessuno può entrare, anche mia madre sarebbe sollevata dalla morte di Margaret, perché lei è un peso per tutti, anche se la maschera da angelo se la leva soltanto con me.

Una cosa del genere non la saprei mai, ma già mi piace la semplice idea che ci sia una possibilità in proposito.

Respiro ancora profondamente, dopodiché rivolto il viso il sua direzione e osservo Margaret sorridendo. <<Hai finito di mangiare?>>, le dico con voce tremante. Lei mi osserva con occhi spietati, poi si porta una mano alla bocca. Se la lecca, quindi me la schiaccia sul viso, bagnandomi con la sua saliva. Io chiudo gli occhi e sopporto.

Perché non farlo già stanotte, mi dico. Non c’è tempo da perdere.

Quando posso guardarla di nuovo, sentendomi addosso il puzzo della sua saliva, so di essere convinta circa quel che devo fare.

Sono già condannata all’inferno, ma voglio che Margaret ci vada prima di me. Perché ora ha superato il limite, la sua malattia non può concederle e perdonarle tutto. Nemmeno Dio può più chiudere gli occhi di fronte al suo comportamento.

Margaret si mette di nuovo a ridere, ma io non reagisco, conscia del mio destino. Lascio che sfoghi tutta la sua gioia perversa, poi, finalmente, la vedo voltarsi e barcollare verso la sala, poi la sento salire le scale. Ascolto i suoi passi che si allontanano e, solo quando sono certa che abbia chiuso la porta della sua stanza, riprendo coraggio. Con la mano sana, afferro l’impugnatura della forchetta conficcata nella sinistra e, senza pensare ulteriormente (se lo facessi non farei mai niente, e resterei così per tutta la sera) la estraggo con un colpo secco.

Riesco a non urlare,  ma un gemito soffocato mi scappa.

Con dolore muovo le dita, poi mi stringo la mano al petto.

Devo comportarmi come se niente fosse, fare tutto quel che avrei fatto normalmente prima del ritorno a casa dei miei genitori. Perché è stanotte, al buio, quando lei dormirà e sarò io pronta ad attaccare, che dovrò mettere in pratica qualcosa che avrei già dovuto fare da tempo.

Prima di tutto sparecchio la tavola, e porto i piatti al lavandino. Apro l’acqua e, prima di iniziare a lavare le stoviglie, mi bagno energicamente la faccia per togliermi di dosso lo schifo della sua saliva.

A stanotte, angelo. Penso tra me e me. E mentre lo faccio, sorrido di gusto.

 

 

Con la mano ferita non è stato facile lavare i piatti, ma alla fine, aiutata nella sopportazione del dolore dal pensiero di quello che farò stanotte, sono riuscita a portare a termine il mio compito. Dopo sono andata in bagno, mi sono disinfettata la ferita e mi sono fasciata la mano; quando i miei torneranno mi farò trovare già a letto, così, almeno per stasera, non mi chiederanno spiegazioni. E temo che domani saranno troppo occupati con le pompe funebri per far caso alla mia benda.

Infine è giunto il momento per il compito più arduo, che so bene a cosa mi condurrà; è così tutte le volte che Margaret e io ceniamo da sole, però questa sarà l’ultima volta, e l’idea mi risolleva, dandomi il coraggio per affrontare la mia prova finale.

Mi dirigo in camera del mostro con un tovagliolo; lei mi è subito addosso, ma io sono decisa in tutto e per tutto a fare quello che devo. I miei non devono sospettare niente quando torneranno, così non posso certo esimermi dal pulire la bocca di Margaret, ancora impiastricciata dalla cena.

Le tengo la testa per i capelli mentre le avvicino il tovagliolo alle labbra. Lei si dimena, urla e nel frattempo fa di tutto per pestarmi i piedi. So benissimo che cosa accadrà non appena la lascerò andare, ma non me ne importa assolutamente nulla, anzi, la lascerò fare con totale arrendevolezza, perché il pensiero della sua morte imminente per mano mia è così liberatorio da impedirmi di sentire qualunque dolore.

Infatti è quasi piacevole iniziare a subire le sue percosse. Mi stendo subito a terra e lascio che Margaret inizi a infierire sul mio costato con calci furiosi. Mi copro il viso, perché lì di segni non devo averne, non posso, se voglio che sia tutto perfetto.

Lascio che mia sorella mi picchi e nel frattempo sorrido. Odo i suoi soliti urli odiosi e nel frattempo me la immagino sdraiata sul suo letto, con il cuscino premuto dalle mie mani (compresa quella fasciata che ha ferito lei) sulla sua faccia, mentre dibatte braccia e gambe perché non riesce a respirare. Io, in quel momento, spererò che la sua agonia si prolunghi il più a lungo possibile, anche se questo rischierebbe di farmi scoprire. Perché nel caso Dio perdonasse ogni suo gesto e decidesse di prenderla con sé in Paradiso nonostante tutto, almeno saprò di averle reso un inferno il momento del trapasso e, anche se non mi basterà, sarà comunque una consolazione.

A stanotte, angioletto. A stanotte.

 

Finite le botte e lasciato l’angioletto felice e contento nella sua stanza, mi chiudo alle spalle la porta, dolorante e acciaccata, ed entro nella mia. Le costole mi fanno un male bestiale, ma io sono contenta perché ormai ho preso la mia ultima dose di legnate, e d’ora in avanti potrò stare tranquilla.

È vero, ci sono ancora quelle che mi deve Daniel per la bugia che ho raccontato sul suo conto; a questo punto mi conviene incontrarlo il prima possibile, lasciare che me le suoni, e poi non pensarci più. A quel punto sarò definitivamente libera, sia dalle percosse che dal fantasma di mia sorella.

L’idea che Margaret non ci sia più è così meravigliosa che mi sento la bambina più felice del mondo; non vedo l’ora che arrivi il momento di farla finita così come la Vigilia di Natale si aspetta che faccia mattina per aprire i regali.

Me ne sto sdraiata al buio, tra le mie fantasticherie che renderanno la vita, da domani in poi, decisamente migliore, e mi stringo la mano al petto. Tutto sommato mi fa davvero male, più dei segni dei calci di Margaret di poco fa. Quando tento di muoverla è un’agonia, ma mi dico che presto passerà, che domani sarà tutto finito.

È con questi pensieri che mi portano a sorridere che chiudo gli occhi. Dormirò solo un po’, mi dico, quando mi sveglierò, più tardi, andrò a controllare che mamma e papà siano tornati e siano già a letto, a quel punto andrò in camera di Margaret. Tanto io mi sveglio sempre di notte.

A svegliarmi, non so dopo quanto tempo, è l’odore di bruciato.

Ci metto un po’ a realizzare che questo non si trova nei miei sogni e che devo assolutamente aprire gli occhi. La prima cosa che vedo è la tenda in fiamme; spaventata mi accuccio nell’angolo del letto ed è solo in quel momento che mi accorgo che il fuoco viene anche dal fondo del mio materasso.

L’inferno è venuto a prendermi prima che io possa uccidere Margaret, penso, poi alzo lo sguardo verso la porta e la vedo. Tiene in mano la scatola dei fiammiferi.

Capisco che è vero, l’inferno è venuto a prendermi e il diavolo è lei.

Non avrei potuto ucciderla, perché Margaret sapeva che cosa stavo pensando e si è mossa prima di me, ma soffocarmi con il cuscino non l’avrebbe soddisfatta abbastanza.

Lei vuole che io bruci.

La sento ridere mentre mi stringo contro il cuscino e aspetto che le fiamme mi divorino.

Tra poco i miei genitori si renderanno conto delle fiamme guardando verso casa dalla finestra dei vicini, ma sarà già troppo tardi.

Tra poco andrò all’inferno, ma credo non sentirò troppo la differenza: in fondo c’ero già.

 

31 gennaio- 4 febbraio 2013
 
*lady in blue*