world of darkness

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mercoledì 27 novembre 2013

Il volto dell'angelo

 
Ciao!! Dato che ormai sembra quasi impossibile aggiornare tranquillina da casa (veramente cercare un po' di pace sembra chiedere troppo), ho deciso che per il momento tanto vale che posti dal lavoro, anche perché, altrimenti, penso che potrei non arrivare mai alla fine delle pubblicazioni già programmate.
Il post di oggi è un racconto, o almeno, una mezza specie. In tutta onestà credo sia il peggiore che abbia mai scritto, l'ho detestato fin da subito, ma alla fine mi sono decisa a postarlo lo stesso. Tanto sarebbe inutile farlo solo con ciò che mi convince di più.
Diciamo che non deve avere aiutato molto scriverlo durante l'orario di pausa del lavoro, a mano, e seduta su una panchina qualunque (tranne per l'ultimo paragrafo, scritto direttamente al pc, anche se sempre durante la pausa), ma comunque sia, rileggendolo, continuo a pensare che questo testo non mi dica assolutamente niente.
Va beh.
Sono quattro situazioni messe a confronto. Quattro situazioni tutte collegate, anche se l'ultima ha ... un punto di vista decisamente diverso.
Ho avuto l'ispirazione in proposito leggendo una notizia di cronaca di qualche mese fa, e così ho voluto provare ad analizzare una situazione simile, pensando a come l'accaduto potesse essere visto da una parte e dall'altra, riferendomi alle persone coinvolte.
Speravo di raggiungere un risultato decisamente migliore, ma pace e amen, alla fine ho scelto di postare anche questo testo, anche se all'inizio mi rifiutavo completamente.
D'altra parte l'ho scritto sei mesi fa. Non so nemmeno molto bene in quale categoria inserirlo; storia nera o storia grigia? Sarei portata a dire grigio scuro, nel suo complesso, ma mi resta sempre qualche dubbio, anche se l'ho collocato comunque tra le gray stories. 
Buona lettura comunque e, come sempre, i commenti sono ben accetti :D 

 

IL VOLTO DELL’ANGELO


Hannover – h 06.45 – IL NUOVO CUORE


Il telefono aveva squillato alle prime luci dell’alba e, quando riattaccò, il primo pensiero di Anita fu Dio esiste.
Era l’ospedale.
Aveva quasi creduto di sognare, invece era tutto vero: un cuore. Era stato trovato un cuore compatibile per Peter. Il trapianto sarebbe stato eseguito quella mattina stessa.
Dio esiste, aveva esclamato mentalmente, ed era certa che non potesse essere altrimenti, perché quel che stava accadendo non era altro che un miracolo.
Peter aveva solo dieci anni, era così ingiusto che dovesse morire ancora bambino per via di quel difetto congenito. No, non sarebbe stato giusto.
Ma d’altra parte, si sa, le cose peggiori accadono sempre agli innocenti, e Peter era senza dubbio uno di essi.
Peter era una bel bambino: alto, biondo e con gli occhi azzurri, ma era anche gentile e buono con tutti, e poi, era bravo a sopportare la sua situazione. Non piangeva mai, né si lamentava, ma Anita aveva notato come ogni tanto il suo bambino guardasse fuori dalla finestra della sua stanza, come agognando il mondo esterno, la vita.
Peter viveva in ospedale da sei mesi e Anita era sempre più in collera con l’Altissimo, che prima le aveva tolto il marito, e ora le infliggeva la beffa della minaccia di strapparle anche il suo unico, adorato figlio.
Sarebbe stato troppo, anche perché il motivo sarebbe stato sempre lo stesso: un cuore malato.
Hans aveva avuto un infarto due anni prima, a soli quarant’anni.
Un’altra perdita sarebbe stata insopportabile per Anita, che si era sforzata di superare il dolore per Peter. Ma dopo quei sei lunghi mesi d’angoscia per la sua malattia, anche il cuore di Anita si era fatto debole. Estremamente debole.
Aveva perso la fede, ma l’aveva ritrovata quella mattina all’alba.
Non avrebbe più visto Peter adagiato su quel letto come un secondo cuscino, circondato da cavi e tubi quasi questi fossero degli agghiaccianti angeli custodi. O almeno, non per molto ancora, e finalmente avrebbe avuto una nuova speranza nel cuore.
Sarebbero stati duri i primi tempi dopo il trapianto, non si faceva illusioni, ma avrebbe pregato e sarebbe stata vicina al suo bambino, e tutto si sarebbe sistemato. Ci credeva.
Era bello pensarlo.
Non sarebbero mai più stati una famiglia completa, perché Hans non c’era più, ma lei e Peter avrebbero guardato avanti, mano nella mano.
Era una bella giornata fuori. Era nato un nuovo sole e, quando il giorno fosse giunto al centro della sua vita, avrebbe fatto caldo così come prevede il bel mese di maggio.
Ogni cosa ora era al suo posto perfetto, o almeno, lo era quasi tutto.
Anita aveva pensato solo di sfuggita al bimbo che aveva donato a Peter il suo cuore, non sapeva nemmeno come si chiamasse, né quanti anni avesse, ma a dire il vero non le importava più di tanto. Gli era grata, questo sì, e quando fosse stata sicura dell’esito positivo dell’operazione di Peter gli avrebbe dedicato di certo una preghiera, affinché il Signore l’avesse in gloria per sempre.
Perché Dio esisteva davvero: aveva salvato il suo piccolo angelo, e questo era abbastanza per crederci.
Anita raggiunse l’ospedale trafelata verso le sei di quel promettente mattino di maggio. L’equipe di specialisti stava già preparando Peter che, appena la vide, spaventato tese la mano verso la madre.
<<Mamma, ho paura>>, affermò il bimbo sull’orlo delle lacrime.
Ad Anita si strinse il cuore. Le sembrava che Peter fosse tornato ad avere non più di quattro anni.
Era così … piccolo. E indifeso.
Peter era nelle mani di un destino per lui troppo grande, che non riusciva a capire.
Gli strinse forte la mano.
<<Non devi, tesoro>> lo tranquillizzò <<tra poco avrai un cuore nuovo, che batte bene, e starai bene anche tu>> concluse quasi annaspando, per via del tremendo nodo che le attanagliava la gola.
Peter però non sembrò trarre giovamento dalle parole della madre; infatti proruppe in singhiozzi.
Nella mente di Anita divenne ancora più piccolo: due anni appena.
<<E perché non l’ha avuto anche papà, un cuore nuovo?>> chiese Peter tra le lacrime.
A quelle parole, il cuore di Anita di fermò. Il suo cuore sano. Già, perché anche Hans non aveva potuto salvarsi? Ma quella domanda interiore fu subito spazzata via da una dolce considerazione: quant’era speciale il suo bambino! Anche in quel momento per lui così difficile, il suo pensiero volgeva a qualcun altro, a una sorte che non era la sua. Fino a quel momento le era sembrato divenire più piccolo, ma poi pensò che la sua testa era già quasi quella di un adulto.
Il suo Peter. Il suo angelo.
Forse, se Dio aveva voluto salvarlo, doveva avere in serbo qualcosa per lui, una vita da vivere fino in fondo.
<<Papà è morto all’improvviso, nessuno sapeva che aveva il cuore malato, così non è stato possibile trovarlo>> gli rispose infine. Ed era la verità. La verità fa sempre bene ai bambini, anche quando è dura da accettare.
Peter infatti parve calmarsi un poco.
Si asciugò gli occhi con le mani bianche e esili.
<<Il mio cuore nuovo non si romperà come quello vecchio, mamma?>> riprese più controllato. Era una domanda penosa, sicuramente Peter aveva paura, eppure non piangeva più. Non era sereno, ma serio e interessato.
Anita, vedendo che la verità era stata in grado di lenire l’ansia del suo bambino, decise di non mentirgli neanche in questo caso, anche se era ancora più gravoso del precedente.
<<Può essere che il tuo corpo lo rigetti, all’inizio, perché non va bene per lui come sembra. Ma se questo non succede, il tuo cuore nuovo non si romperà, perché è sano>> e, dicendo ciò, gli strinse più forte la mano.
<<Ci sarà papà durante l’operazione, per farla andare bene?>> riprese dunque il bambino. Ad Anita scappò un sorriso malinconico. L’immagine di Hans accanto a Peter in sala operatoria le scaldò il cuore.
<<Certo che ci sarà papà con te. E ci saranno anche gli angeli>>.
Dopo queste parole, Anita baciò Peter sulla fronte, poi lo portarono verso la sala operatoria.
Lei lo seguì fino a che non le fu intimato di fermarsi, quindi raggiunse la sala d’attesa.
Il suo bambino si sarebbe salvato, il suo bambino aveva una nuova possibilità. Non voleva pensare alle possibile conseguenze negative, era certa che tutto sarebbe andato per il meglio.
Ormai allo stremo delle forze si lasciò cadere su una sedia. Aveva la fronte sudata e il cuore a mille.
Era bello pensare che presto Peter avrebbe avuto un cuore come il suo, sano e forte.
Solo un pensiero, leggero e di sottofondo come il fischio di un treno in lontananza, le attraversò la mente stanca per l’emozione.
Grazie, Dio.

Monaco di Baviera – h 12.45 – APNEA


L’avevano avvisato in tempo, quarantacinque minuti prima.
Stava quasi per mettersi a tavola con la sua famiglia, quando gli avevano comunicato che i polmoni erano stati trovati.
Era stato splendido digiunare quel giorno; i crampi allo stomaco non erano certo la cosa peggiore che avesse sperimentato da tanti anni a quella parte.
Ne aveva cinque quando gli avevano diagnosticato la fibrosi cistica e, da quel momento in poi, era stata una lotta continua e snervante contro l’apnea, il suo nemico invisibile.
Quand’era ancora bambino, Nikolaus aveva paura ad andare a letto da solo, perché, nella sua concezione infantile, l’aria gli mancava per via della mano di un mostro che gli serrava la gola.
Aveva avuto ogni sera il terrore che il mostro arrivasse per farlo smettere di respirare.
Poi, crescendo, aveva iniziato a vederci chiaro.
Oramai aveva quindici anni e, con i nuovi polmoni che lo attendevano, presto il futuro gli si sarebbe srotolato davanti. Come un tappeto rosso per un ospite speciale.
E Nikolaus, dopo quella telefonata di mezzogiorno, un po’ speciale si sentiva. Lui aveva atteso quel momento per dieci anni, ed era un tempo interminabile, ma per molti altri bambini e ragazzi nelle sue condizioni, il momento non arrivava mai.
E c’era un solo epilogo per quella rappresentazione teatrale, se non avveniva il colpo di scena: il protagonista soccombeva, e infine calava il sipario.
Anche se era un’altra l’ipotesi peggiore: l’idea di morire era pietrificante, ma quella di dover finire attaccato a un respiratore per il resto dei suoi giorni era semplicemente atroce.
Non l’aveva mai preso seriamente in considerazione, tanto il pensiero lo atterriva.
E sapeva che sua madre, nel caso di un’insufficienza respiratoria, l’avrebbe fatto attaccare al macchinario.,
Nikolaus aveva provato a farla ragionare in proposito, e a farla desistere, ma non c’era stato verso.
No, lei non avrebbe mai lasciato morire il suo bambino, non senza aver lottato fino in fondo.
Nikolaus si chiedeva se anche lui, al suo posto, avrebbe fatto lo stesso nei confronti di una persona che amava, pur di trattenerla accanto a sé.
Non aveva saputo rispondersi.
Gli era capitato qualche volta (quattro, lo ricordava con esattezza) di essersi ritrovato con un tubo in gola per via di crisi violente, ma poi era sempre stato liberato da quella morsa dopo poche ore, un giorno al massimo.
Ma non erano state esperienze piacevoli.
E l’idea di morire così non era affatto allettante.
Ma non lo era neanche quella di morire soffocato a causa dei suoi stessi polmoni, che avevano deciso che no, non c’era bisogno di essere sani.
Nikolaus sognava una morte eroica, da protagonista di un’avventura o di una storia travolgente. Come quelle dei libri: cavalieri, uomini di valore, idealisti e paladini della giustizia. Loro erano i suoi eroi.
Se doveva morire giovane, per lo meno avrebbe preferito che ne valesse la pena.
Sarebbe stato un po’ triste, e anche imbarazzante, avvalersi di un’uscita di scena così avvilente.
Il protagonista non ci lasciava mai le penne per fibrosi cistica. Quello (o uno simile) poteva essere al massimo il ruolo ricoperto dallo sfigato di turno, il poveraccio della vicenda. Quello che forse fa pena, ma che di certo non suscita ammirazione.
Nikolaus si era quasi abituato a ricoprire quel ruolo; non era certo la parte che prediligeva per sé, ma c’era stato ben poco da scegliere, dato che, per lui, l’aveva già fatto il destino.
Quel destino che, chissà con che criterio, eleggeva i suoi eroi senza preoccuparsi degli altri personaggi della storia.
Ma da quel giorno, Nikolaus si stava sentendo tramutare nel protagonista: perché è l’eroe quello che si salva sempre all’ultimo, quando si crede che ormai non resti niente da fare. Un miracolo, una casualità, un segno del fato, comunque lo si volesse chiamare, il risultato era il medesimo. L’eroe si salvava, ed era subito pronto a intraprendere nuove avventure. L’eroe non aveva mai tempo da perdere.
E Nikolaus si domandava che cosa avrebbe fatto di quel tempo che inaspettatamente gli veniva concesso.
La vita lo aspettava dopo l’intervento, e lui non aveva intenzione di sprecarla, aveva perso già troppo tempo.
L’infanzia andata in fumo non si poteva recuperare, ma partire da lì, quasi quello fosse l’inizio, quello sì, era possibile.
L’emozione era talmente vasta che gli toglieva il fiato.
Apnea. Un’altra volta. Ma in questo caso era diversa, era quasi liberatoria. Perché vedere tanto lontano, improvvisamente, scorgere l’orizzonte e rendersi conto che oltre c’è dell’altro, era una sensazione indescrivibile, quasi spaventosa nella sua grandiosità.
Fino ad allora, Nikolaus aveva sempre visto chiaramente il traguardo, con la parola FINE scritta al centro a lettere cubitali. Ogni anni si faceva sempre più vicino e oltre c’era solo la sua stessa fossa.
Ma ora il mondo si  stagliava infinito di fronte a lui, e con esso il futuro. Non si sarebbe mai più accontentato di trascorrere i suoi pomeriggi rinchiuso in camera, a leggere di eroi che non avrebbe mai eguagliato.
Voleva uscire dalla scatola ed essere uno di loro.
Anche in un scatola, dopo un po’, si soffoca.
E non doveva più esistere apnea per lui. Mai più.
Voleva respirare a fondo e godersi la vista di ciò che ai suoi occhi, fino ad allora, era rimasto celato.
Avrebbe viaggiato sicuramente, quando fosse finita la scuola. Nel frattempo si sarebbe dedicato a qualche passatempo eccitante, magari a uno sport estremo, come l’alpinismo.
L’idea di scalare, di correre verso l’alto per raggiungere una meta ambita e difficile gli regalava un senso di euforia. E di stupore, anche. Se ne stupiva perché non ci aveva mai pensato prima, lui che aveva trascorso la sua vita incollato ai libri. Ma nella carta stampata l’azione appartiene soltanto agli altri e, ora che Nikolaus aveva un valido motivo per sentirsi speciale, non voleva più che così fosse.
Quando giunse l’ora per l’intervento, Nikolaus trattenne il respiro.
Ancora apnea. L’ultima della sua vita, si disse. L’ultima di quella vita. Perché da allora in avanti, ce ne sarebbe stata un’altra ad attenderlo.
Una vita nuova, che aveva intenzione di assaporare con tutte le sue forze.
Perché di forze ne avrebbe avute in quella nuova vita.
Grazie, Dio. Pensò appena prima di addormentarsi in sala operatoria.
Tratteneva ancora il fiato. Per l’ultima volta.

 

Amburgo – h 18.45 – GIALLO PALLIDO


Una cosa simile non sarebbe dovuta capitare a nessuno, ma a una bambina come Sofia, meno ancora.
Una creatura allegra, dolce, generosa, spensierata e piena di vita.
Ci sono tanti bambini viziati, egoisti e cattivi al mondo, pensava sempre Greta, se proprio doveva capitare a qualcuno (anche se lei, di certo, non lo augurava), allora che fosse successo a loro, piuttosto che a sua figlia.
Lei, più di chiunque altro, non lo meritava.
Sofia: con i suoi vestiti sempre colorati (era lei stessa a sceglierli), con il suo sorriso smagliante.
Mai e poi mai, con lei, si sarebbe potuta concepire la vita in bianco e nero. Tutto era a colori sgargianti.
Finché la monocromia non aveva preso il sopravvento, e tutto si era fatto giallo.
Sofia soffriva di una grave forma di epatite, e per Greta era stato un duro colpo.
La sua bambina era malata.
La sua.
D’improvviso, la vita di Sofia era stata delimitata da quelle orrende pareti d’ospedale e, in un attimo, i colori erano spariti.
Il cielo ormai era bianco, il viso di Sofia giallo e la sua anima giocosa si era fatta grigia.
Sofia non giocava più, non rideva più, non indossava nemmeno più i suoi vestiti colorati.
Oramai, le sue magliette, erano tutte giallo pallido, come se si fossero stinte.
E si era stinta anche lei, Sofia, la bambina sempre allegra. Perché Sofia era insofferente alla permanenza in ospedale, detestava essere chiusa tra quattro mura.
Sofia aveva bisogno d’aria e di raccogliere i frutti della sua giovane vita. Non spettava forse a ogni bambino? Perché Sofia era stata privata di quella gioia?
Perché Sofia piangeva, quando ai suoi coetanei era concesso ridere? Greta si era posta ininterrottamente queste domande durante i primi mesi, dopodiché era arrivato il colpo di scure. Quello che non lascia scampo, e sgretola tutto.
Le avevano detto che Sofia, senza un trapianto, non sarebbe sopravvissuta.
Si era sentita andare a fondo, come se avesse al collo un masso e si trovasse al largo. Aveva lottato strenuamente per restare a galla, ma era stata trascinata sempre più giù, verso la profondità, e i suoi polmoni avevano bisogno d’aria.
Sofia, a sei anni, rischiava di andarsene per una malattia al fegato. Era terribile, ma non solo: era inconcepibile. La sensazione che la invase fu forse la più scontata, ma assolutamente chiara: Dio le aveva abbandonate. E la convinzione si intensificò quando scoprì di non poter donare parte del suo fegato a sua figlia, per via di una stupida incompatibilità.
Il loro gruppo sanguigno era lo stesso, eppure erano incompatibili, quello era il colmo.
E non esisteva un padre che potesse sperare di fare altrettanto, perché Sofia non lo aveva.
Non lo aveva nemmeno mai conosciuto, e Greta pensava fosse meglio così.
Ora però, la corda che le legava il masso al collo si era allentata, e Greta stava risalendo rapida verso la superficie, desiderosa di tornare a respirare.
Era stato trovato un fegato per Sofia; per la sua bambina si era accesa una luce, si era mostrata una speranza. Forse la vita non voleva abbandonarla, forse Dio si era reso conto dell’assurdità di quell’abominio gettato su Sofia, e stava facendo un passo indietro.
Perché anche l’Onnipotente poteva commettere errori, Greta ne era certa. Dio non conosce una figlio come fa una madre.
Greta sorrideva al pensiero del visino angelico di Sofia che abbandonava quel giallo disgustoso per riprendere il suo colore naturale.
Sofia che sorrideva di nuovo.
Sofia che tornava a correre all’aria aperta.
Sofia che si circondava di nuovo di colori.
Sofia che poteva andare avanti, e ricominciare a crescere.
Sarebbe stata dura all’inizio. Un trapianto di fegato non è mai cosa semplice, ma Greta era tranquilla.
Perché ormai vedeva la luce del sole mentre abbandonava la profondità dell’abisso. E lassù, su quelle acque, c’era anche un salvagente. Per lei e per Sofia.
Sarebbero rimaste a galla e, piano piano, avrebbero nuotato fino a riva.
E su quella spiaggia immaginaria, Greta pensava che Sofia avrebbe indossato un costumino colorato, forse rosso, e avrebbe giocato fino a sera, riprendendosi quell’instancabile vivacità che era solo sua.
Niente più giallo pallido. Solo un arcobaleno di colori. Sofia era l’arcobaleno stesso, o almeno, era quello di Greta.
L’intervento era iniziato verso l’una del pomeriggio. Forse ci sarebbe voluta qualche altra ora prima che terminasse, ma finalmente Greta stava respirando di nuovo, senza alcun peso attaccato al collo che la trascinasse a fondo.
E senza alcun peso sul cuore.
Infine lo pensò, perché anche se Lui le aveva abbandonate in precedenza, finalmente era tornato da loro, e tendeva la sua mano misericordiosa per trarle in salvo.
Grazie, Dio.

 

Berlino – h 00.45 – NEL BUIO


Il suo piccolo angelo avrebbe aiutato dei bambini sfortunati. Oramai Cecilia aveva perso il conto di quante volte avesse detto e pensato quelle parole. Il suo piccolo angelo.
Sedeva al buio, sul pavimento, stringendosi le ginocchia al petto. Tremava, anche se era maggio e non faceva affatto freddo.
Ma dentro Cecilia era ghiacciata.
Nella mano destra teneva stretta quella fotografia. Non poteva vedere il suo volto, lì nel buio, ma non avrebbe potuto separarsene.
Anche perché, avere in mano quell’istantanea, l’aiutava a rivedere quell’amato visino nella mente, quasi l’immagine si irradiasse dalle sue dita su per il braccio, oltre la spalla, fino a raggiungere il cervello. E lui era lì, nella totale nitidezza della luce accecante, e non l’avrebbe mai abbandonata.
No. Perché aveva aiutato altri bambini.
Cecilia non sapeva se in effetti Matthias avrebbe voluto farlo, ma lei aveva deciso. Era convinta che l’avrebbe aiutata a combattere il dolore, che quel pensiero l’avrebbe fatta sentire in pace. Non del tutto, certo, ma almeno un po’.
Perché non si può certo tornare alla normalità quando il proprio figlio viene a mancare.
Matthias era stato investito da un pirata della strada la sera precedente, mentre tornava dall’allenamento di calcio. Era verde quando aveva lasciato il marciapiede; Cecilia lo attendeva sul lato opposto. Aveva ritardato di qualche minuto quella sera per andarlo a prendere. Di pochissimo in realtà, quel tanto che bastava affinché si trovasse ancora sull’altro lato della strada anziché davanti al cancello.
Matthias l’aveva vista e le era corso incontro. Ma era verde. L’avevano visto tutti, anche i testimoni.
Il pazzo l’aveva preso in pieno, dopodiché era fuggito, ma a Cecilia non importava nemmeno che venisse ritrovato. Che cosa sarebbe cambiato? Per avere giustizia? No, non ne valeva la pena. Lei non voleva giustizia, desiderava soltanto riavere suo figlio.
Ma sapeva che non era possibile, per questo aveva scelto di donare i suoi organi. Durante l’incidente Matthias aveva battuto violentemente la testa, morendo all’istante, ma i suoi organi non avevano riportato lesioni. Un tragico scherzo del destino, come a voler dire: è proprio il suo cuore quello che serve. I suoi polmoni. Il suo fegato. I suoi, non quelli di qualcun altro. E Cecilia si era sforzata di accettarlo. Anche perché realizzava che, pensando al suo corpicino svuotato, la sua mente mai e poi mai avrebbe potuto confondersi, facendole credere per qualche effimero istante che potesse essersi trattato solo di un sogno.
Cecilia non voleva illusioni, perché le avrebbero fatto soltanto più male.
Matthias non c’era più, era morto, tanto valeva accettarlo.
Aveva aiutato altri bambini. Il suo angelo.
Eppure non ci riusciva. Fingeva di essere forte quando amici e parenti andavano a consolarla, ma quand’era sola, era tutta un’altra musica.
Quando non c’era nessuno poteva soltanto starsene al buio, lasciarsi inghiottire da esso, sedersi sul pavimento, tenere stretta la sua foto. E attendere.
Neanche lei sapeva che cosa, ma avrebbe atteso. Quando fosse giunto il momento avrebbe compreso.
In quel momento vedeva l’assurdità del mondo, vedeva chiaramente che girava nel verso sbagliato. E non soltanto per Matthias o per lei, ma per tutti, e ogni singolo individuo doveva adattarsi a quell’andamento rovesciato. Anche lei l’aveva fatto fino a quel momento, non lo dubitava, ma non era più tempo per assecondare ciò che non era giusto.
Per questo stava ferma. Che girasse tutto il resto, lei non si sarebbe mossa. Forse, restando dov’era, prima o poi sarebbe rientrata in contatto con Matthias, perché anche lui doveva trovarsi bloccato da qualche parte.
Il suo angelo aveva aiutato altri bambini. Quando si trovava al buio, di quelle parole, Cecilia non se ne faceva niente. Perché non a qualcun altro? Perché proprio a Matthias? Ma quelle erano domande inutili: un altro genitore, al suo posto, si sarebbe chiesto la stessa cosa, e quindi non valeva niente.
Una ragione non esisteva, questo era quanto. Matthias era solo uno dei tanti, e lei non poteva farci niente.
Poteva limitarsi a tenerlo con sé tramite i ricordi e le fotografie, ma tutto il resto era superfluo.
Chissà quanti altri bambini erano morti quello stesso giorno, insieme al suo? Quanti altri genitori in preda alla disperazione esistevano, oltre a lei? Comprendeva tutto, anzi, vedeva.
Le percezioni si erano allargate e Cecilia era un po’ ovunque. Vedeva bambini soccombere dopo lunghe malattie, altri vittime di incidenti simili o meno a quello di suo figlio. Vedeva madri e padri in lacrime, seduti a terra, al buio.
Non c’era da domandarsi perché, era tutto molto semplice. Capitava, fine delle favole.
E, come a molti altri, era capitato a Matthias. Ma almeno il suo angelo aveva aiutato altri bambini. Cecilia non voleva sapere a chi fossero andati gli organi di suo figlio, temeva che avrebbe avvertito la necessità di squartarli per riprenderli, anche se era stata lei a scegliere di donarli.
E andava bene così. Se non altro, che Matthias non fosse morto invano.
Non le restava che rassegnarsi, stringendo e stringendo la sua foto, sperando di riuscire a incontrarlo, prima o poi, in quell’eterna stasi senza tempo.
Ogni tanto, anche se era certa che una ragione non ci fosse, una domanda faceva capolino nella sua testa, come un’onda che si infranga sulla riva.
Sapeva che non aveva senso, ma succedeva ugualmente, come gli incidenti.
Perché, Dio?

21 – 24 maggio 2013
 
*lady in blue*

lunedì 4 novembre 2013

L'ombra del vento (Carlos Ruiz Zafón)



Ciao!!
Rieccomi, finalmente! Sì, l'intenzione era quella di postare già venerdì, dato che ero a casuccia per il giorno festivo, ma non sia mai non incasinarsi come si deve.
Ora prego che il blog mi assista dato che inizialmente sembrava aver deciso che scherzare e non farmi scrivere un nuovo post fosse una bella idea. E sinceramente mi scoccerebbe rimandare ancora questa pubblicazione, visto che ho circa altre ottantamila cosine da postare, ma dettagli.
Ma ok, bando alle ciance. Oggi ho deciso di inserire il commento a L'ombra del vento di Carlos Ruiz Zafón, che ovviamente è soltanto il secondo libro letto quest'anno, dopo La figlia del boia.
La cosa più entusiasmante di tutte è che questo testo l'ho sfogliato all'inizio dell'anno e a questo ne sono seguiti altri dieci, quindi sarà molto divertente cercare di mettersi in pari con la pubblicazione dei commenti. Anche se poi, in coda ce ne sarebbero in realtà nove, considerando che a quello relativo alla biografia su Maria Antonietta di Stefan Zweig ho dato, come si è visto, la precedenza. Non è male anche l'idea che, comunque, questi commenti siano già tutti pronti, solo che mi ci vorranno dai cinquanta ai cento anni per postarli sul blog, che bello.
Una cosa noiosina che, invece, riguarda questa stessa recensione, riguarda il fatto che l'avrei iniziata e conclusa in due momenti differenti per mancanza di tempo (la seconda parte l'ho scritta dopo più di una settimana dalla fine della lettura, e questo significa fare allegramente casino), quindi non sono molto convinta della sua buona riuscita, ma pazienza.
Come per La figlia del boia, anche in questo caso mi sono astenuta dal rivelare il finale del testo che, salvo eccezioni, nelle mie recensioni non verrà più esposto chiaramente.

Ok, penso di aver finito con questa sorta di pseudo-presentazione del commento in questione, quindi posso tranquillamente finirla. Dico soltanto che questo libro mi è piaciuto davvero molto.




L’OMBRA DEL VENTO

Di Carlos Ruiz Zafón


L’ombra del vento mi ha accompagnato per una settimana, rendendo piacevoli i viaggi in metropolitana e allietando la domenica in cui l’ho iniziato e quella in cui l’ho concluso.
1945. Barcellona. Sono passati sei anni dalla fine della Guerra Civile spagnola, e dalla morte della madre del protagonista e narratore della vicenda, Daniel, che una notte si sveglia in preda al terrore, rendendosi conto di non ricordare più il suo volto.
Daniel ha quasi undici anni, vive con suo padre, proprietario di una libreria.
Quella mattina, all’alba, il signor Sempere, padre di Daniel, condurrà con sé il figlio al Cimitero dei Libri Dimenticati. Quello è un segreto di cui non dovrà parlare con nessuno; <<neanche alla mamma?>>, chiede il bambino. Il padre gli risponde di sì, che per lei non hanno segreti.
Ad aprir loro la porta di questo luogo misterioso è Isaac, il custode, e tra quegli infiniti scaffali impolverati Daniel sente qualcosa di magico, pensa che chiunque sia fuori di lì, a guardare una partita di calcio piuttosto che a fare qualsiasi altra cosa, stia perdendo il suo tempo mentre lui scopre la bellezza di qualcosa di unico, che potrà sempre portare con sé.
Ma la sua visita al Cimitero dei Libri Dimenticati ha uno scopo preciso: deve scegliere un libro tra i tanti che esistono lì dentro e deve “adottarlo”.
E Daniel si imbatte improvvisamente ne L’ombra del vento, un romanzo di un certo Julián Carax, che non ha mai sentito nominare prima. Ne è attirato, come se quel libro lo attendesse in quel luogo da prima ancora che lui nascesse, così ha deciso, gli mette il guinzaglio e lo adotta.
Daniel finirà di leggere quel libro quella stessa notte, ne resterà estasiato e vorrà sapere di più sull’autore che pare sconosciuto.
A suo padre viene l’idea di farsi aiutare da un certo Gustavo Barceló, proprietario di una libreria in città e grande esperto di libri. In effetti Barceló conosce Julián Carax e vorrebbe che Daniel gli vendesse L’ombra del vento, cosa che Daniel si rifiuta di fare.
Barceló è stupito (e affascinato) dalla caparbietà del ragazzino, al quale interessa soltanto sapere qualcosa sull’autore del romanzo da lui adottato, e dove può trovarne altri.
Gli propone di trovarsi con lui il giorno seguente alla biblioteca dell’università; lì gli dirà qualcosa in più su Carax, a patto che lui porti il libro e glielo lasci esaminare.
Daniel accetta.
Il giorno dopo, però, alla biblioteca dell’università non incontra soltanto Gustavo Barceló, ma anche la nipote di quest’ultimo, Clara, una ragazza cieca che ha dieci anni in più di Daniel, del quale però il ragazzino si innamora irrimediabilmente fin da subito.
Da Barceló e da Clara, Daniel scopre, con sua grande sorpresa, che la copia da lui posseduta de L’ombra del vento è l’unica ancora esistente. Le altre sono state tutte bruciate da un personaggio misterioso che faceva di tutto per impossessarsi dei libri dell’autore per poi darli alle fiamme.
Anche a Clara piace molto Carax, anche se a lei hanno letto La casa rossa, ed è sinceramente contenta quando Daniel si offre di andare a casa sua a leggerle altri libri, partendo proprio da L’ombra del vento.
Da questo momento nascerà un’amicizia grande quanto complicata tra Daniel e Clara, che durerà cinque anni. Durante questo periodo il ragazzino che cresce frequenterà la casa di Barceló, con il quale Clara vive dopo la morte dei genitori (il padre è morto durante la guerra civile, ucciso da un certo Francisco Javier Fumero, una banderuola che, dopo aver fatto parte degli anarchici e aver bazzicato tra comunisti e fascisti a seconda di chi gli faceva più comodo, era passato dalla parte del vincitore alla fine della guerra, arruolandosi in polizia e diventando un famoso ispettore).
In casa Barceló Daniel legherà anche con Bernarda, la domestica, la quale gli farà un po’ da madre, dato che il ragazzino l’ha persa che era molto piccolo.
Il padre di Daniel non è molto entusiasta di questa amicizia e ben presto si scoprirà che, in effetti, non era proprio il meglio per Daniel.
Quando questi compie sedici anni, quando la sua amicizia con Clara pare ormai star diventando sempre più complicata, e dopo aver visto sfumare i suoi progetti di invitare a cena coloro che in quegli anni si erano tramutati in una sorta di seconda famiglia (Clara gli manda a dire che è impegnata e non potrà esserci), e dopo aver discusso con suo padre, decide di uscire.
È qui che lo incontra, anche se non è la prima volta che lo vede. Era già successo anni prima, quando era appena entrato in possesso del libro di Carax: l’aveva notato dalla sua finestra, fermo a osservarlo mentre fumava una sigaretta, per poi allontanarsi zoppicando.
Questa volta, lo strano personaggio si avvicina a Daniel e gli dice di fargli avere la copia de L’ombra del vento che è in suo possesso. Perché? Perché vuole bruciarla.
Quell’uomo a Daniel ricorda fin da subito un personaggio di quello stesso libro: il diavolo.
Lo sconosciuto mostra per un attimo il suo volto a Daniel, deturpato dalle fiamme.
Il ragazzo si inventa in fretta e furia una scusa: dice di aver regalato L’ombra del vento al professor Neri, che altri non è che l’insegnante di musica di Clara, che Daniel detesta. L’uomo senza volto gli intima di sistemare la questione con questo tizio e si dilegua nella notte.
Ma, in realtà, il libro Daniel l’ha regalato a Clara. Preoccupato che possa accaderle qualcosa si fionda a casa sua, sottrae il libro dal posto in cui la ragazza l’aveva sistemato, poi decide di andare a darle un’occhiata in camera da letto. Ed è lì che la trova in rapporti molto intimi con il suo professore di musica che, infastidito dall’intrusione, lo sbatte fuori in malo modo spaccandogli il labbro con un colpo.
Questo è il momento in cui Daniel decide di non vedere mai più Clara, si impone di dimenticarla per sempre. Mentre si ritrova in strada, sanguinante e disarmato, viene avvicinato da un barbone che si offre di aiutarlo. L’uomo si chiama Fermín Romero de Torres.
Per il momento è solo un senzatetto lercio dalla testa ai piedi, ma manca poco tempo perché questo (all’apparenza) poveraccio diventi il migliore amico di Daniel.
Congedatosi dal barbone, Daniel torna al Cimitero dei Libri Dimenticati, dove lascia al sicuro la sua copia de L’ombra del vento. E qui approfitta anche per fare due chiacchiere con Isaac, il custode, che gli racconta qualcosa su questo fantomatico Julián Carax.
Carax è di Barcellona, ma per molto tempo ha vissuto a Parigi, dove di notte lavorava come pianista in un bordello, mentre di giorno si dedicava alla stesura dei suoi romanzi. Romanzi che sono rimasti sempre sconosciuti Un certo Cabestany, vecchio amico di Isaac, che era un editore a Parigi, aveva acquistato per due soldi i diritti di questi scritti che continuò a pubblicare benché ci perdesse.
Ma alla sua morte gli sarebbe subentrato il figlio, al quale si sarebbe presentato un certo Laín Coubert, interessato all’acquisto di tutti i libri di Carax.
Daniel capisce che si tratta dello stesso uomo che vuole da lui la sua copia de L’ombra del vento per bruciarla e che si fa chiamare con il nome di un personaggio di questo stesso libro: il diavolo.
Pare che però Cabestany figlio, che era molto furbo, abbia chiesto al misterioso Coubert di essere pagato molto più di quanto questo offrisse; l’uomo senza volto ha rifiutato, e a qualche notte di distanza tutto il deposito dell’editore viene dato alle fiamme.
Così Daniel suppone che tutte le copie dei libri di Carax siano state ridotte in cenere, ma Isaac gli confida che la segretaria di Cabestany, una volta venuta a conoscenza di questo contatto con Coubert, pare abbia avuto un presentimento e abbia prelevato dal deposito una copia per ogni romanzo di Carax. E questa donna, che aveva contatto con lo stesso scrittore ed era sua amica, è Nuria, la figlia dello stesso Isaac.
Quindi una copia per ogni libro di Carax è custodita nel Cimitero dei Libri Dimenticati.
E così Daniel decide di iniziare a indagare su questo misterioso scrittore e sui suoi romanzi che qualcuno cerca per dare alle fiamme, incoraggiato anche da una foto che viene lasciata appositamente per lui, non si sa da chi, nella libreria di suo padre, che raffigura Julián Carax in giovane età insieme a una ragazza, di fronte alla cappelleria che gestiva il padre dello scrittore.
Mi fa sorridere sempre questa mania dei personaggi dei libri di non farsi mai i fatti propri, (decidi di indagare su uno strano e sconosciuto scrittore di romanzi i quali qualcuno cerca per bruciare? Ma perché mai??), però d’altro canto bisogna pur costruire le storie su qualcosa e se i protagonisti non fossero curiosi di scoprire anche cose che non li riguardano per niente, non si andrebbe da nessuna parte, anche se a volte la faccenda può risultare un po’ troppo irreale.
Però in questo caso il romanzo è costruito così bene che l’eccessiva curiosità di Daniel ci può stare. Anche perché poi assolutamente nulla è lasciato al caso.
Daniel inizia quindi a documentarsi su Carax, prima andando a fare un saltino nei pressi della vecchia cappelleria appartenuta al padre di Julián, del quale lo scrittore non porta il cognome (Carax era quello della madre da nubile, il cappellaio si chiamava Antoni Fortuny), dove però riuscirà a parlare solo con la portinaia, che gli racconta un po’ di fattacci della famiglia in questione (d’altra parte è una portinaia) e poi, grazie alle insistenze di Daniel, conduce quest’ultimo nel vecchio appartamento dei Fortuny/Carax e gli consegna anche una lettera indirizzata a Julián firmata da una certa Penélope.
Una lettera che Julián non ha mai ricevuto e che parla della partenza per Parigi dello stesso Julián, alla quale anche Penélope avrebbe dovuto prendere parte, cosa che non poté fare per misteriosi motivi.
Daniel fa dunque visita all’amministratore del condominio dove la famiglia Fortuny/Carax viveva, scopre un altro paio di cosette e da questo si fa raccontare per bene quel che sa sulla storia relativa allo scrittore e alla sua famiglia.
Viene fuori un passato tenebroso; pare innanzitutto che Julián non fosse il figlio del cappellaio (cosa che ricorda a Daniel di nuovo L’ombra del vento, in quanto il romanzo in questione inizierebbe con il protagonista che cerca il suo vero padre), e che questo, uomo tanto caro e adorabile, non perdesse mai occasione per picchiare  a sangue la moglie.
Per quanto riguarda il resto, lascio che l’eventuale lettore lo scopra sfogliando le pagine.
Ad aiutare Daniel  nelle sue ricerche c’è Fermín Romero de Torres, il non più barbone che il ragazzo ha raccattato dalla strada e messo a lavorare con lui e suo padre in libreria.
In seguito, dopo una prima visita di Daniel a Villa Aldaya, la vecchia dimora della certa Penélope che avrebbe scritto a Julián Carax, dove un custode avrebbe raccontato a Daniel che l’abitazione sarebbe infestata, il ragazzo curiosone si decide a far visita a Nuria Manfort, la figlia di Isaac, custode al Cimitero dei Libri Dimenticati.
Piccola parentesi, ho adorato la scelta dell’autore di porre l’abitazione di Nuria in Plaça de Sant Felip Neri nel Barrio Gótico perché, trattandosi del luogo di ambientazione del video di My Immortal degli Evanescence, immaginare il posto era bellissimo.
Nuria racconta a Daniel la sua versione e il ragazzo è affascinato da questo personaggio che appare triste e solitario, ma più avanti, grazie alle indagini del segugio, ovvero Fermín, si scoprirà che su certe cosine la donna ha mentito a Daniel.
Da qui le cose cominciano a complicarsi e la faccenda si fa sempre più intricata.
Grazie all’aiuto di Fermín, che è un furbacchione, Daniel riesce a racimolare altre informazioni prima recandosi al collegio frequentato da Julián Carax quand’era ragazzo e poi all’orrenda casa di cura in cui è rinchiusa Jacinta, che un tempo fu la domestica della famiglia Aldaya dove nacque Penélope, la sua adorata bambina di cui si prese cura.
Quello di Jacinta è un personaggio davvero triste: una vita difficile e disgraziata, la croce di essere impossibilitata ad avere figli, l’amore per Penélope e poi l’obbligo atroce di essere separata da questa.
Da questa storia iniziano a venire alla luce inquietante parallelismi con la vita di Daniel: da un lato abbiamo Julián, amico di Jorge Aldaya e amante della sorella di quest’ultimo, Penélope.
Dall’altro Daniel, amico di Tomás Aguilar e improvvisamente amante di Beatriz, la sorella di Tomás, in fondo causa dell’amicizia tra i due ragazzi e motivo di un sacco di botte prese da Daniel quand’era bambino, dopo aver detto all’amico che Beatriz era una smorfiosa.
Ma i personaggi non finiscono qui: al San Gabriel, istituto frequentato da Julián e Jorge in gioventù, andavano anche Miquel Moliner, che diventerà poi il marito di Nuria, grande amico di Julián, c’erano anche Fernando Ramos, che è diventato poi prete e insegnante allo stesso collegio e che avrà parlato di Carax a Daniel, e Francisco Javier Fumero, il figlio del custode, un tipo già poco giusto del quale però Julián è voluto diventare amico.
Quello stesso Fumero che è diventato ispettore e che gioca a fare la banderuola a seconda di quel che gli fa più comodo.
Quello stesso Fumero il cui nome fa impallidire sempre Fermín Romero de Torres.
E poi c’è Ricardo Aldaya, il padre di Jorge e Penélope. L’uomo è un imprenditore e, dopo una visita alla cappelleria Fortuny inizia a interessarsi stranamente a Julián. Il fatto che il ragazzo frequenti quel prestigioso collegio è infatti per sua volontà.
Dove porteranno le indagini di Daniel? Si scoprirà che fine ha fatto Julián Carax? E Penélope? E chi sarà mai quel certo Laín Coubert, che usa il nome del diavolo presentato ne L’ombra del vento? E perché questo strano personaggio vuole così ossessivamente bruciare i libri di Carax?
Come si evolverà la storia tra Daniel e Beatriz?
Tomás gli spezzerà le gambine?
Che cosa ci si deve aspettare dall’ispettore Fumero, che un bel giorno si presenta in libreria da Daniel, cercando Fermín e incalzando il ragazzo a smettere di cercare informazioni su Carax?
Interrogativi a cui si deve dare risposta soltanto leggendo il romanzo. Oramai ho deciso che, nel commentare i libri, il finale, salvo eccezioni, non va rivelato.
Questo romanzo mi è piaciuto molto, l’ho trovato parecchio avvincente e dai toni molto ombrosi, cupi e misteriosi; insomma, quel che mi piace.
Mi ha interessato molto la caratterizzazione dei personaggi, dove, sebbene esista la divisione tra il buono e il cattivo, questa non è poi così marcata: nessuno fa mai parte di una o dell’altra categoria fino in fondo.
Lo stesso Daniel, che in quanto protagonista dovrebbe essere l’eroe, fa le sue boiate e qualche volta è anche codardo.
Anche se mai quanto Julián Carax … in certi punti della storia l’ho detestato.
Mi è piaciuto anche il personaggio di Beatriz, tanto che, quando Daniel, a un certo punto, ritrova Clara, ho sperato che non tornasse a pensare a quest’ultima vista la mia preferenza per Bea.
Molto significativa a mio parere la presentazione dell’ispettore Fumero; non si tratta di certo di un personaggio facile né scontato. Sarà pure il cattivo, ma forse c’è qualche motivo nel profondo che l’ha deviato e spinto a essere tale.
Un gran bel testo in definitiva, che non permette di staccarsi e che lascia con il fiato sospeso, sebbene il gran intreccio di fatti a volte possa portare a fare un po’ di confusione, e di conseguenza a tornare indietro per rispolverare determinati passaggi lasciati indietro.
Splendida e suggestiva anche la presentazione di Barcellona, una città di ombre e di ceneri.

A parte questo, ho letto soltanto un altro romanzo di Zafòn, ovvero Marina (in lingua originale), ma penso che potrebbe essere il caso di cercarne altri.
Anche se alla fine si dice sempre così. Beh, si vedrà.
Intanto posso confermare che L’ombra del vento sia stata davvero un’ottima lettura. Una misteriosa compagnia per una settimana, dove tutto si perdeva quando mi immergevo nella lettura, ed è questo che fa un buon romanzo.
Per concludere: la prima edizione spagnola di questo libro è del 2001, mentre quella italiana è del 2004, della Mondadori.

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*lady in blue*