Ciao!!
Come va? Io continuo con il delirio totale, ma fa nulla :) In qualche modo pare che ce la si faccia...anche se in sti giorni, sarà il caldo oltre al lavoro, ma ho proprio le batterie scariche..
Va beh, fa niente. Oggi mi sono decisa a postare un nuovo racconto, anche se all'inizio pensavo di inserire un'altra cosa: un breve testo un po' particolare. Ma credo sarà per un'altra volta, al momento preferisco lasciarlo indietro.
Quello che invece posto oggi è un racconto che ho scritto lo scorso inverno, tra fine gennaio e inizio febbraio, come si vedrà dalla data riportata sotto. Ok, è un racconto un po' difficile, penso che potrebbe anche dare un po' fastidio visto l'argomento trattato: perché "toccare" i bambini o ragazzini con i problemi è sempre considerato terribile. Anche se credo che spesso ci sia molta ipocrisia in certe frasi dei benpensanti. Se poi a questi stessi bambini con i problemi si
affibbia un comportamento cattivo, discostandosi dalla solita credenza secondo la quale siano
angeli o
portatori di affetto, penso sia quasi da condanna al rogo per l'eresia.
Ora, ovviamente, con questa storia non ho avuto e non ho intenzione di offendere nessuno, né di dar contro ai ritardati mentali. Come al solito ho solo voluto dar voce a un'idea e si sa che le mie idee non sono sempre delle più ...
comuni. Né lo sono i miei personaggi :)
E come al solito mi piace analizzare le situazioni potenzialmente drammatiche, potenzialmente tragiche e potenzialmente sfigate...come sempre, sono io!! :D
L'ispirazione mi è venuta appunto quest'inverno, mentre ero in metro, e ho visto una ragazzina down alla quale sedeva accanto quella che ho immaginato essere la sorella minore. Ho pensato che quest'ultima non sembrasse felice.
Così ho cominciato a immaginare chiedendomi...
E se? Ok, questa è una delle innumerevoli storie il cui inizio mi viene in mente in metropolitana, generalmente osservando qualcuno che attira la mia attenzione. Solo che il più delle volte l'ispirazione si ferma a quello stesso inizio, e non prosegue, lasciando che la vaga idea si perda nel nulla. In questo caso però non è successo.
Sarà il caso che la pianti di blaterare!!
Buona lettura!!
ANDRÒ ALL’INFERNO
Mi chiamo Nina, ho nove anni, vado in quarta elementare e
tre pomeriggi a settimana mi alleno nella squadra di atletica della mia scuola;
dicono tutti che sono una brava bambina, ma io lo so già: quando morirò, andrò
all’inferno.
Prendo buoni voti, anche se studiare non è la mia passione,
sono brava e leale nel mio sport, non rispondo mai male ai miei genitori né mi
comporto male con i compagni di classe, ma non ho nessun dubbio: andrò
all’inferno.
Ogni tanto mi è capitato di sognarlo, la notte. Ho avuto
paura al risveglio, tremavo ed ero tutta sudata, ma ero sicura che non si
trattasse solo di un incubo. È la visione di quello che mi succederà, è stato
Dio a mandarmela.
Come faccio a esserne certa? È semplice: la suora che mi
insegna catechismo dice che i peccatori vanno all’inferno e che ci resteranno
per l’eternità, in un groviglio infinito di fuoco, fiamme e pene
indescrivibili. E io sono una peccatrice, perché odiare è peccato.
Giuro che non vorrei odiare Margaret, ci provo ogni giorno
con tutte le mie forze per evitarlo, ma poi succede sempre, anche se mi dico
che devo resistere, che dovrei volerle bene.
Margaret è mia sorella, ha dodici anni, ed è affetta dalla
sindrome di down. Tutti quanti la chiamano l’angelo
della famiglia, perché con tutti è docile e affettuosa, un vero amore
mandato direttamente dal cielo per benedire chi le sta attorno. Margaret è
adorabile con tutti, meno che con me.
Quando siamo da sole, lei di solito mi picchia o mi lancia
addosso tutto ciò che le capiti a tiro, e questo corredato da quei suoi
suonacci orrendi, quei versi gutturali spaventosi che mi fanno venire la pelle
d’oca. Non so per quale motivo Margaret sia violenta con me, e con me soltanto,
ma sta di fatto che non l’ho mai detto a nessuno. Non so se mi crederebbero e
comunque non ha molta importanza; lei è l’angelo,
è la bambina con i problemi, quindi non la si può toccare. Forse è per questo
che non ho mai tentato di difendermi. So nascondere bene i lividi che le sue
poco delicate maniere mi procurano: di solito faccio in modo che nessuno li
veda, coprendoli accuratamente con i vestiti, e se mi è proprio impossibile, mi
invento che sono dovuti a qualche caduta durante gli allenamenti. Senza dubbio
è plausibile.
Non oso pensare come reagirebbero, tutti quanti, se
sapessero che il loro angioletto si trasforma come se niente fosse in uno
spietato demonio. Probabilmente sentenzierebbero che non è colpa sua, che la
causa è la malattia, che non sa quel che fa. Forse direbbero che sono io a
provocarla, non lo so. D’altra parte ogni scusa è buona per difenderla, quasi
fosse colpa di qualcuno, se lei è nata così.
Io so che dovrei volerle bene, e davvero ci provo, anche
perché ho tanta paura di finire all’inferno quando morirò, ma non ci riesco
proprio. La odio; la detesto con tutte le mie forze.
Mi domando tutti i giorni perché io non possa avere una
sorella normale; come Vicky, la mia migliore amica. Lei ha una sorellina poco
più piccola che si chiama Crystal. So che non vanno molto d’accordo, infatti
Vicky mi racconta che spesso litigano, però le loro sono lotte alla pari e che
al massimo si concludono con una tirata di capelli. E, soprattutto, i loro
battibecchi hanno un motivo, nascono sempre da un’incomprensione piuttosto che
da un torto di una nei confronti dell’altra.
Ma Margaret non ne ha di motivi per aggredirmi, io non le ho
mai fatto niente. Credo che anche lei mi odi, solo che Margaret non andrà
all’inferno. La sua malattia la porterà direttamente in paradiso, perché questa
la giustifica di tutto e la avvicina di più a Dio. Anche questo me l’ha detto
la suora del catechismo.
Io invece non dovrei odiarla, solo che mi riesce difficile
sopportare con rassegnazione e benevolenza le sue percosse. E poi quei versi
che fa; se almeno non ci fossero quelli sarebbe tutto più accettabile. Quei
suoi urli disumani mi mettono una paura del diavolo e mi sembra di essere stata
rinchiusa in una gabbia con un animale feroce che non aspetta altro che
divorarmi.
In fondo forse è davvero questa la natura di Margaret: lei è
un animale, spesso mi ripugna; questo avviene soprattutto quando mangia. In
quei momenti, mentre si impiastriccia le mani e la faccia, masticando con la
bocca aperta e lasciando fuoriuscire pezzi di cibo ridotto in poltiglia, mi
disgusta atrocemente.
Io cerco di starle il più lontano possibile, ma purtroppo
capita spesso che restiamo sole io e lei; i miei genitori credono che io possa
badare a lei, anche perché, sostengono, Margaret è un vero angelo, e non
sarebbe mai capace di darmi problemi. In ogni caso, se questi dovessero
sorgere, potrei sempre rivolgermi ai vicini con una veloce telefonata.
Una volta, mentre tremavo di paura e sentivo i suoi urli
minacciosi da fuori dalla porta della mia stanza, ho provato l’impulso di
comporre veramente il numero dei vicini per chiedere aiuto.
Tenevo il cordless nella mano tremante, mentre con l’altra
tiravo verso di me la porta che Margaret tentava forsennatamente di aprire. La
sentivo lamentarsi dall’esterno; percepivo il suo respiro e la sua smania di
colpirmi. Mi dicevo che avrei dovuto farlo, altrimenti non avrei avuto scampo.
Margaret è forte, e io non avrei resistito per molto. In fondo era giusto che
qualcuno mi difendesse, era giusto che si venisse a sapere quel che mia sorella
mi faceva di continuo. Non avrei avuto nulla da temere, avrebbero capito tutti.
Nessuno se la sarebbe presa con me. Neanche con Margaret, è ovvio, perché lei
non ha mai colpa di niente, ma forse non mi avrebbero più lasciata da sola con
lei, e questo era ciò che contava.
Ne ero quasi convinta, quando lasciai cadere il telefono e
mollai la presa della maniglia della porta. Non so perché io l’abbia fatto; o
forse sì. La verità è che ho provato una gioia perversa al pensiero che
finalmente i miei genitori scoprissero la vera natura del loro angelo, anche se mai e poi mai
l’avrebbero odiata come facevo io.
Mi sentii felice all’idea di smascherarla e di mostrare
finalmente i lividi che celavo sempre con tanta cura. Forse avrebbero
cominciato a considerare un angelo anche
me, la figlia che non ha bisogno di troppe attenzioni perché è nata normale, e
per questo è fortunata.
Quel giorno avrei potuto far finire tutto, e invece mi sono
arresa, spaventata dall’immensità dell’odio che provo per mia sorella; in quel
momento ho avuto così tanta paura dell’inferno, che ho preferito subire le sue
botte piuttosto che essere ancora più certa di finirci quando arriverà la mia
ora. E se vado avanti così, sarà causata dalla mano di Margaret.
Quel giorno mi fece anche un occhio nero; per non dire la
verità mi inventai che avevo disobbedito e che ero uscita di nascosto,
lasciando Margaret da sola in casa. Fuori avevo litigato con quel moccioso
attaccabrighe che vive qualche isolato più in là, ed era stato lui a farmi
l’occhio pesto.
Io fui sgridata severamente per qualcosa che non avevo fatto
(per fortuna i miei non sono genitori che alzano le mani), Margaret fu
coccolata più del solito ed elevata al ruolo di angelo abbandonato, ma quel che è peggio è che mio padre conferì
con quello del ragazzino che avevo accusato.
Daniel, così si chiama il bulletto, al contrario di me, ha
un padre che non si limita a mostrare il proprio disappunto con parole deluse e
sguardi penetranti.
Così, da quel giorno, è il caso che mi tenga a debita
distanza anche da Daniel, se non voglio prenderne doppie. Suo padre deve
esserci andato giù pesante quella volta, perché seppi che Daniel non uscì di
casa per una settimana e non fu per una semplice punizione restrittiva.
Fortunatamente Daniel e io non frequentiamo la stessa
scuola, così mi è più facile evitarlo. Non l’ho ancora incontrato da quand’è
successo il fattaccio, e mi auguro vivamente che non avvenga, anche se ormai
sono abituata alle botte.
Eppure mia sorella non è sempre stata violenta con me.
Io non l’ho mai adorata, questo è vero, anzi, quando ero
molto piccola ero gelosa di lei, perché sentivo che i miei genitori davano più
attenzioni a Margaret che a me, perché, secondo loro, io non ne avevo così
bisogno come quest’ultima. Però lei non mi aveva ancora mai toccata. Ogni tanto
mi lanciava delle occhiate che mi raggelavano, ma credevo che da una come lei
fosse normale e che in sé non covasse cattive intenzioni nei miei confronti. Fu
quando ormai mi ero rassegnata a essere posta sempre in secondo piano perché
ero normale, e avevo deciso di accettare mia sorella per quello che è, che ha
iniziato a suonarmele di santa ragione.
La prima volta lo fece di notte. Mi stavo rigirando nel
letto dopo essermi svegliata spaventata da un incubo che non riuscivo a
ricordare ma che, dalla sensazione che mi aveva lasciato, doveva essere stato
tremendo. Mi stringevo al cuscino e speravo di riuscire a riprendere sonno per
dimenticare al più presto la paura, ma i miei occhi continuavano ad aprirsi.
Ricordo che provavo un’angoscia terribile, come se presentissi
che stava per accadermi qualcosa; forse avevo sognato proprio quel che avrei
subito a breve, ma non saprei dirlo con certezza.
Per me in quel momento esisteva soltanto il buio della notte
e la paura in qualcosa che non capivo cosa fosse.
La mia vista non si era ancora abituata all’oscurità della
stanza quando sentì aprire la porta. Impaurita mi strinsi forte sotto le
coperte, deglutii e finsi di dormire.
Sentivo quel respiro che si avvicinava, accompagnato da
quelli che mi parvero rantoli, e che mai saprò se furono reali o solo in frutto
della mia fantasia.
Tremavo.
In quel periodo ero vicina al mio settimo compleanno.
Avvertii chiaramente la presenza oscura che prendeva posto
sul letto accanto a me; al primo momento mi tranquillizzai quando mi resi conto
che si trattava di mia sorella. Per un attimo credei che anche lei avesse avuto
un incubo e che volesse dormire con me perché aveva paura.
Non che la cosa mi facesse piacere; avevo ormai deciso di
arrendermi all’evidenza che i miei genitori l’avrebbero sempre preferita a me
per via della sua condizione, ma questo non significava che avessi scelto di
amarla alla follia. D’altra parte quelle sue occhiate mi inquietavano sempre un
po’, anche se non credevo celassero niente di allarmante.
Però non la odiavo. Non ancora.
Margaret se ne stava in ginocchio accanto a me, sul mio
letto. Mi aspettavo che si stendesse per dormire ma, dato che non lo faceva,
stranita e curiosa, mi posi in ginocchio anch’io.
<<Meg, è notte. Che ci fai qui?>>, le sussurrai
a bassa voce; feci anche per toccarla, ma lei afferrò il mio polso nella sua
mano forte e iniziò a stringere.
Forte. Sempre più forte.
Mi venne da piangere ma il terrore che iniziai a provare mi
impedì di emettere qualsiasi suono.
Avevo capito perché mia sorella si trovava nella mia stanza
di notte; era orribile. Riuscivo a percepire le sue intenzioni dal modo in cui
respirava.
Fu mentre sentivo le ossa del mio polso sul punto di
scricchiolare, che Margaret mi colpì al volto con la mano libera. Mi diede uno
schiaffo così forte che mi rivoltò la faccia; io smisi di respirare per qualche
istante.
La guancia mi bruciava e io avevo iniziato a tremare più
forte.
Avrei voluto chiederle per quale motivo l’avesse fatto ma
non avevo voce per farlo; e non ne ebbi nemmeno il tempo. Margaret mi
scaraventò di nuovo stesa sul letto e iniziò a colpirmi sempre con maggiore
forza con schiaffi e pugni. Sentivo che da qualche parte spuntavano anche i
calci.
Proprio mentre i miei occhi cominciavano a scorgere la sua
sagoma, abituatisi alle tenebre, decisi di chiuderli per non doverla vedere
oltre. Sentivo soltanto i colpi che mi piovevano addosso senza nemmeno capire
dove arrivassero realmente. Sapevo soltanto che mia sorella mi stava facendo
male e non ne capivo il motivo.
Margaret non mi permise neanche di farmi scudo con le
braccia: faceva di tutto per immobilizzarmi. Voleva che io sentissi più dolore
possibile.
In quel momento capivo benissimo che Margaret sapeva
esattamente quel che stava facendo, ma mi resi anche conto che nessun altro
l’avrebbe pensata allo stesso modo.
Intesi che quella non sarebbe stata l’ultima volta, ma
mentre mia sorella ancora mi picchiava, già decisi che non ne avrei mai parlato
con nessuno.
Quando finalmente si stancò, Margaret mi lasciò andare.
Mentre si alzava percepii una goccia della sua saliva cadermi sul volto. Mi
disgustò, ma per la paura che potesse riprendere non mi pulii.
<<Tu sei… cattiva>>, biascicò sottovoce Margaret
prima di andare via.
Da quella volta, non parlò mai più dopo avermi inflitto le
sue immotivate percosse.
Ormai sono rimaste soltanto le sue urla agghiaccianti che,
ovviamente, emette unicamente quando siamo da sole. Anche per questo, sono
certa che lei sappia quello che fa.
E forse, dentro di sé, ha anche un motivo.
Quella notte da incubo restai ancora per un po’ stesa sul
mio letto, spaventata a morte all’idea che Margaret potesse tornare. Dal volto
mi tolsi subito l’impronta ripugnante della sua saliva, ma per il resto non
feci niente, se non starmene lì ad ascoltare il mio respiro accelerato.
Mi alzai soltanto all’alba, quando le prime luci del mattino
iniziarono a filtrare dalla mia finestra. Anche se ancora tremante, mi feci
coraggio e, in punta di piedi, raggiunsi il bagno.
Lì mi guardai allo specchio. Mi resi conto che Margaret non
mi aveva lasciato segni sul viso, forse perché lì si era limitata a infierire
con gli schiaffi, ma quando sollevai la maglia del pigiama mi venne di nuovo da
piangere.
All’altezza delle costole e dei fianchi ero piena di segni
bluastri, anche piuttosto grandi e marcati.
A tentare di toccarli mi facevano un male incredibile.
Fu da quel preciso istante che iniziai a odiarla. Mentre mi
guardavo allo specchio, esaminando le ecchimosi che mia sorella mi aveva
lasciato in ricordo, vidi chiaramente l’odio nascere nei miei occhi: aveva la
forma di una spietata lingua di fuoco.
Il fuoco dell’inferno, dove andrò quando sarò morta, perché
detesto mia sorella che è violenta con me. Quella sorella intoccabile per via
delle sue condizioni.
**
Oggi è una giornata d’inverno. Fa freddo e fuori c’è la
nebbia.
Stanotte ho fatto di nuovo un incubo che non riuscivo a
ricordare, ma che mi ha fatta svegliare di soprassalto in preda all’ansia. Per
ore ho temuto che Margaret arrivasse e mi facesse la festa, ma per fortuna non
è avvenuto. Ho ancora da smaltire gli ultimi lividi che mi ha lasciato la
scorsa settimana e non ho proprio voglia di collezionarne di nuovi.
Tutta la famiglia è seduta al tavolo della colazione.
Margaret porta il bavaglino come una poppante, ma nonostante questo riesce a
sporcarsi ovunque. E sì che non mi pare difficile mangiare una fetta di pane
imburrata e bere una tazza di latte.
Mentre mastica con la bocca aperta mi guarda, e nei suoi
occhi leggo lo stesso odio che io provo per lei; anzi, per un attimo ho il
dubbio che Margaret mi odi più di quanto faccia io con lei, ma subito mi dico
che è impossibile. Il sentimento terribile che mi condurrà all’inferno non può
essere eguagliato da nulla.
Nonostante il ribrezzo che mi ispirano la sua figura e il
suo modo di mangiare, mi sforzo per finire la colazione e per non contrarre le
mie labbra in un’espressione di disgusto. Devo stare molto attenta, perché mi
basterebbe la minima distrazione per far sì che avvenga, e credo che i miei non
la prenderebbero molto bene. Mi piacerebbe evitare di essere anche sgridata per
colpa sua.
Mia madre si alza, fa per prendere la mia tazza ormai vuota
e, mentre si avvicina al tavolo, mi posa una mano sulla spalla. Proprio su
quella spalla dove Margaret, la settimana scorsa, mi ha colpito vigorosamente
più volte.
Non posso fare a meno di sobbalzare e di lamentarmi.
Mia madre ritrae la mano e indietreggia di un passo,
lievemente spaventata dalla mia reazione, dopodiché mi torna vicina e, senza
che io possa impedirlo, mi abbassa la maglia del pigiama scoprendo il livido
vistoso che mi ricopre l’articolazione.
<<E questo? Di quand’è?>>, fa preoccupata,
accompagnando la sua domanda a un tono di rimprovero. <<Di settimana
scorsa>>, affermo, lanciando volontariamente una fugace occhiata a mia
sorella. So che lei l’ha colta. E so perfettamente che ha capito.
<<Ti sei fatta di nuovo male durante
l’allenamento?>>, insiste mia madre con aria afflitta; io mi limito ad
annuire. <<Se continui così dovrò esonerarti dallo sport, Nina. Ti fai
male di continuo, prima o poi ti farai qualcosa di serio>>, afferma
ponendosi le mani sui fianchi.
Io lancio una nuova occhiata d’odio a Margaret, intanto
penso che non sarò io a farmi qualcosa di serio, ma che qualcun altro lo farà a
me e che, guarda caso, anche se fossi esonerata dall’atletica, i lividi
comparirebbero magicamente comunque.
E poi non mi starebbe affatto bene dover rinunciare
all’unica mia distrazione dalle continue botte di mia sorella; anche perché il
mio sport è l’unica cosa che davvero mi appassioni e non ho intenzione di
perderlo per colpa di quella schifosa bavosa.
<<Starò più attenta d’ora in poi, te lo giuro, ma non
esonerarmi dall’atletica, mamma, ti prego>>, piagnucolo alzandomi in
piedi. All’idea mi viene davvero da piangere, soprattutto perché so che non è
lo sport a farmi male. Eppure non posso dire la verità, non mi è concesso.
Devo tenermela dentro, anche se brucia da morire.
Sento che le fiamme dell’inferno stanno già cominciando a
divorarmi.
Penso che quasi quasi dovrei buttare fuori tutto, anche se
le cose non andrebbero proprio come vorrei, ma ecco che quella lurida malata
mentale, che nonostante tutto capisce molto più di quanto lasci credere, inizia
a urlare distogliendo l’attenzione di mia madre da me.
Lei si avvicina a Margaret e tenta di tranquillizzarla;
intanto che c’è, provvede a pulirle il viso e le mani con il bavaglino.
Ormai mia madre non mi vede più, succede sempre quando
Margaret si mette in mezzo; a volte sono arrivata a credere che si senta in
colpa nei suoi confronti, quasi fosse a causa sua se Margaret è nata così.
Onestamente non credo che lo sia, anche se, così com’è, si è sviluppata dentro
di lei. E forse il suo senso di colpa è accentuato dal fatto di aver avuto una
seconda figlia perfettamente normale, come se qualcosa in lei si fosse
ribellato mentre aspettava mia sorella, trasformandola in quello che è. Per
questo, forse, mi considera meno degna di attenzione rispetto a Margaret,
perché crede di aver fatto un torto a quest’ultima.
Conoscesse la verità … ma no, probabilmente non cambierebbe
nulla.
Così mi limito a riprendere in mano l’argomento che più mi
sta a cuore al momento: <<Allora non mi esoneri dall’atletica, vero? Ti
prego>>, insisto.
Lei solleva un momento lo sguardo su di me, prima di tornare
a concentrarsi ossessivamente su mia sorella che scalcia e si dimena per
attirare la sua attenzione e per tenerla occupata.
<<Ancora no. Ma fai davvero attenzione, perché la
prossima volta che ti trovo un livido come quello non vorrò più sentire
ragioni>>.
Scelgo di accontentarmi, sollevo le spalle e poi lancio
un’altra occhiata a Margaret. Mi provoca tanto disgusto e tanto timore che mi
defilo correndo verso la mia stanza per vestirmi.
Non voglio proprio vederla oltre, per oggi. Anzi, vorrei non
vederla mai più. Sarebbe bello se morisse, se se la riprendessero quei
maledetti angeli, o quel che sono, che l’hanno mandata.
Mi investe ancora, d’improvviso, la sensazione d’ansia
dovuta all’incubo di questa notte che proprio non riesco a ricordare.
Ho indossato una delle mie solite e adorate tute, ho messo
le scarpe da ginnastica, poi il cappotto e infine il cappello di lana. Sono un
maschiaccio, mi piace vestirmi sempre sportiva; anche perché oggi pomeriggio ho
gli allenamenti. Prendo la cartella e mi avvio di nuovo al piano di sotto.
Mia madre sta mettendo il cappotto a Margaret che continua a
dimenarsi facendola impazzire, ma mia madre non perde la pazienza. Non la perde
mai con lei, credo sempre per via di quel discorso sul senso di colpa. Credo
che Margaret non abbia mai preso uno schiaffo in vita sua, nemmeno un semplice
buffetto di rimprovero.
Solitamente mio padre accompagna sia me che mia sorella alle
nostre rispettive scuole, (Margaret frequenta un istituto apposito per bambini
come lei; chissà perché sono certa che anche con gli insegnanti e con i
compagni si dimostri il solito angelo), ma oggi non ho proprio voglia di
dividere con lei il sedile posteriore, anche se so che in presenza di mio padre
non mi toccherebbe mai nemmeno con un dito. Non mi va di averla accanto nemmeno
per un solo secondo, oggi.
Non so perché, ma temo che il mio odio nei suoi confronti
stia peggiorando. E anche la paura.
Così, prima che possano chiedermi spiegazioni, esco correndo
di casa e urlo che ho voglia di andare a scuola a piedi per tenermi in
allenamento.
Non mi importa granché che faccia un freddo del diavolo, mi
interessa soltanto stare lontana da quell’obbrobrio di mia sorella.
Desidero davvero che muoia e non mi vergogno di pensarlo;
tanto, che differenza può fare? Andrò comunque all’inferno, anche se non
desiderassi la sua scomparsa.
Arrivo a scuola trafelata, ma sollevata dalla distanza che
mi separa da Margaret e sono molto felice di dover restare a scuola per gli
allenamenti, dopo le lezioni. Di solito, in queste occasioni, torno a casa a
fare merenda, ma oggi sono certa che lo eviterò.
Così non sarò a casa prima delle sette.
Non voglio vederla. Non voglio nemmeno pensare a lei.
Tutta sudata e rossa in viso per la corsa raggiungo il mio
posto a sedere in aula.
Vicky, che è la mia compagna di banco oltre che la mia
migliore amica, mi aspetta trepidante per raccontarmi che la sera prima Crystal
è stata punita dai genitori per averla sorpresa a rompere alcuni giocattoli
della sorella. La mia amica, raggiante, sostiene che ora Crystal non potrà
vedere la televisione per un mese e che, tutte le sere dopo cena, non riceverà
il dolce.
Io mi limito a sorriderle e non le rispondo. Invidio Vicky,
vorrei tanto avere una sorella come la sua. Poco mi importerebbe se per
dispetto mi rompesse qualche giocattolo, anche perché è sempre meglio che
rischiare di rimetterci le ossa.
Vicky prosegue nel suo racconto che non ho molta voglia di
ascoltare, fino a quando non giunge il suono della campanella a sottrarmi dal
suo entusiastico resoconto.
Stanno per iniziare le lezioni, e io finalmente potrò
tentare di volgere il mio pensiero il più lontano possibile da Margaret e
dall’inferno che questa ispira e che mi obbligherà a raggiungere.
**
Dopo la scuola e dopo gli allenamenti di atletica,
purtroppo, sono costretta a tornare a casa. Non so come mai, ma oggi avrei
voluto restare a correre su quella pista molto più del solito. Quando sono
arrivate le sei e mezzo, ovvero l’ora della fine dell’allenamento, quasi non potevo
crederci e per la seconda volta oggi mi è venuto da piangere.
Non mi va di tornare a casa, non voglio vedere Margaret. La
odio. La odio con tutta me stessa.
Mentre cammino lentamente, stanca per via dello sforzo
fisico e dei miei pensieri opprimenti, ripenso alle parole di Vicky di questa
mattina.
Perché? Perché? Mi
domando. Perché io non posso avere una
sorella normale? Non importa quanto potrebbe essere dispettosa. Credo che
non odierei una sorella come Crystal; probabilmente non ci andrei d’accordo, ma
non proverei per lei quello che sento per Margaret.
Questa sera la voglia di piangere in me è tanto forte che
non posso proprio contrastarla. Le lacrime mi rigano le guance e le mie spalle
sono scosse dai singhiozzi.
Non voglio più che Margaret sia mia sorella, non sono più
disposta a sopportarla. Decido, su due piedi, che quando crescerò non avrò mai
più contatti con lei, né me ne importerà qualcosa.
Cercherò di stare il più lontano possibile anche dal resto
della mia famiglia; se le cose vanno come spero, potrei viaggiare per il mondo
per prendere parte a importanti concorsi sportivi. E comunque, anche quando non
fossi impegnata con questi, preferirei vivere altrove, in un’altra città, o
meglio ancora in un altro stato.
Quando poi i miei non ci saranno più, se disgraziatamente
Margaret dovesse essere ancora viva (ho letto che chi è affetto dalla sindrome
di down non vive mai troppo a lungo), la farò rinchiudere in un ospizio e non
lascerò miei recapiti.
Il pensiero di un futuro in cui potrò starle lontana mi fa
sorridere tra le lacrime.
Sembra così bella l’idea di una vita senza di lei, penso che
finalmente riuscirei a vivere in pace.
So che l’inferno mi attenderà in ogni caso, ma a quel punto
non varrà la pena pensarci, perché almeno non lo vivrò più sulla Terra, e
questo sarà già qualcosa di buono.
Sono ancora immersa nelle mie fantasticherie di un’esistenza
da trascorrere alla larga da Margaret, quando qualcuno mi afferra con poca cura
per la spalla ricoperta dal livido.
Sobbalzo vistosamente, mi ritraggo dalla presa dello
sconosciuto e subito mi porto una mano all’articolazione dolorante.
Mi volto spaventata, ancora preda del dolore non
indifferente e ci metto un po’ a scorgere i lineamenti del ragazzino che mi
trovo dinanzi, illuminato lievemente dalla luce del lampione.
È Daniel, l’attaccabrighe che due mesi fa ho accusato
ingiustamente di avermi fatto un occhio nero per non rivelare la vera colpevole
del gesto.
Il terrore mi coglie all’improvviso e spalanco gli occhi,
chiedendomi se riuscirò a trovare una via di fuga.
<<Ehi, cretina. Perché spari balle?>>, mi
ammonisce Daniel con sguardo minaccioso. Io faccio finta di non capire, intanto
mi guardo intorno, sperando che il ragazzino non abbia deciso di portare con sé
qualche amico per farmi una bella sorpresa e, di conseguenza, una bella festa.
<<Due mesi fa hai detto che ti ho fatto un occhio
nero, quando non ti ho mai neanche sfiorata, perché spari balle?>>,
riprende facendosi più vicino. Io indietreggio tremante, sperando in un
miracolo.
<<Io … io non ti ho mai accusato di niente, lo
giuro>>, tento blandamente e con voce tremante, <<ah, no? E allora
sai dirmi perché tuo padre è venuto a parlare con il mio, dicendogli che ti
avevo picchiata?>>. Daniel fa una pausa, scrutandomi con espressione
truce, <<hai idea di quante cinghiate ho preso per colpa tua? Per non
aver fatto niente? Ma ora me la paghi!>>, ringhia.
<<Io non ti ho mai accusato, davvero>> per lo
spavento si sono inaridite le lacrime che stavo versando poco fa, anche se
qualche goccia di sale mi imperla ancora il volto. <<Era stato un altro a
picchiarmi, si vede che mio padre ha capito male quando gliel’ho detto, io non
sapevo che fosse venuto a casa tua a parlare con tua padre>>, invento sul
momento.
So che come scusa non può reggere molto, ma devo tentare il
tutto per tutto.
<<Ancora spari balle! E ti aspetti che ci
creda?>>, Daniel stringe i pugni e me li mostra. Digrigna i denti e sento
che è pronto ad attaccarmi, così comprendo che ho un’unica alternativa: benché
sia stanca per essermi allenata per un’ora e mezzo, mi metto a correre il più
velocemente possibile verso casa.
Non voglio prendere le botte di Daniel, non questa sera che
ho il morale già così a terra e covo in me un’agitazione senza pari. Voglio
soltanto rinchiudermi in casa, al sicuro, anche se momentaneamente; sono
persino disposta a sopportare la presenza di Margaret, tanto, finché mamma e
papà sono in casa, lei non mi sfiorerà.
Daniel è più grande di me, ha undici anni, ma per fortuna io
sono piccola e veloce, oltre che abituata alla corsa, così riesco a rifugiarmi
in casa prima che il ragazzino mi becchi e mi conci per le feste.
Tiro un sospiro di sollievo quando mi chiudo la porta alle
spalle, sana e salva, e non mi accorgo nemmeno di mia madre che si rivolge a
me. Probabilmente sta commentando il fatto che sia tornata a casa così come me
ne sono andata stamattina: correndo. E sicuramente avrà sostenuto che mi può
far male.
Non mi interessa. Con il battito del cuore che mi martella
nelle orecchie salgo le scale che mi conducono al piano di sopra e mi chiudo in
camera; mi stendo sul letto e lascio che il mio respiro vada via via
calmandosi.
Oggi sono scappata a Daniel, non accadrà per sempre, ma ora
non voglio pensare né a domani né ai prossimi giorni. Voglio solo riposare.
Non so quanto tempo sia da passato dal mio rientro, quando
mia madre apre la porta della mia camera; io mi tiro a sedere sul letto.
Inorridisco quando vedo che indossa il cappotto.
<<Allora noi andiamo, d’accordo? Ho già messo in
tavola la cena per te e tua sorella, assicurati che mangi abbastanza>>,
afferma con un sorriso.
Io la osservo a occhi spalancati. <<Dove?>>,
dico con tono spaventato. Non stasera. Stasera non voglio restare sola con lei.
No.
<<Non mi hai sentito prima?>>, fa mia madre corrugando
la fronte. Io scuoto la testa.
<<Io e tuo padre siamo stati invitati a cena dai
vicini. Non staremo via tanto, comunque per qualsiasi problema basta che chiami
loro e noi torneremo subito>>, fa una pausa, <<tanto non ce ne
saranno, come sempre, Margaret è un angelo>>.
Un angelo con le corna
e la coda a punta. Penso tra me e me. Chissà perché ho l’impressione che
entro la fine della serata avrò qualche livido in più, e stranamente comparirà
nonostante gli allenamenti di atletica siano già passati.
Purtroppo, però, non posso far altro che arrendermi e
rispondere affermativamente a mia madre.
Lei mi sprona a scendere subito a tavola, prima che la cena
si freddi e perché, come è mio dovere, devo badare a quella sorellina angelica
tanto più sfortunata di me.
Senza battere ciglio, eppure profondamente afflitta, scendo
le scale, arrivo in cucina e mi metto a tavola. Margaret è già lì, con il suo
immancabile bavaglino (non è lo stesso di questa mattina; quello era così
lercio che la mamma deve averlo già messo a lavare) che mi guarda in cagnesco e
ha già iniziato a sporcarsi la faccia con il cibo.
Mia madre mi invia un’ultima raccomandazione per la serata,
poi sento che chiude la porta a chiave dall’esterno.
Sconfitta e in preda all’ansia decido di distrarmi
accendendo la tv. C’è il telegiornale, stanno parlando di un uomo che ha ucciso
la figlia e poi si è tolto la vita. Mi domando perché non possa farlo anche mio
padre con Margaret; ovviamente senza poi doversi suicidare, non è certo la sua
morte che desidero.
Comunque le notizie non mi interessano granché; rivolgo lo
sguardo allo schermo unicamente per non pensare al mostro che siede al tavolo
con me e che non ho alcuna intenzione di aiutare a mangiare. Evitando di
guardarla riesco anche a conservare il mio appetito, che se ne andrebbe in un
lampo se mi voltassi verso di lei, osservando il suo modo orribile di nutrirsi.
Sento che ogni volta che avvicina la posata al piatto fa
cozzare rumorosamente l’una con l’altro; non so se voglia attirare la mia
attenzione per poi spaventarmi con il suo sguardo, oppure se lo stia facendo
senza rendersene conto, ma sta di fatto che non voglio guardarla.
Mi infastidisce quel suono, ogni tintinnio emesso dalla
forchetta che sbatte sul piatto aumenta vorticosamente il mio odio per lei. E
poi avverto il suo respiro. Quei suoi rantoli orribili.
Ma non vi volterò, non gliela darò vinta; so che vuole
provocarmi, vuole farmi paura, vuole vedere il terrore riflesso nei miei occhi, ma io continuerò così, fingendo che
sia invisibile, che non esista. Farò finta di prendere posto da sola a questo
tavolo. Forse, se la ignoro, riuscirò a sottrarmi alle sue perfide brame, per
lo meno fino a che non avrò finito di mangiare; e se proprio le devo prendere,
preferisco avere lo stomaco pieno.
Resto con lo sguardo fisso e assente rivolto verso il
televisore per un buon quarto d’ora, finisco di mangiare e mi concedo un
momento per respirare profondamente nel tentativo di tranquillizzarmi.
Non ho idea di quanto abbia mangiato Margaret, anche se mia
madre mi ha detto di badare che mangiasse abbastanza, ma sinceramente non mi
importerebbe un fico secco se quella povera stupida avesse soltanto sparso il
cibo per la cucina senza averne ingurgitato nemmeno un boccone.
Se non mangiasse forse non avrebbe la forza per farmi male,
il che sarebbe un gran vantaggio. E se poi smettesse di nutrirsi per sempre,
tanto meglio, alla fin fine me ne libererei definitivamente, che è ciò che
voglio.
Quanto detesto questa maledetta bambina ritardata, ho ancora
paura dell’inferno, ma non posso fare a meno di odiarla con tutte le mie forze;
vorrei che sparisse in questo preciso istante, vorrei …
Non faccio in tempo a finire di formulare il pensiero; ho
smesso di respirare quando mi volto a guardare prima mia sorella, che ora si
trova in piedi di fianco a me, e poi la mia mano adagiata sul tavolo, nelle cui
carni è stata conficcata la forchetta. E la posata è lì, in verticale, come l’asta
di una bandiera che decreti l’appartenenza di un territorio.
Il dolore inizia solo adesso; è tremendo, ma non voglio dare
a mia sorella la soddisfazione di vedermi piangere. Serro talmente forte le
labbra da non sentirvi più all’interno lo scorrere del sangue.
La mano trafitta ha iniziato a tremare; Margaret osserva con
trionfo la sua opera, anzi, il suo dominio, poi sposta lo sguardo su di me.
Ora me ne rendo conto, e ne sono più che certa, anche se
solo questa mattina mi sembrava impossibile: mia sorella mi odia più di quanto
io odi lei, e questo è spaventoso, perché non riesco a immaginare che questo
sia possibile.
Improvvisamente Margaret si mette a ridere; la sua è
un’ilarità diabolica, terrorizzante. È felice perché mi ha fatto del male, è in
estasi perché mi ha in pugno.
Sa di avere il coltello dalla parte del manico: io non dirò mai
niente e lei sarà considerata sempre un angioletto. Ma questa volta si sbaglia,
perché questo è troppo.
Stasera non manterrò il silenzio, non ho intenzione di
restare qui a farmi tagliuzzare come una bistecca. Non importa se non le
daranno la colpa, ma i miei genitori non mi lasceranno mai più da sola con lei;
magari si rivolgeranno a un medico, forse questo consiglierà loro di
rinchiuderla in un istituto, il che sarebbe grandioso.
Non voglio più subire, ma non voglio nemmeno rischiare che
la situazione degeneri: se ora provassi a prendere il telefono per avvertire i
miei Margaret se ne renderebbe conto, e potrebbe farmi ancora più male.
Sicuramente prenderò qualche botta entro la fine della serata, ma sarà l’ultima
volta.
Sospirando stoicamente mi faccio forza e, con la mano
tremante, afferro la forchetta che mi trafigge l’altra. So che il dolore non
sarà indifferente, ma devo estrarla.
Prima ancora che possa provarci, però, mi ritrovo il viso
rivoltato da un ceffone violento.
La guancia mi brucia, ma ancora di più brucia l’odio che
sento in me. Se devo andare all’inferno,
giuro che ti ci trascinerò con me. Penso in preda all’ira più furente che
abbia mai sperimentato.
Forse, più che parlarne con i miei genitori, dovrei agire
quando l’angioletto dorme ed è
inoffensivo. Non dovrebbe essere difficile soffocarla con il cuscino. Forse il
dolore della sua perdita, per mia madre, sarebbe minore rispetto a quello che
proverebbe sapendola un demonio violento.
Non so perché, ma mentre ancora mi impegno per incassare con
serenità lo schiaffo, mi piace pensare che in fondo, molto in fondo, dove
nessuno può entrare, anche mia madre sarebbe sollevata dalla morte di Margaret,
perché lei è un peso per tutti, anche se la maschera da angelo se la leva
soltanto con me.
Una cosa del genere non la saprei mai, ma già mi piace la
semplice idea che ci sia una possibilità in proposito.
Respiro ancora profondamente, dopodiché rivolto il viso il
sua direzione e osservo Margaret sorridendo. <<Hai finito di
mangiare?>>, le dico con voce tremante. Lei mi osserva con occhi
spietati, poi si porta una mano alla bocca. Se la lecca, quindi me la schiaccia
sul viso, bagnandomi con la sua saliva. Io chiudo gli occhi e sopporto.
Perché non farlo già
stanotte, mi dico. Non c’è tempo da
perdere.
Quando posso guardarla di nuovo, sentendomi addosso il puzzo
della sua saliva, so di essere convinta circa quel che devo fare.
Sono già condannata all’inferno, ma voglio che Margaret ci
vada prima di me. Perché ora ha superato il limite, la sua malattia non può
concederle e perdonarle tutto. Nemmeno Dio può più chiudere gli occhi di fronte
al suo comportamento.
Margaret si mette di nuovo a ridere, ma io non reagisco,
conscia del mio destino. Lascio che sfoghi tutta la sua gioia perversa, poi,
finalmente, la vedo voltarsi e barcollare verso la sala, poi la sento salire le
scale. Ascolto i suoi passi che si allontanano e, solo quando sono certa che abbia
chiuso la porta della sua stanza, riprendo coraggio. Con la mano sana, afferro
l’impugnatura della forchetta conficcata nella sinistra e, senza pensare
ulteriormente (se lo facessi non farei mai niente, e resterei così per tutta la
sera) la estraggo con un colpo secco.
Riesco a non urlare,
ma un gemito soffocato mi scappa.
Con dolore muovo le dita, poi mi stringo la mano al petto.
Devo comportarmi come se niente fosse, fare tutto quel che
avrei fatto normalmente prima del ritorno a casa dei miei genitori. Perché è
stanotte, al buio, quando lei dormirà e sarò io pronta ad attaccare, che dovrò
mettere in pratica qualcosa che avrei già dovuto fare da tempo.
Prima di tutto sparecchio la tavola, e porto i piatti al
lavandino. Apro l’acqua e, prima di iniziare a lavare le stoviglie, mi bagno
energicamente la faccia per togliermi di dosso lo schifo della sua saliva.
A stanotte, angelo. Penso
tra me e me. E mentre lo faccio, sorrido di gusto.
Con la mano ferita non è stato facile lavare i piatti, ma
alla fine, aiutata nella sopportazione del dolore dal pensiero di quello che
farò stanotte, sono riuscita a portare a termine il mio compito. Dopo sono
andata in bagno, mi sono disinfettata la ferita e mi sono fasciata la mano;
quando i miei torneranno mi farò trovare già a letto, così, almeno per stasera,
non mi chiederanno spiegazioni. E temo che domani saranno troppo occupati con
le pompe funebri per far caso alla mia benda.
Infine è giunto il momento per il compito più arduo, che so
bene a cosa mi condurrà; è così tutte le volte che Margaret e io ceniamo da
sole, però questa sarà l’ultima volta, e l’idea mi risolleva, dandomi il
coraggio per affrontare la mia prova finale.
Mi dirigo in camera del mostro con un tovagliolo; lei mi è
subito addosso, ma io sono decisa in tutto e per tutto a fare quello che devo.
I miei non devono sospettare niente quando torneranno, così non posso certo
esimermi dal pulire la bocca di Margaret, ancora impiastricciata dalla cena.
Le tengo la testa per i capelli mentre le avvicino il
tovagliolo alle labbra. Lei si dimena, urla e nel frattempo fa di tutto per
pestarmi i piedi. So benissimo che cosa accadrà non appena la lascerò andare,
ma non me ne importa assolutamente nulla, anzi, la lascerò fare con totale
arrendevolezza, perché il pensiero della sua morte imminente per mano mia è
così liberatorio da impedirmi di sentire qualunque dolore.
Infatti è quasi piacevole iniziare a subire le sue percosse.
Mi stendo subito a terra e lascio che Margaret inizi a infierire sul mio
costato con calci furiosi. Mi copro il viso, perché lì di segni non devo
averne, non posso, se voglio che sia tutto perfetto.
Lascio che mia sorella mi picchi e nel frattempo sorrido.
Odo i suoi soliti urli odiosi e nel frattempo me la immagino sdraiata sul suo
letto, con il cuscino premuto dalle mie mani (compresa quella fasciata che ha
ferito lei) sulla sua faccia, mentre dibatte braccia e gambe perché non riesce
a respirare. Io, in quel momento, spererò che la sua agonia si prolunghi il più
a lungo possibile, anche se questo rischierebbe di farmi scoprire. Perché nel
caso Dio perdonasse ogni suo gesto e decidesse di prenderla con sé in Paradiso
nonostante tutto, almeno saprò di averle reso un inferno il momento del
trapasso e, anche se non mi basterà, sarà comunque una consolazione.
A stanotte,
angioletto. A stanotte.
Finite le botte e lasciato l’angioletto felice e contento nella sua stanza, mi chiudo alle
spalle la porta, dolorante e acciaccata, ed entro nella mia. Le costole mi
fanno un male bestiale, ma io sono contenta perché ormai ho preso la mia ultima
dose di legnate, e d’ora in avanti potrò stare tranquilla.
È vero, ci sono ancora quelle che mi deve Daniel per la
bugia che ho raccontato sul suo conto; a questo punto mi conviene incontrarlo
il prima possibile, lasciare che me le suoni, e poi non pensarci più. A quel
punto sarò definitivamente libera, sia dalle percosse che dal fantasma di mia
sorella.
L’idea che Margaret non ci sia più è così meravigliosa che
mi sento la bambina più felice del mondo; non vedo l’ora che arrivi il momento
di farla finita così come la
Vigilia di Natale si aspetta che faccia mattina per aprire i
regali.
Me ne sto sdraiata al buio, tra le mie fantasticherie che
renderanno la vita, da domani in poi, decisamente migliore, e mi stringo la
mano al petto. Tutto sommato mi fa davvero male, più dei segni dei calci di
Margaret di poco fa. Quando tento di muoverla è un’agonia, ma mi dico che
presto passerà, che domani sarà tutto finito.
È con questi pensieri che mi portano a sorridere che chiudo
gli occhi. Dormirò solo un po’, mi
dico, quando mi sveglierò, più tardi,
andrò a controllare che mamma e papà siano tornati e siano già a letto, a quel
punto andrò in camera di Margaret. Tanto io mi sveglio sempre di notte.
A svegliarmi, non so dopo quanto tempo, è l’odore di
bruciato.
Ci metto un po’ a realizzare che questo non si trova nei
miei sogni e che devo assolutamente aprire gli occhi. La prima cosa che vedo è
la tenda in fiamme; spaventata mi accuccio nell’angolo del letto ed è solo in
quel momento che mi accorgo che il fuoco viene anche dal fondo del mio
materasso.
L’inferno è venuto a prendermi
prima che io possa uccidere Margaret, penso, poi alzo lo sguardo verso la
porta e la vedo. Tiene in mano la scatola dei fiammiferi.
Capisco che è vero, l’inferno è venuto a prendermi e il
diavolo è lei.
Non avrei potuto ucciderla, perché Margaret sapeva che cosa
stavo pensando e si è mossa prima di me, ma soffocarmi con il cuscino non
l’avrebbe soddisfatta abbastanza.
Lei vuole che io bruci.
La sento ridere mentre mi stringo contro il cuscino e
aspetto che le fiamme mi divorino.
Tra poco i miei genitori si renderanno conto delle fiamme
guardando verso casa dalla finestra dei vicini, ma sarà già troppo tardi.
Tra poco andrò all’inferno, ma credo non sentirò troppo la
differenza: in fondo c’ero già.
31 gennaio- 4 febbraio 2013
*lady in blue*