world of darkness

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lunedì 30 marzo 2015

L'occhio del male (Stephen King)

Con questo commento librario salutiamo anche il mese di marzo.
E dopo questo, ancora uno soltanto, e avrò anche già salutato i testi sfogliati l'anno scorso.
Non va mica bene.



L’OCCHIO DEL MALE
Di Stephen King

Bene, eccoci di fronte a un altro libro di King, questa volta decisamente più vecchiotto. Il titolo era senz’altro accattivante, ma devo dire di averlo letto per seguire un consiglio in proposito.
Questo è un libro di trecento pagine, quindi niente di troppo impegnativo in fatto di lunghezza del testo; la trama, invece, lo è decisamente di più.
Prima di iniziare a parlarne, però, è bene segnalare che questo libro rientra tra quelli che l’autore scrisse inizialmente sotto lo pseudonimo di Richard Bachman.
Cosa che doveva illuminarci sulla sua fasulla identità: uno dei personaggi della storia, decisivo e importante benché appaia concretamente solo oltre la metà della stessa, si chiama a sua volta Richard. Uhm, nei libri firmati signor King non ho mai trovato un personaggio di nome Stephen.
Ma passiamo alla storia.
Dunque, il nostro protagonista sarà Billy Halleck, un avvocato che vive in una cittadina tranquilla, decisamente in sovrappeso che, improvvisamente, comincia a dimagrire.
Oh certo, all’inizio pare proprio una bella cosa, dato che pesare centotredici chili non è proprio indice di buona salute né di lunga vita, ma c’è qualcosa che non lo convince per niente.
E c’è anche quel ricordo: lui che esce dal tribunale dopo l’assoluzione, il vecchio zingaro che gli si avvicina, gli tocca una guancia e gli sussurra Dimagra.
Ma, inizialmente, com’è ovvio, Billy non vuole far troppo caso a questo pensiero.
Non può, però, non far caso a quel dato di fatto: starà pure dimagrendo, ma non sta seguendo alcuna dieta, anzi, mangia quanto prima se non di più.
Ovviamente qualche sospetto nasce e la moglie di Billy, Heidi, è preoccupata che possa trattarsi di cancro, unica spiegazione plausibile a un tale, improvviso e inesorabile calo di peso.
Anche la figlia del protagonista, Linda, pare persuasa che esista qualcosa del genere.
Billy fa i controlli consigliatigli dalla moglie, facendosi anche visitare dal suo medico curante, il dottor Houston, che tra una diagnosi e l’altra si fa delle simpatiche sniffate di cocaina.
Dagli esami risulta tutto a posto, niente cancro, ma ovviamente Billy è certo di avere qualcosa che non va e, mano a mano che il suo peso precipita velocizzando la sua corsa, troverà sempre più convincente l’ipotesi del vecchio zingaro.
Ma tentiamo di andare con ordine.
Dimagra, gli avrebbe detto quest’ultimo toccandogli il volto e sì, ha tutta l’aria di essere una bella maledizioni all’antica. Ma perché il nomade avrebbe avuto motivo di maledire l’avvocato in sovrappeso? Da quale crimine Billy era stato assolto?
Niente meno che da un’accusa di omicidio: Billy, infatti, avrebbe investito con la sua auto e ucciso una vecchia zingara. È pur vero che la zingara in questione non ha attraversato dove avrebbe dovuto, ma è anche vero che Billy era occupato a … pensare ad altro; più nel dettaglio, alla cosuccia impudica che gli stava facendo sua moglie.
Ed è anche vero che il giudice a cui il caso era stato assegnato, Rossington, è una sua conoscenza.
È anche vero che il capo della polizia, Hopley, non ha fatto a Billy nemmeno il test dell’alcolemia, come sarebbe stato normale prassi, e si è poi reso molto operoso per cacciare gli zingari dalla città.
Certamente Billy comincia a pensare che qualcosa di vero deve esserci in questa storia della maledizione, anche perché immagina che il vecchio zingaro debba essere accecato dall’odio.
Billy crederà per lungo tempo di aver ucciso la moglie di quest’ultimo, ma solo in seguito scoprirà di essersi … sbagliato in proposito.
Ma anche il nostro avvocato che sta rapidamente trasformandosi in una sottiletta umana comincia a sperimentare sentimenti d’odio.
Verso chi? Verso la moglie Heidi. Si chiede per quale motivo l’egregia signora abbia scelto proprio quel benedetto giorno per fare certe cose in macchina. All’inizio, ogni volta Billy provi quest’ondata d’odio finirà per vergognarsene, ma poi, per lui, provarla diverrà del tutto naturale.
E Billy inizia a odiare maggiormente Heidi quando questa allontana da lui la figlia, mandandola a stare da una zia e, soprattutto, quando la stessa Heidi non crederà alla sua convinzione di essere stato maledetto e penserà che sia uscito pazzo.
Con lei, lo crederà anche il dottor Houston.
Ma c’è qualcuno che crede a Billy? Gli crede la moglie del giudice Rossington e gli crede anche Hopley, il capo della polizia. Sorry, ex-capo della polizia.
Peccato che, chi per un motivo, chi per l’altro, non ha avrà modo di dar manforte al caro avvocato.
Eppure, ora Billy non ha più dubbi sul fatto che ciò che gli sta accadendo sia il risultato di una malefica fattura gitana; per questo decide che la sua unica speranza è quella di incontrare il vecchio di persona, parlargli, e chiedergli di ritirare la maledizione.
Billy riesce a stare sulle tracce degli zingari inizialmente grazie a un servizio investigativo portato avanti dallo studio per cui lavora, ma presto sarà costretto ad abbandonare questa alternativa … gli è bastato sentire quel clic emesso dal telefono.
E dato che Billy Halleck non ha voglia di farsi ritracciare e sbattere in ospedale psichiatrico, decide di andare avanti per conto suo.
Nel frattempo il suo dimagrimento progredisce e arriva ad aver perso quaranta chili in un mese. Buono per lui che all’inizio della vicenda fosse parecchio in sovrappeso; fosse stato un uomo dalle dimensioni normali, l’avremmo già allegramente salutato da un pezzo.
Ma l’incontro con gli zingari, finalmente rintracciati e raggiunti, non si svolge esattamente come Billy aveva previsto, ed è per questo che deciderà di richiedere l’aiuto da quell’uomo il cui nome gli aveva ronzato tante volte per la testa.
Ed ecco che troviamo il personaggio di nome Richard.
Richard Ginelli.
Simpatico individuo implicato in vari traffici balordi tra cui traffico di droga e quant’altro, chiaramente di origini italiane. Sud italiane, per l’esattezza. Non è detto chiaramente, ma è facilmente intuibile da varie belle cosine.
Richard crederà senza remore a Billy, perché sostiene di credere a ciò che vede, ed è impossibile non vedere il cambiamento di Billy.
Ginelli offrirà anche il suo aiuto al caro avvocato, del quale non rivelerò i dettagli, fino a condurlo all’ultimo incontro/scontro con Taduz Lemke, lo zingaro che ha lanciato la maledizione su Billy.
E Lemke gli spiegherà come potersi liberare di questa maledizione ma, perché questo avvenga, c’è da seguire una certa … condizione.
A parte il fatto che mi sono domandata come il signor King si sia inventato i dettagli di questa condizione (l’idea della crostata dovrebbe proprio spiegarmela), ma mi è piaciuta molto la definizione che il vecchio zingaro dà alla maledizione stessa, e non a quella di Billy in particolare.
L’immagine che Lemke ne dà è particolarmente sinistra, ma anche perfettamente adatta al concetto che queste maledizioni, secondo lui, ispirano.
Perché non è tutto riconducibile a una semplice parola e a un semplice evento degenerativo impossibile da arrestare. La maledizione è di più. È oscura, ed è viva.
Billy deciderà di seguire questa condizione imposta dallo zingaro per liberarsi della maledizione, neanche tanto a malincuore ma, infine, succederà qualcosa che non aveva per nulla previsto.

Fondamentalmente un bel libro, anche se devo dire di aver trovato la prima metà un po’ più pesante da leggere. Non perché sia scritta male o la situazione presentata non fosse interessante, ma c’era qualcosa che ancora non ho ben definito che tendeva a rallentare la lettura, come se sussistesse una certa forzatura di fondo.
Forzatura del tutto scomparsa nella seconda metà del testo. A dire il vero già da prima di giungere a metà, dove il tutto si fa inspiegabilmente più fluido.
Onestamente, benché sia il protagonista, Billy è riuscito a darmi sui nervi dall’inizio alla fine, soprattutto per questo suo voler colpevolizzare la moglie a ogni costo.
Insomma, diciamocelo, non le avrà chiesto lui di mettersi a fare quel lavoretto in macchina, ma non è stato neanche incline a fermarla.
Ugualmente irritante ho trovato anche la figlia dell’avvocato, Linda, ma sarà perché è un personaggio adolescente.
Più pena invece mi ha fatto proprio Heidi che si sente forse più in colpa di Billy per ciò che è accaduto e, benché non sia esposto chiaramente, tra le righe si intuisce che soffre per non essere stata punita insieme a lui. Forse è per questo che non crede (o non vuole credere) alla storia della maledizione. Certo, già prendere sul serio un’eventualità del genere è ben difficilino, poi sicuramente non avrà potuto accettare tale idea, proprio perché non ne era stata toccata insieme al marito.
Credo, inoltre, che Heidi abbia sempre agito per quello che supponeva essere il bene di Billy.
Ginelli non può certo star molto simpatico, visti i suoi precedenti e nemmeno gli zingari ispirano questa grande fiducia e comprensione.
Argomento forte e centrale di questa narrazione è quello del giochiamo a scaricabarile, cosa che mostra quanto l’uomo, nei momenti di difficoltà e, soprattutto, quando non sa più da che parte voltarsi, debba trovare necessariamente un colpevole, un capro espiatorio, quasi per dare un senso a ciò che accade, oltre che per scaricarsi dalle proprie responsabilità.
Direi un tema importante, delineato con grande maestria dall’autore, che riesce quasi a far paura per la sua vastità e per la vicinanza spietata alla vita reale.
Importante anche la tematica dell’esclusione e delle minoranze che la subiscono, anche se, fossi stata il signor King, non avrei tentato di dare nemmeno un briciolo di considerazione a questo aspetto vissuto dagli zingari.
Non per altro, ma ormai si sa come questi siano fatti, ci manca soltanto cominciare a considerarli delle vittime.
Senz’altro più interessante è l’attenzione dedicata al sentimento dell’odio, e alla facilità con cui può nascere, qualunque sia il motivo che lo ispiri, e all’altrettanto facile possibilità di protrarlo ciecamente in avanti. Mi è piaciuta, perché molto vera, l’immagine dei figli dei figli che continuino a infliggere pene al nemico senza nemmeno ricordare da dove la lite o l’odio fossero cominciati.
Dunque un libro che apre la porta a ottime riflessioni, tutt’altro che banali o stupide.
La trama in sé, benché chiaramente assurda realisticamente parlando, è molto avvincente e mantiene vivo l’interesse del lettore fino alla fine.
Anzi, soprattutto alla fine.

Quindi un libro sicuramente consigliato, la cui prima edizione risale al 1984.

Voto finale: 7 ½

**

*lady in blue*

venerdì 20 marzo 2015

L'ultimo giorno di un condannato (Victor Hugo)

Eccoci al venti del mese: giorno per la seconda puntata di marzo.
Riprendiamo con le recensioni dei (pochi) libri letti nel 2014 e rituffiamoci nuovamente sul nostro vecchio amico Victor Hugo. Non ci troviamo di fronte a un dinosauro, questa volta, come io chiamo affettuosamente i libri più comunemente denominati mattoni, ma a un testo di meno di centotrenta pagine che si legge tutto in una volta, anche grazie all'argomento trattato e alla sapienza con cui l'autore è stato in grado di prenderlo in mano ed esporlo.
Questo è anche, senz'altro, un libro capace di far riflettere anche su tematiche di grande attualità: la pena di morte, la moralità e la giustizia, il tutto legato da un filo che è difficile saper collocare esattamente tra il bene e il male.
Direi che nell'introduzione non dico di più, perché ho già esposto tutto quello che questo libro mi ha ispirato all'interno del commento. La sua lettura da parte mia risale più o meno a un anno fa, forse poco (pochissimo) meno, quindi anche per questo è meglio affidarsi alle parole che seguono, in proposito, scritte subito dopo la lettura, a caldo.



L’ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO
Di Victor Hugo

Sono abituata a chiamare questo libro L’ultimo giorno di un condannato a morte, sono quasi certa di averlo visto intitolato in questo modo, altre volte, ma si vede che in questa particolare edizione hanno pensato di omettere le ultime due parole.
Poco importa.
L’ultimo giorno di un condannato e tanti saluti.
Che dire di questo libro? Tanto per cominciare, che si legge tutto d’un fiato, e questo non solo perché sia breve.
Nella sua concisa prefazione, l’autore ci dice che noi lettori possiamo, per questo testo, scegliere l’idea che più ci aggrada: sono stati trovati dei fogli ingialliti scritti da un prigioniero che attendeva la sua esecuzione? Uno scrittore era ossessionato da questo argomento e se n’è potuto liberare solo scrivendo a proposito? Fatti nostri quel che vogliamo credere. C’è da dire che, però, la prima opzione è poco plausibile: finché il condannato si trovava in prigione avrebbe anche potuto scrivere, ma mentre è sulla carretta che lo condurrà alla Grève, con le mani legate, la vedo un tantinello più dura.
È facile, però, immaginare che si tratti delle vere parole di un miserabile (termine che al signor Hugo pare piacere tanto tanto) che attende la propria fine, tanto è veritiera e coinvolgente la narrazione.
Di quest’uomo non conosciamo il nome né il crimine che ha commesso, sappiamo però che, qualunque cosa sia, è colpevole. Inizialmente ci racconta del momento in cui ha appreso della sua condanna a morte, della sua reazione sdegnata quando, appena prima che questa fosse pronunciata, il suo avvocato gli avesse detto di avere buone speranze perché fosse condannato ai lavori forzati a vita. Cento volte meglio la morte! Avrebbe esclamato l’uomo inorridito, come credo che in molti farebbero in quella circostanza, ed eccolo accontentato: condannato a morte!
In fondo, il caro signore, questa sentenza non se l’aspettava proprio; in quella giornata splendente sembrava davvero fuori luogo.
E da questo momento iniziamo questo viaggio interiore nella mente del condannato: colui per il quale la vita si ferma, mentre sembra scorrere tranquillamente per tutti gli altri.
C’è da dire che, inizialmente, ho trovato questo personaggio un po’ noioso, perché non fa che compiangersi. Sapendo che era colpevole, mi veniva da dirgli: Ciccio, arrangiati, hai fatto quello che hai fatto, prenditi le tue responsabilità. Io forse non ti avrei condannato a morte, ma meglio tu che un innocente.
Continuando la lettura, però, pagina dopo pagina, la disavventura dell’uomo prende sempre di più, fino a coinvolgere completamente il lettore. Non viene voglia di scusarlo per il suo crimine, questo no, si sa che l’ha compiuto, ma sembra quasi di poter entrare nei suoi panni, e avvertire la sua angoscia. L’angoscia di questo pensiero terribile, l’esecuzione che si avvicina, la morte alle calcagna, che lo avvolge sempre di più. Immedesimandosi in questo personaggio, sembra di provare una sorta d’orrore ansioso percepibile solo in certi sogni. E forse, proprio quell’orrore che si proverebbe in una situazione del genere, dove il cervello pare fermarsi, o meglio, girare in tondo sempre sullo stesso pensiero.
Una cosa che mi ha colpito, e che senza dubbio rende il tutto più realistico, è il fatto che non sentiamo mai dire al personaggio che questi provi rimorso; dice, piuttosto, che vorrebbe provarlo. Ma in fondo della sua vittima si preoccupa poco o niente, è a se stesso che pensa, alla sua morte imminente, e non se ne capacita. Gli sembra la cosa più orribile del mondo.
Eppure anche un altro pensiero realistico gli si affaccia alla mente: tutti gli uomini sono condannati a morte, senza eccezione; c’è chi pensa che andrà ad assistere felice e contento alla sua esecuzione, e che invece lo precederà nella tomba per qualsiasi scherzo della sorte. Ma questo di certo non lo rincuora, perché quando si vive non si pensa alla morte, non di certo seriamente, anche se potrebbe colpire in qualunque momento e per qualunque motivo. Ma è diverso quando quelle parole sono state pronunciate: Condannato a morte.
Di questo testo, mi piace anche molto il fatto che mostri quanto l’uomo sia piccolo e grande al tempo stesso. L’uomo è piccolo, perché, in fondo, non pensa ad altri che a se stesso: rinchiuso in una cella, attendendo la morte, vede soltanto che tutto ciò che esiste all’esterno è meglio della sua condizione, si sente solo, perso, e pretende la sua libertà, quasi questa fosse più importante della vita da lui distrutta. In fondo pensiamo anche alla sua vittima (sappiamo che si è trattato di omicidio, visto che lo stesso protagonista sostiene di aver fatto versare del sangue, ma non conosciamo le circostanze), anche quest’uomo aveva diritto alla vita e, magari, aveva una famiglia.
Se il nostro protagonista fosse stato tranquillino a casa sua, a pensare ai propri affari e alla sua, di famiglia (per la quale si dispera, anche se secondo me in questo aspetto c’è del falso, questo personaggio pensa solo alla sua morte imminente), non avrebbe di questi problemi.
Ma atteniamoci al testo.
Dall’altro lato, invece, l’uomo sembra essere grande, perché sa creare un universo di pensieri ed emozioni dalla forza incredibile. Eppure questa forza non è certo sufficiente a rompere le sbarre che tengono prigioniero il nostro uomo.
Lo vediamo agognare sempre più la libertà, ma ancora più fermamente lo vediamo agognare la vita. Perché anche se all’inizio aveva affermato che fosse cento volte meglio la morte dei lavori forzati a vita, infine si ritrova a pensare che almeno un forzato vive, cammina, respira.
E siamo di nuovo sul concetto che qualsiasi cosa sia meglio della sua attuale condizione. Scommettiamo che se fosse stato condannato ai lavori forzati, avrebbe rimpianto la condanna a morte fino alla fine dei suoi giorni?
Ma in fondo, la morte non è accettabile, o meglio, non è realizzabile.
Più questa si avvicina, più la sua angoscia cresce, più il tutto gli fa orrore. E si ritrova a pensare che è impossibile che qualcuno non pensi a lui per liberarlo, sarebbe così semplice: per le suore dell’infermeria dove è rimasto un giorno, per il re, a cui basterebbe una sola parola per decidere diversamente della sua sorte.
Come sempre, l’uomo si pone al centro del mondo, ed è come se si domandasse Se questo non deve avvenire per me, per chi? Quasi nient’altro fosse più importante. Bella analisi.
Ma per quanto l’uomo si angosci e si strugga, infine il giorno giunge. Senz’altro, il giorno più lungo della sua vita. Alle sette del mattino il prete mandato per dargli conforto gli dice che l’esecuzione è per quel giorno, alle quattro del pomeriggio. Quella mattina, il condannato sarà trasferito dal carcere di Bicetre alla Conciergerie e, se prima di questo momento il tempo sembrava correre, ora sembra rallentare, aumentando l’angoscia. Eppure l’ora è destinata ad arrivare, e questa è comunque la consapevolezza peggiore per il detenuto.
Tutto gli sembra così orribile: come possono privarlo della vita? Con che diritto lo fanno? Perché tolgono un padre alla sua bambina, un marito a sua moglie, un figlio a sua madre? Queste, secondo me, sono tutte scuse. Come ho già detto, credo che quest’uomo, in realtà, pensi poco o niente alla sua famiglia, ma in qualche modo deve pur convincersi di non essere così attaccato alla vita solo per se stesso.
Cerca conforto, ma non gli basta quello del cappellano del carcere, perché lui è abituato ad accompagnare i detenuti al patibolo, per lui è la normalità; vuole qualcuno che viva quell’esperienza per la prima volta, che, in un certo senso, la viva con lui.
Credo però che, in fondo, anche questo non corrisponda a verità. Il condannato, nel suo ultimo giorno, si sentirebbe solo comunque, perché chiunque gli stesse accanto all’ultimo momento, per quanto coinvolto e comprensivo nei suoi confronti, non sarebbe al suo posto, e tanto basterebbe all’uomo prossimo alla morte per sentirsi abbandonato.
La sua mente si ribella, ma lo scorrere del tempo non perdona e non è certo sensibile alla sua disperazione. Assistiamo infine al suo tetro viaggio verso il patibolo, sulla carretta, e infine lo ritroviamo lì, a pregare che gli lascino ancora cinque minuti, forse la grazia arriverà, deve arrivare. Perché non dovrebbe?
Ma, alla fine, troviamo quelle due parole scritte in maiuscolo e al centro della pagina: LE QUATTRO.
E capiamo che ormai il corpo del condannato è di qua, e la testa … di là.
Un attimo testo, a mio avviso, incalzante e angosciante, si è molto contenti, leggendolo, di non trovarsi realmente al posto del condannato. Ma è interessante come l’autore abbia colto con sapienza e tatto tutte le emozioni e i pensieri che potrebbero serpeggiare nella mente di un uomo in quelle condizioni. Qui si parla di tortura, anche se non fisica. Perché quest’attesa è snervante, massacrante, eppure quando giunge il momento si vorrebbe attendere ancora, e ancora e ancora e ancora, perché non si può accettare l’idea di morire.
E poi chissà: dicono che sotto la ghigliottina non si soffra, ma l’ha per caso affermato qualcuno che l’abbia conosciuta da vicino? Nossignori, proprio no. E allora come si fa a saperlo?
Pensieri assolutamente consoni e adattabili a questa situazione, sapientemente incoerenti, come solo la mente dell’uomo può formularli, a maggior ragione la mente di un condannato a morte.
E certamente questo è un testo che fa riflettere.
Bisogna dire, comunque, che faccia riflettere anche la prefazione alla terza edizione (in questo caso riportata in fondo al testo) scritta dall’autore in forma di dialogo, intitolata Una commedia a proposito di una tragedia.
In questo breve testo troviamo un gruppo di uomini e donne che inizia a conversare sul libro in questione, definendolo orribile, di cattivo gusto, assurdo e angosciante. Roba da far perdere il sonno. Ma dopo aver detto peste e corna, uno dei personaggi chiede a uno degli altri che cosa intenda fare con il ricorso respinto di quel tipo, di qualche settimana prima; l’altro risponde di essere in vacanza, e non volerci pensare al momento.
E la cosa è assolutamente geniale.
A questo scambio di battute segue la vera e propria prefazione dell’autore a proposito del libro, datata 1832 (sempre terza edizione), dove ci dice perché ha scritto questo testo e ci spiega perché la pena di morte debba essere assolutamente abolita.
Le sue sono tutte motivazioni più che valide: lo Stato non può macchiarsi di vendetta (quello, nel caso, è proprio del singolo uomo), e punire con la morte per dare l’esempio è alquanto cretino. Non solo. Un uomo che commette un crimine può venire da due differenti situazioni: o non ha avuto e non ha nessuno al mondo, è cresciuto come fuori di esso, e allora bisognerebbe curarlo e non condannarlo, perché non se ne ha il diritto, oppure ha sì una famiglia, e allora togliere a questa stessa famiglia il suo caro è anch’esso un crimine.
Hugo è apertamente per il carcere a vita, piuttosto.
Ora, sono d’accordissimo sul fatto che lo Stato non debba vendicare niente e nessuno (lo Stato deve essere imparziale e obiettivo) e ancora di più lo sono sul fatto che dare l’esempio sia una pessima mossa, tanto non serve a un tubo.
Ma non sono così convinta sul fatto che, un uomo pericoloso per l’altrui incolumità non sia da eliminare. Questa idea (personale e criticabile) non è da intendersi come una punizione, piuttosto come protezione nei confronti della società. Se un uomo uccide, e non lo fa per legittima difesa, non è forse da considerarsi un pericolo? Se un uomo abusa di un'altra creatura, non vale forse lo stesso? Che senso ha rinchiuderla, considerando il fatto che non è detto lo resti a vita?
Non una pena di morte, ma una soppressione. Non lo si fa forse con i cani rabbiosi e, quindi, pericolosi?
Non uno spettacolo macabro, non un segno di “giustizia” o una manifestazione di potere. Nessuna brutalità volta a “punire” o a “dare l’esempio”. Come già detto, una semplice soppressione dell’individuo, che non preveda sofferenza, perché non è necessaria.
Ma anche con un’idea simile, sono d’accordo, bisognerebbe andarci piano, perché si potrebbe finire con l’abusarne, come con ogni cosa. L’uomo è bravissimo ad abusare di ciò che gli fa comodo, sempre e comunque.
Apprezzo molto, comunque, le idee dell’autore. Era un idealista e aveva il coraggio di esprimere le sue opinioni, e questo è da ammirare.
E da ammirare è anche la sua capacità di tradurre in una vera e propria storia queste sue opinioni, e forse, questa sua ossessione.
Come quasi sempre, Victor Hugo ci regala una trama emozionante e analizzata nei minimi dettagli, dove il protagonista è molto più umano di quando si potrebbe immaginare leggendo un romanzo e, forse, di quanto in molti vorrebbero leggere.

Voto finale: 10. Perché un libro che si legge tutto d’un fiato non può prendere di meno.

**

*lady in blue*

martedì 10 marzo 2015

Breathe No More + Missing (Anywhere But Home)

Ciao!!
Sono di nuovo qui con gli Evanescence. Ancora queste due canzoni per chiudere l'album live, dopodiché potrò passare direttamente al successivo.
La prima, Breathe no more, è un brano che in realtà è già presente su questo blog: per la precisione è il primo che si può trovare nell'elenco di sinistra della pagina principale; cliccando sull'estratto del testo è possibile risalire a un video di una sua riproduzione live. Lo inserisco comunque, però, sia perché così posso mostrare il testo per intero (comprensivo anche di traduzione) e, visto che ci sono, anche il video relativo a questo concerto specifico, sia perché questa è senz'altro la mia canzone preferita della band. E questo anche se ci troviamo di fronte a un pezzo "inedito", presentato soltanto in questo live e mai inserito in nessun altro album ufficiale. Sicuramente, a colpirmi particolarmente c'è sia la melodia del pianoforte che adoro già a prescindere (soprattutto per i toni malinconici che esprime), ma anche il significato del testo, chiaramente pregno di una sofferenza non da poco. In modo oscuro, profondo e un po' poetico, però. Si sente che questo brano, come sempre, nasce da qualcosa di molto personale, da qualcosa di vissuto.
E infatti Breathe no more, come molti altri pezzi, pare si rifaccia alla situazione della relazione abusiva vissuta in passato dalla stessa Amy, anche se al momento non riesco più a trovare la pagina web che ne parlava.
Comunque sia, adoro veramente questa canzone: i riferimenti al riflesso, ai cocci di se stessa, all'impossibilità di respirare sono davvero suggestivi e non piazzati a caso. Nascono di certo da qualcosa di profondo, e su questo non c'è dubbio. Credo che questa sia una canzone che parla anche del perdere se stessi per qualcun altro (I just can't help but to wonder which of us do you love - Non posso fare a meno di domandarmi quale ami di noi), della sofferenza che questo comporta nonostante non si possa fare a meno di farlo. Questa è una canzone che avrebbe dovuto far parte di Fallen e non è difficile immaginarlo, soprattutto perché credo che segua le stesse "linee guida", gli stessi stati d'animo. Dal prossimo album, infatti, cominceranno a cambiare alcune cose (significati, visioni della vita stessa), perché sicuramente "The Open Door", si può considerare un lavoro più maturo ... e anche più libero.
Ma questa rimane comunque la mia canzone preferita della band (e una delle mie canzoni preferite in generale); sembra proprio che, nel comporla, Amy ci abbia messo quel sangue di cui si parla nel brano.

Ancora una volta inserisco soltanto il link del video. Non so perché, ma quelli del live di Parigi l'opzione video del blog non vuole proprio visualizzarmeli. La riproduzione che si trova nell'elenco della pagina principale del blog si riferisce, invece, a un concerto avvenuto qualche mese prima a Colonia.
Questa invece la riproduzione allo Zenith di Parigi: Breathe No More (Evanescence- Anywhere But Home)

Ecco il testo (lo so, è il massimo dell'allegria):



BREATHE NO MORE (NON RESPIRO PIU’)

I've been looking in the mirror (Ho guardato nello specchio)
For so long. (Così a lungo)
That I've come to believe (Che sono arrivata a credere)
My soul's on the other side. (Che la mia anima si trovi dall’altra parte)
All the little pieces falling, shatter. (Tutti quei piccoli pezzi che cadono, si frantumano)
Shards of me, (Cocci di me)
Too sharp to put back together. (Troppo taglienti per essere rimessi insieme)
Too small to matter, (Troppo piccoli per importare)
But big enough to cut me (Ma grandi abbastanza per tagliarmi)
Into so many little pieces. (In tanti piccoli pezzi)
If I try to touch her, (Se cerco di toccarla)
And I bleed, (E sanguino)
I bleed, (Sanguino)
And I breathe, (E respiro)
I breathe no more. (Non respiro più)

Take a breath and I try to draw (Prendo fiato e cerco di attingere)
From my spirit’s well. (Dal pozzo del mio spirito)
Yet again you refuse to drink  (Ancora una volta rifiuti di bere)
Like a stubborn child. (Come un bambino testardo)
Lie to me, (Mentimi)
Convince me (Convincimi)
That I've been sick forever. (Che sono sempre stata male)
And all of this, (E tutto questo)
Will make sense when I get better. (Avrà senso quando starò meglio)
But I know the difference, (Ma conosco la differenza)
Between myself and my reflection. (Tra me e il mio riflesso)
I just can't help but to wonder, (Non posso fare a meno di domandarmi)
Which of us do you love.
(Quale ami di noi)
So I bleed, (Così sanguino)
I bleed, (Sanguino)
And I breathe, (E respiro)
I breathe no... (Non respiro)
Bleed, (Sanguino)
I bleed, (Sanguino)
And I breathe, (E respiro)
I breathe, (Respiro)
I breathe- (Respiro)
I breathe no more. (Non respiro più)


*

L'ultima traccia inedita di questo album è la quattordicesima: Missing. Come dicevo già nello scorso post inerente, si tratta di una bonus track registrata in studio, per cui non la troviamo nel concerto. Incredibilmente sono riuscita a trovarne comunque una versione live (non avevo idea se questo brano fosse mai stato riprodotto dal vivo, l'ho scoperto giusto or ora), per cui posterò questa comunque.
Indubbiamente posso dire che questa sia una della canzoni dal significato più deprimente scritte da Amy Lee. Sì, ce ne sono tante, ma questa lo è davvero particolarmente. Nonostante sia una canzone che musicalmente mi piace (anche se meno di altre, sicuramente è ben lontana dalle mie preferite), rispetto ad altri testi (sempre tristi/malinconici/più o meno da suicidio) trovo che questo abbia quasi un sottofondo "patetico". Eppure ripeto, il brano in sé mi piace. Forse ho questa impressione per via di alcune frasi un po' esagerate come Am I that unimportat? Am I that insignificant? - Sono così poco importante? Sono così insignificante? anche se sono sempre convinta che Amy abbia avuto un certo coraggio nel trattare certi argomenti, tanto personali, nelle proprie canzoni da esporre al pubblico. Sicuramente un testo come questo raffigura un certo periodo della sua vita in cui questo era ciò che sentiva ed essere stata in grado di esporlo musicalmente è senz'altro lodevole, perché non certo facile. Sicuramente, un brano come questo deve essere stato sofferto.
Missing significa "mancante" e questo brano sembra parlare di un allontanamento volontario, anche se particolamente difficile, da qualcuno. E' una canzone che parla anche dell'invisibilità, perché è così che sembra sentirsi la protagonista: invisibile. E, anche allontanandosi, questo suo stato non cambierà. E' come se cercasse di sparire in un mondo freddo, struggendosi per quel che non può cambiare e che la fa stare male, e che non può continuare ad assecondare, forse perché si trattava di qualcosa di sbagliato.
In tutto ciò anche la solitudine gioca un ruolo molto importante, perché è chiaramente molto sentita.
Ma ora la smetto di sproloquiare e vi lascio finalmente al video e al testo.

Tanto per una questione di simmetria, anche di questa riproduzione posto semplicemente il link: Missing - Evanescece. Disgraziatamente in questo video ci sono i sottotitoli in spagnolo che danno un po' fastidio. Anche perché, vedondone giusto metà, ho già trovato qualche errore di traduzione, ma facciamo finta di niente ;).

Il testo:



MISSING (MANCANTE)

Please, please forgive me, (Ti prego, ti prego, perdonami)
But I won't be home again. (Ma non tornerò a casa)
Maybe someday you'll look up, (Forse un giorno guarderai in alto)
And, barely conscious, you'll say to no one: (E appena consapevole dirai a nessuno)
"Isn't something missing?" (“Non c’è qualcosa che manca?”)

You won't cry for my absence, I know – (Non piangerai per la mia assenza, lo so)
You forgot me long ago. (Mi hai dimenticata tanto tempo fa)
Am I that unimportant...? (Sono coì poco importante?)
Am I so insignificant...? (Sono così insignificante?)
Isn't something missing? (Non c’è qualcosa che manca?)
Isn't someone missing me? (Non manco a nessuno?)

Even though I'm the sacrifice, (Benché io sia il sacrificio)
You won't try for me, not now. (Non mi cercherai, non adesso)
Though I'd die to know you love me, (Anche se morirei per sapere che mi ami)
I'm all alone. (Sono completamente sola)
Isn't someone missing me? (Non manco a nessuno?)

Please, please forgive me, (Ti prego, ti prego, perdonami)
But I won't be home again. (Ma non tornerò a casa)
I know what you do to yourself, (So che cosa fai a te stesso)
I breathe deep and cry out, (Respiro profondamente e urlo)
"Isn't something missing? (“Non c’è qualcosa che manca?)
Isn't someone missing me?" (Non manco a nessuno?”)

Even though I'm the sacrifice, (Benché io sia il sacrificio)
You won't try for me, not now. (Non mi cercherai, non adesso)
Though I'd die to know you love me, (Anche se morirei per sapere che mi ami)
I'm all alone. (Sono completamente sola)
Isn't someone missing me? (Non manco a nessuno?)

And if I bleed, I'll bleed, (E se sanguino, sanguinerò)
Knowing you don't care. (Sapendo che non ti importa)
And if I sleep just to dream of you (E se dormo solo per sognarti)
I'll wake without you there, (Mi sveglierò senza di te)
Isn't something missing? (Non c’è qualcosa che manca?)
Isn't something... (Non c’è qualcosa …)

Even though I'm the sacrifice, (Benché io sia il sacrificio)
You won't try for me, not now. (Non mi cercherai, non adesso)
Though I'd die to know you love me, (Anche se morirei per sapere che mi ami)
I'm all alone. (Sono completamente sola)
Isn't something missing? (Non c’è qualcosa che manca?)

Isn't someone missing me? (Non manco a nessuno?)
 

*

Dopo i prossimi due commenti librari, dal mese prossimo inizierò finalmente a trattate The Open Door, il secondo album in studio della band che comprenderà tredici tracce.

Alla prossima

*lady in blue*