world of darkness

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venerdì 14 giugno 2013

Il Miglio Verde (Stephen King)

Originariamente postato sul vecchio blog il 17 luglio 2012

All’inizio di ques’tanno sono parita a leggere come un treno (eh sì, perchè i treni leggono, tutti i giorni proprio!); diciamo che l’inverno mi aveva messo nella giusta condizione mentale per dedicarmi a fondo alla parola stampata, ed era da poco che avevo ripreso a leggere tanto.
Per tanto tempo avevo preferito evitare i libri, ma poi improvvisamente è cambiato qualcosa, e mi sono ritrovata a volermi dedicare alla lettura assiduamente, diciamolo sì, anche nella speranza di poter apprendere qualcosa, di migliorare il mio stile di scrittura.
Si sa, lo dice anche il povero Snoopy (povero perché gli editori non accettano mai le sue storie), “Scrivere è un duro lavoro”. Oh sì, ha proprio ragione
Passati i primi mesi, per una ragione o per l’altra (qualcuna più ovvia e qualche altra meno), ho ridotto lo sfoglio delle pagine; ho ancora intenzione di proseguire nella mia “ripresa del tempo perso” per quanto riguarda l’approccio con i libri, ma vado un po’ più con calma, devo ritrovare il giusto stato mentale per concentrarmi di più.
“Il Miglio Verde”, però, è una lettura che risale ai primi mesi dell’anno, quando ancora leggevo come un treno (soprattutto leggono le locomotive)… ho deciso di andare con ordine a commentare i “miei” libri di quest’anno, e questo è stato il secondo, dopo Misery.
Sì, mi sono concentrata parecchio su King, penso ne valga la pena.
Spero di non combinare disastri nel mettere insieme questo commento, perchè ho letto questo libro mesi fa e non è così facile ricordare i dettagli; però mi sembrava lo stesso il caso di spenderci qualche parolina. Alla fine si tratta di un gran bel libro.
Che sa colpire, e soprattutto sa far riflettere. Su cosa? Sulla cattiveria dell’uomo.

IL MIGLIO VERDE


L’ultimo miglio, quello che divide le celle dei condannati dalla sedia elettrica (detta Old Sparky, ovvero Vecchia Scintillante), del carcere di Cold Mountain, è detto verde per via del colore del pavimento.
Queste sono le righe iniziali del romanzo, le riporto, perchè le trovo davvero d’effetto e poi è un frammento che mi piace molto:
“Gli avvenimenti risalgono al 1932, quando il penitenziario di stato si trovava ancora a Cold Mountain. E là c’era anche natualmente la sedia elettrica.
I detenuti scherzavano sulla sedia, come sempre si fa delle cose di cui si ha paura, ma da cui non ci si può sottrarre. La chimavano Old Sparky, come dire lo Scintillante, o Big Juicy, la Scaricona. Circolavano battute sulla bolletta della luce e su come e dove Moores, il direttore del nostro carcere, avrebbe cucinato il suo pranzo del Ringraziamento, quell’autunno, con la moglie Melinda troppo malata per mettersi ai fornelli.
Ma in quelli che dovevano veramente sedervisi, la voglia di scherzare si spegneva in un baleno. Nel periodo trascorso da me a Cold Mountain ho presieduto a più di settantotto esecuzioni (questo è un numero sul quale non ho mai fatto confuisione; me lo ricorderò sul letto di morte) e credo che, per la maggioranza di quegli uomini, la verità di ciò che stava accadendo li colpiva finalmente come una legnata quando gli bloccavano le caviglie alla solida quercia delle gambe di Old Sparky. In quel momento (vedevi la consapevolezza riempirgli piano piano gli occhi, una specie di freddo sgomento) si rendevano conto che le gambe avevano consluso la loro carriera. Dentro vi scorreva ancora il sangue, i muscoli erano ancora reattivi, ma avevano chiuso lo stesso; non avrebbero percorso nemmeno più un metro di un sentiero fra i boschi, non avrebbero più ballato con una ragazza a qualche festa di campagna.
Ai clienti di Old Sparky la coscienza della propria morte saliva dalle caviglie. C’era un sacchetto nero di seta da mettergli sulla testa quando avevano finito di pronunciare le ultime parole, perlopiù incoerenti. Il cappuccio era per loro, ma io ho sempre pensato che in realtà fosse per noi, per impedirci di vedere l’orribile marea di sgomento che sale nei loro occhi quando cominciano a capire che moriranno con le ginocchia piegate.”
Un inizio non indifferente, non c’è dubbio. Ho voluto sfogliare un po’ il libro prima di cimentarmi in questo commento. Sì, perchè rispolverare la trama nella memoria dando un’occhiatina a Wikipedia non sarebbe stato abbastanza, né avrebbe reso giustizia al testo.
Il narratore è Paul Edgcombe, ormai vecchio e che vive in un ospizio, ma sta scrivendo le sue momorie relative al 1932, anno in cui lavorò al Blocco E del penitenziario di Cold Mountain; anno in cui conobbe John Coffey … come la bevanda, ma scritto in modo diverso.
Paul era il soprintendete di blocco al carcere e con lui lavoravano i colleghi Harry, Dean e Brutus (detto Brutal), e poi…. e poi c’è Percy.
I primi prigionieri presentati al braccio della morte sono i cosiddetti “il Presidente” e “il Capo”, il primo riesce a evitare la sedia elettrica per via della condanna tramutata in carcere a vita (ma poi non avrà una bella morte, visto che finirà affogato nella lavanderia della prigione dove sarà stato trasferito), il secondo no. Ma la sua è un’esecuzione “tranquilla”, per quanto possa esserlo, e questa viene narrata forse più per creare un confronto con quello che avverrà dopo, oltre che per dare un’idea di come funzionavano le cose al cospetto di Old Sparky.
Dopo il Capo e il Presidente, arrivano i detenuti “importanti”, per lo meno per il proseguimento della storia: per primo Eduard Delacroix, piccolo francese odiato a morte da Percy, condannato a morte per aver violentato e ucciso una donna e poi, nel dare alle fiamme il suo cadavere, avrebbe finito con l’incendiare diverse abitazioni, portando alla morte altre persone.
E poi c’è John Coffey: uomo nero grande o grosso … anzi no, gigantesco. E’ accusato di aver violentato e ucciso due bambine, le gemelle Detterick, che gli sono poi state trovate tra le braccia sanguinanti e già morte, mentre il colosso piangeva. Prima di essere arrestato, John Coffey affermò che aveva tentato di rimediare, ma era tardi, e non aveva potuto farci niente.
Questa frase è presa fin da subito per un ammisione di colpevolezza, fatto incrementato dal fatto che l’anno sia il 1932 … e l’uomo è un nero.
Coffey, nonostante la sua mole, non sembra intenzionato a dare problemi, né a essere aggressivo. Al contrario è molto accondiscendente con Paul e tranquillo con tutti; la sua preoccupazione, una volta raggiunta la sua cella, è se di notte lasciano accesa qualche luce.
Perchè lui ha paura del buio.
Anche un altro detenuto entrerà a far parte della grande famiglia del Blocco E: William Wharton, a cui piace farsi chiamare Billy the Kid. Quest’ultimo è un personaggio imprevedibile, infatti scatenò l’inferno non appena giunse a Cold Moutain, tentando di strangolare uno dei colleghi di Paul (perdonatemi, non ricordo quale, e cecare di nuovo la pagina non è il caso. NDR), e fa spaventare a morte il caro Percy, che per la paura si zampillerà addosso, cosa che gli varrà lo scherno di Delacroix. Pessima mossa quella del francese, ma si vedrà proseguendo.
Tornando a Wharton: quel che sorprende e lascia sgomenti gli agenti, è il fatto che, nel momento in cui questo è stato da loro prelevato dalla casa di cura dov’era rinchiuso, per essere condotto al loro carcere, pareva un ebete, persino incapace di vestirsi da solo.
Il ragazzo è furbo, ma non solo. E’ demoniaco.
Un altro personaggio importante di questa vicenda? Sissignori, c’è! E’ il Signor Jingles, il topolino intelligente che si è fatto vedere per la prima volta al Blocco E quando ancora vi erano rinchiusi il Capo e il Presidente, e che poi diventerà grande amico di Delacroix.
Il francese insegnerà qualche giochetto al suo piccolo compagno e si affezionerà a lui in maniera viscerale. Sosterrà anche che, il suo nome, gli sia stato sussurrato all’orecchio dal topo stesso.
Beh, sicuramente il Signor Jingles avrà alleviato le pene dell’uomo, durante quei mesi che lo separavano dall’esecuzione.
Forse non meritava che questo avvenisse, potrebbe pensare qualcuno, dopo quello che ha fatto. Già, forse no, ma in questo caso reputo doveroso riportare (a grandi linee) l’impressione di Paul sugli uomini che abitano quelle celle: gli agenti vedono solo il prigioniero, l’uomo già morto che aspetta solo la messa in pratica della condanna. Quel che hanno fatto fuori di lì esiste, ma non è quel che si mostra ai loro occhi.
Il pensiero dello stesso Paul, all’arrivo di Delacroix, è che, qualsiasi cosa avesse commesso il suo crimine efferato, ormai in lui non c’era più.
E’ difficile discernere il bene dal male in certe circostanze. Ho sempre creduto che la pena di morte fosse una barbarie, e lo credo ancora, ma non vale forse lo stesso per quel che questi uomini hanno commesso? E’ giusto che paghino, ma in che modo?
E’ difficile darsi una risposta onesta, oltre che coerente. Quel che penso veramente, dopo tanto pensarci su, è che quel che è sbagliato, il vero orrore, è il fatto che le esecuzioni siano una sorta di “spettacolo” e che siano considerate un “mezzo di giustizia”. E’ forse giustizia uccidere un uomo, anche se questo ha ucciso? E’ umano stare a guardare, come se fosse realmente giusto? C’è differenza dalla vendetta: questa è dettata dalla rabbia, dall’istinto umano, dalla necessità insita nell’uomo di prevalere e dare sfogo al dolore, e questo, per quanto possa sembrare orribile, lo trovo già più comprensibile.
Ma la pena di morte … uno spettacolo macabro. l’orchestrazione dell’orrore mascherata da legge. Una cosa studiata, medidata, inculcata come giusta.
Ma torniamo al Miglio Verde (l’avevo detto che questo è un libro che fa riflettere ).
Paul avrà modo di sperimentare, prima da solo e su se stesso, poi insieme ai colleghi per quanto riguarda il topo di Delacroix, uno speciale “dono” di John Coffey, l’omone nero che per tutti è stato un mostro.
Inizialmente, con l’arrivo dell’uomo al Miglio, Paul soffriva di un’antipatica infezione alle vie urinarie (e ricordiamoci che siamo negli anni ’30, altro che antibiotici) che si porta dietro da parecchi giorni; Coffey riesce ad attirarlo a sé e, con la semplice imposizione delle sue mani riesce a guarirlo. Dopo aver tolto il male dal suo corpo, John lo risputerà fuori sotto forma di uno strano nugolo di insetti, che si dissolverà poi nell’aria.
Il secondo caso di guarigione avviene, come preannunciato, avendo come piccola vittima il Signor Jingles. Ho già detto che Percy odiava Delacroix, giusto? ho anche accennato al fatto che questi l’abbia deriso quando si è spaventato tanto da urinarsi addosso, no? Bene … il simpatico individuo, odiato da tutti i colleghi, ma pressocché intoccabile a causa delle sue conoscenze, approfitta di un momento in cui il topolino, eseguendo uno dei suoi giochetti, fuoriesce dalla cella del suo “padrone”, e lo spiaccica con tanta gioia sotto la scarpa.
Questo proprio la sera prima dell’esecuzione del francese. Ma quando Percy se ne va, contento e soddisfatto, John Coffey chiede che gli sia portato il topo … e fa lo stesso che aveva fatto con Paul: impone le mani su di lui, lo guarisce, poi risputa il male che c’era in lui.
Il Signor Jingles è tornato vivo e vegeto, (per fortuna non era troppo tardi, e John è riuscito a rimediare) per la gioia di Delacroix, che quella sera è più preoccupato della sorte che toccherà il suo piccolo amico quando lui sarà passato a miglior vita. I ragazzi della squadra di Paul inventeranno una storiella riguardo a una “città dei topi”, dove questi vengono presi per eseguire i loro numeri e far divertire i bambini, tanto per farlo stare tranquillo.
Cosa che manderà all’aria Percy, ovviamente. Ma il giovane adorabile non si limiterà a questo.
Infatti, il fato volle che, pur di liberarsi di lui, la squadra del blocco E abbia fatto un accordo con Percy: gli fanno gestire in prima persona un’esecuzione, e dopo lui chiederà il trasferimento. Sì dà il caso che l’esecuzione che presiederà sia proprio quella di Eduard Delacroix. E si dà il caso che Percy, in precedenza, abbia fatto tante domande all’ “addetto all’interruttore” (al momento il nome non mi viene proprio), sul perchè ai condannati si ponga una spugna inbevuta di soluzione salina sulla testa, sotto alla calotta del marchingegno mortale.
E si dà il caso che Percy sia un grandissimo idiota.
Cosa pensa bene di fare? Ma sì… facciamo un bello scherzo a Delacroix, ai cari colleghi e anche ai testimoni … facciamo uno scherzetto a tutti. Non bagnamo la spugna che va sulla testa.
Sì. bella idea. Davvero grandiosa.
Paul si accorge della malefatta troppo tardi e così, l’esecuzione del francese ha inizio ugualmente. Chiaramente questa non si svolge tranquillamente.
Tra grida, fumo, carne che va arrosto, occhi che si sciolgono nelle orbite … beh, al francesino non è concessa una morte rilassante.
La scena è, per altro, descritta magistralmente, con una suspense e un senso d’ansia crescente, che poi sfocia nell’orrore, al culmine della stessa, quando l’esecuzione non può essere fermata. E Paul si rende conto che un po’ tutti avevano presagito che qualcosa non andava, perchè tutti erano tesi e preoccupati quella sera.
Tra tutto questo orrore però c’è stata una frase che non ha potuto che suscitare la mia ilarità; la riporto:
“Anderson (uno dei capi a quanto ricordo, NDR) si era messo a gridare ai testimoni atterriti che era tutto sotto controllo, tutto a posto, era stato solo un improvviso aumento della tensione a causa della tempesta elettrica (quella sera si stava scatenando un temporale violentissimo, ari-NDR) , niente di cui preoccuparsi. Avanti di quel passo e avrebbe sostenuto che l’odore che avevano sentito, quella diabolica mistura di capelli bruciati, carne fritta e feci sfornate di fresco dall’ano croccante di Eduard Delacroix, era Chanel n°5″.
Beh, okay, forse la situazione narrata non prevedeva un gran divertimento, ma questa frase è il massimo. E poi gli stessi ragazzi, dopo aver trasportato il cadavere fumante nel sotterraneo, si ritroveranno a ridere come cretini per un’idiozia detta da uno di loro, nonostante siano sconvolti per l’accaduto. E forse è proprio lo shock a farli finire a ridere come scemi.
Così, il povero Delacroix è ormai finito fritto, e se non vado errato, il suo topolino scompare dal Blocco E.
Nel frattempo, Paul comincia a interessarsi sempre di più al caso di John Coffey, il nero enorme, l’accusato di essere un assassino e violentatore di due bimbe. Quello che è stato ritenuto colpevole a prescindere da tutto … perchè? perchè è nero. E siamo in America negli anni ’30, tutto regolare. Se mi si concede un altro commento personale: l’idiozia umana non ha mai limiti.
Ma Paul forse è un po’ più intelligente della razza umana nel suo complesso (o forse è per quel che ha visto fare a John), e comincia a nutrire qualche dubbio sulla sua colpevolezza. Come si convince della sua innocenza? I motivi sono due: uno, è la sua scarpa.
Sì, la sua scarpa. Perchè una sera gliela porge, e gli chiede di legarla. Ma John non ne è grando; il nero grande e grosso, il mostro, la bestia.
Colui che ha paura del buio.
Si dà il caso che, quando John è stato trovato insieme alle due bimbe morte, in preda alla disperazione, gli agenti abbiano trovato in un marsupio che portava con sé un involto che contenteva del cibo; la sua merenda, aveva sostenuto l’uomo. Questo pareva un punto a favore della sua colpevolezza, sì. Perchè tra quel cibo non c’erano le salsicce. E le salsicce erano state date al cane dei Detterick, per acquietarlo e distrarlo prima che gli fosse spezzato il collo. Ma si dà anche il caso che questo involto fosse legato con uno spago.
Così Paul, un po’ più intelligente del resto della razza umana, fa un semplice ragionamento: come può un uomo che non è nemmeno in grado di allacciare la stringa di una scarpa, a slegare e rilegare (per di più in breve tempo), un nastro che racchiude l’involto con del cibo, per estrarre da questo le salsicce da dare al cane?” (sempre splendida l’attenzione dell’autore per i particolari ). Tra l’altro, da notare, John Coffey avrà sostenuto fin dall’inizio di non ricordare chi gli avesse dato quella merenda.
Ma non c’è solo questo. Paul ricorda tutto quel che ha letto riguardo al caso Coffey, e c’è un’altra cosa che lo rende sospettoso: i cani che sono stati impiegati per la ricerca delle bimbe, ad un certo punto, si sono fermati e una parte di loro voleva proseguire da una parte, gli altri dall’altra. Domanda: perchè? Risposta: I cani avevano dimenticato cosa stavano cercando, se le bambine o l’assassino. Per questo tiravano in due direzioni differenti. Ma Coffey è stato trovato con le bimbe.
Di questo Paul ne parla con i suoi colleghi e riesce a convincerli. Sa di non poter far niente per salvare John (anni ’30, uomo accusato e già condannato di colore), ma, visti i precedenti a cui ha assistito, decide di far compiere a Coffey un’ultima buona azione: la moglie del capo dei capi, Moores, è gravemente malata. Se non erro, il male che l’ha colpita è un tumore al cervello. Paul pianifica un’evasione del colosso perchè possa guarirla. Sulle prime gli amici sono un attimino restii ad accettare quest’idea, ma alla fine si lasciano convincere.
Però, perchè questo avvenga, vengono messi fuori gioco i due “rompipalle” principali: Percy viene preso, legato per benino, e sbatacchiato in cella d’isolamento (e questo sa di non poter dir molto, visto che i ragazzi gli fanno credere che sia una punizione per quello che ha fatto a Delacroix), e poi c’è Wharton: lui viene messo a nanna.
Così John Coffey viene portato fuori, in gran segreto, dal carcere di Cold Mountain, dal braccio della morte, e condotto dalla donna che deve aiutare. Lui sa cosa sta andando a fare, anche se nessuno gliel’ha detto. Ma non sa come lo sa. E’ una cosa che non ha mai capito.
Moores, ovviamente, vedendosi piombare in casa, senza preavviso, un bestione dalle sembianze mastodontiche, per di più accusato di stupro e omicidio, non è al massimo della felicità, ma alla fine lascia fare. La moglie dell’uomo sembra ricordarsi di John, dice di averlo visto in un sogno, dove entrambi vagavano nell’oscurità.
Così John si mette all’opera: impone le sue mani, e aspira in sé il male che affligge la donna … solo che questa volta non lo espelle, come aveva fatto precedentemente. E questo sembra lo faccia stare malissimo.
La squadra di Paul si muove ugualmente per riportare John in carcere, dove viene risistemato nella sua cella; ma è qui che avviene il colpo di scena. Percy viene liberato dalla cella d’isolamento e, non appena lo ha a tiro, John lo costringe costro le sue sbarre e si libera, soffiandolo in lui, del male che ha risucchiato dalla signora Moores.
A questo punto Percy impazzisce, prende la sua pistola ed entra nella cella di Wharton, ancora pacificamente residente nel mondo dei sogni, e lo crivella di colpi. Da quel momento in poi, Percy non sarà più in grado di parlare né di riprendere coscienza, e terminerà i suoi giorni in un ospedale psichiatrico.
John sosterrà di averlo fatto perchè sia Percy che Warthon erano “cattivi”. Ma Paul non capisce per quale motivo John abbia voluto punire quest’ultimo … su Percy ha la sua idea: questo ha arrostito Delacroix (cosa che Coffey sapeva), aveva tentato di uccidere il topolino … ma perchè Warthon? a lui non ha mai fatto niente, non si sono neanche quasi mai parlati. Cose di cui parla con sua moglie … ed è una la frase, proprio di lei, che lo aiuta a vederci improvvisamente più chiaro: “E’ solo che non capisco perchè John lo abbia fatto. Non è che sia violento di natura. E da questo nasce un’altra domanda, Paul: come puoi giustiziarlo se hai ragione su quelle bambine? Come puoi accettare l’idea di farlo sedere sulla sedia elettrica se è stato qualcun altro …” .
Già, qualcun altro. E Coffey, apparentemente, non aveva alcun motivo per uccidere William Wharton. Paul si ricorda di quando, appena arrivato Wharton al Miglio Verde, questi sia stato afferrato, attraverso le sbarre, da John e questo abbia avvertito qualcosa.
Decide quindi di informarsi al rigardo. Va a indagare nel luogo in cui sono morte le gemelle Detterick. Mentendo sul conto di Wharton (dicendo cioè che, durante una perquisizione, gli hanno trovato addosso le foto di bambine svestite, e che quindi  volesse indagare, nonostante la sua morte, se nel suo passato ci fossero trascorsi di pedofilia), gli viene riferito che una volta è stato trovato in una stalla a molestare la bambina di un uomo del luogo, anche se la violenza non è arrivata fino in fondo. Gli viene anche riferito che Billy the Kid, come amava farsi chiamare l’adorabile angioletto, ne avrebbe fatte di cotte e di crude già dalla tenera età. Insomma, ha cominciato a infrangere la legge intorno ai 10 anni.
Ma poi scopre anche qualcos altro: pareva che fosse stato assunto un uomo, il mese precedente la morte delle gemelle, a casa Detterick, per compiere alcuni lavori di manodopera; un uomo che ha visto le bambine, conosciuto il cane, mangiato allo stesso tavolo della famiglia, sentendo dire che le gemelline, per quell’estate, avrebbero voluto poter trascorrere qualche notte nella veranda in giardino.
Un uomo che si faceva chiamare Will Bonney, il vero nome di Billy the Kid. Il quadro ormai pare più che completo, ma non esiste niente che  possa salvare John dalla sua condanna. In fondo sono sempre gli anni ’30, e lui è un nero (ribadisco il concetto. Va ribadito.)
E così, anche per lui, arriva infine il giorno dell’esecuzione; un’escuzione che nessuno degli uomini di Paul (consci della sua innocenza), riesce ad accettare, ma che non può essere evitata.
E’ stupenda la frase detta da questo gigante, nella sua cella con Paul, poco prima che arrivi la sua ora:
“So che vi siete preoccupati, ma adesso dovreste smettere di starci male. Perchè io voglio andare, capo. Non ne posso più del dolore che sento e vedo, capo. Non ne posso più di vivere in strada, solo come un pettirosso sotto la pioggia. Mai un amico da andarci assieme, un amico che mi dice da dove veniamo o dove stiamo andando e perché. Non ne posso più della gente cattiva che si fa del male. Per me è come cocci di vetro piantati nella testa. Non ne posso più di tutte le volte che ho voluto rimediare e non ho potuto, Non ne posso più di stare al buio. Soprattutto è il dolore. Ce n’è troppo. Se potessi smettere di sentirlo, lo farei. Ma non posso”.
E John, mentre tiene le mani di Paul, senza accorgersene gli dona parte della sua essenza, di quella capacità di sentire e vedere tutto. Un effetto che poi svanirà in breve tempo, ma avrà sull’uomo un’altra peculiarità, che scoprirà solo nella sua vecchiaia.
L’unica cosa che John Coffey chiederà prima di morire sarà di non calargli in testa il cappuccio, perchè lui non vuole stare al buio. Ha paura del buio. E l’ultimo desiderio gli viene concesso.
Era Brutus detto Brutal che avrebbe dovuto gestire l’esecuzione, ma l’ultima frase, quella che sancisce il “via” alle operazioni, non riesce a pronunciarla. E’ lo stesso Paul a farsi coraggio, e a parlare per lui.
Così, tutti loro, consapevoli dell’innocenza di John, non possono fare altro che guardarlo morire. Lui voleva andare, ma è difficile lo stesso da accettare.
Così si conclude la storia di John Coffey, ma non quella di Paul Edgcombe. Con il protagonista/nattatore si torna alla sua vecchiaia, e alla sua casa di riposo. Del suo lavoro a Cold Mountain si sa soltanto che, quella di Coffey fu l’ultima esecuzione a cui presiedette.
Nella sua “dimora” dell’ultimo atto della sua vita è con Elaine, una cara amica, ospite anch’ella della casa di riposo. A lei ha fatto leggere queste sue memorie. E a Elaine sorge un dubbio: Paul scrive di aver avuto due figli nel ’32, già grandi, quindi quanti anni poteva avere, nel 1996? Così lui le dà la risposta: ne ha 104. Eppure pare un ottantenne. E non ha mai avuto problemi di salute, quasi nulla. “Nemmeno una faringite”, sosterrà.
A quel punto, dopo averle fatto leggere tutta la storia, decide di far vedere una cosa alla sua amica: la porta nei dintorni isolati della casa di riposo, dove si trovano dei capannoni, e lì le mostrerà il suo piccolo segreto : Un topolino. vecchio. ma ancora con lo sguardo intelligente. E’ il Signor Jingles. Non si sa da dove sia spuntato fuori, Paul sa solo che l’ha trovato un giorno, mentre passeggiava, e l’ha riconosciuto subito.
Ma il roditore muore improvvisamente, senza preavviso, mentre Paul è girato dall’altra parte, e non per mano di Brad Dolan, uno degli inservienti della casa di riposo, e che all’anziano ricorda tanto Percy, ma così… da un momento all’altro.
Dalle memorie di Paul, si sa che anche la sua amica Elaine è venuta a mancare in seguito, ma pare che se ne sia andata serena.
Ma questa non è certo la prima perdita di Paul: ha 104 anni, e ha visto morire tutti coloro che gli erano cari, tra cui gli amici e la moglie; quella moglie morta sulla strada per un incidente in pullman; quella moglie morta tra le sue braccia, mentre lui, sotto la pioggia, invocava il nome di John Coffey, che certamente non sarebbe arrivato.
Paul sa cosa è avvenuto, quando il gigante, prima di morire, gli ha tramandato il suo dono senza rendersene conto.
Come già  detto, non si è quasi più ammalato in quegli anni, sembra un ottantenne, nonostante sia molto più vecchio. La vita per lui è più lunga, più duratura … non infinita, sa che la morte arriverà anche per lui.
Significativa, in questo senso, è la frase di chiusura del romanzo:
“Tutti noi dobbiamo una morte, non ci sono eccezioni, lo so, ma certe volte, oddio, il Miglio Verde è così lungo”.
**
Questa è stata una lettura intensa, dall’inizio alla fine; interessante, forte, travolgente. E anche emozionante. Non si può non amare John Coffey, e non si può restare indifferenti alle sue parole.
E non si può nemmeno fare a meno di chiedersi perchè la gente continui sempre, imperterrita, a farsi del male.
Come dice John a proposito, lui non ne può più.
E ha ragione.
*
Da questo romanzo è stato tratto un film, dal titolo omonimo, dove il ruolo di Paul Edgcombe è interpretato da Tom Hanks, e quello di John Coffey da Micheal Clarke Duncan; un film molto ben riuscito, che rende giustizia al suo equivalente su carta stampata.
Anche perchè, per una santa volta di numero, le differenze tra i due sono davvero esigue, e questo è un aspetto che apprezzo tantissimo.
(Avete idea del nervoso di aver letto un libro o visto un film, e vedere/leggere la versione televisiva/letteraria, e rendersi conto delle differenze, a volte paradossali? Io sì, è una cosa che detesto. Sarà perchè sono strana, forse ).
Bene, che dire, penso di poterla chiudere qui.
Inizialmente stavo quasi per rinunciare a scrivere questo commento, perchè ricordavo ben poco di questo scritto, avendolo letto sei mesi fa, e mi pareva squallido scrivere due righe in croce, senza riuscire ad andare a fondo nella vicenda, ma poi ho pensato che valeva davvero la pena riprendere il mano il volume e sfogliarlo di nuovo, andando a cercare le parti più significative, o quelle che la mia memoria non voleva ricostruire come si doveva. Beh, sono conteta, tempo ben speso
Ancora una volta, mille grazie all’autore per questo romanzo, per aver condiviso il suo talento e ciò che questo produce.
Certi personaggi riescono davvero a essere indimenticabili; e così è John Coffey.

Alla prossima

*lady in blue*

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