world of darkness

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lunedì 24 giugno 2013

Racconti del grottesco (Edgar Allan Poe)

Eccomi!!
Finalmente riesco ad aggiornare con un nuovo post il nuovo blog (scusate il gioco di parole).
Spero di non avere con questo i problemi da sclero totale che mi hanno portato ad abbandonare e a cancellare l'altro, ma nutro buone speranze :D Comunque sia credo di essere riuscita a crearmelo abbastanza come volevo, anche perché ho portato con me la bambolina con gli spilli, che per la cronaca faceva parte del tema del blog precedente. Senza quella avrei potuto non sentirmi a mio agio.

Ma a parte tutte le solite cavolate che dico (e ultimamente ne sto dicendo più del solito, mi sa che quarantotto ore settimanali in negozio fanno molto ma molto male alle salute :D:D:D), mi sono finalmente decisa ad aggiornare (o meglio, ne ho trovato il tempo), per postare un nuovo commento a un libro.

Oddio, nuovo mica tanto, visto che questa lettura risale al dicembre scorso. Questo è stato l'ultimo libro del 2012, anche se, devo ammetterlo, l'ho concluso nei primi giorni del 2013. Ma lo considero comunque una lettura dell'anno scorso. Chissà quand'è, dato che siamo già a fine giugno, che inizierò a postare i commenti dei testi sfogliati quest'anno? Meglio non pensarci, dato che pare grave.

Ma smettendola di parlare per niente, ecco il suddetto commento. E questa volta non è propriamente positivo.

RACCONTI DEL GROTTESCO

Di Edgar Allan Poe


Se devo essere proprio sincera sincera sincera, questo è il libro che più mi è pesato leggere tra quelli sfogliati in tutto il 2012; non per niente raggiungere l’ultima pagina è stata davvero una faccenda lunga e impegnativa. Francamente ho letto racconti migliori di quest’autore, come per esempio Il pozzo e il pendolo, Il cuore rivelatore e Il gatto nero; tra i racconti del grottesco devo dire di averne trovati molti che non mi hanno detto assolutamente niente oppure non ho proprio capito.
Non tutti, chiaramente. Ce ne sono alcuni che ho davvero apprezzato.
Cominciamo dal principio; il primo racconto è Il duca de L’Omelette. Di questo non ho capito praticamente niente, più che altro a causa della gran parte di battute (del protagonista) o frasi riportate in francese senza traduzione. Ho inteso soltanto che il duca in questione è morto (non so come) a causa di un ortolano (mi pare ci fosse anche un uccello da qualche parte) e che infine si ritrovi all’inferno a giocare a carte con il diavolo, credo, per la salvezza della sua anima o qualcosa del genere.
Segue Storiella ebraica, di cui ricordo poco e che non mi era piaciuta particolarmente. Poi c’è Senza fiato, racconto che porrei in una via di mezzo tra quelli apprezzati e quelli no, dove un tizio perde assurdamente il proprio fiato durante un litigio con la moglie, e questo lo porterà a vivere esperienze una più grottesca dell’altra, fino a giungere ad essere sepolto vivo per uno scambio di persona e ad essere tirato fuori dal sepolcro solo per puro caso.
Bon-bon è uno dei racconti che ho preferito, dove il protagonista, Pierre Bon-bon, tiene una particolare conversazione serale con il principe delle tenebre (presente in vari di questi racconti), improvvisamente materializzatosi a casa sua, ubriacandosi sempre di più. Piccola nota a proposito di questo racconto: a un certo punto il diavolo tira fuori alcune delle sue liste, in una della quale si legge di sfuggita una parte di nome, Robesp…, piuttosto comprensibile.
Lionizing tratterebbe la bislacca vicenda di un uomo dal naso grosso esperto in nasologia, ma sinceramente non ricordo dove vada a parare.
Re Peste è un altro racconto che non mi è dispiaciuto, tratta di due marinai ubriachi, a Londra, che finiscono nella zona della città nella quale non si potrebbe accedere per via delle epidemie di peste, e che dovrebbe essere disabitata, ma che invece si rivela essere la dimora dell’assurda famiglia reale (capeggiata appunto da Re Peste) del luogo (e forse unica famiglia che lo abiti, in effetti) composta da individui, tutti in possesso di qualche orrenda caratteristica fisica.
Di Quattro bestie in una ricordo soltanto che non l’avevo capito; Mistificazione, che considero una via di mezzo tra quelli apprezzati e quelli no, tratta di uno scherzo a proposito del duello.
Come si scrive un articolo “da Blackwood” (una rivista dell’epoca) e La falce del tempo sono strettamente correlati, in quanto nel primo troviamo la protagonista, tale signora Psyche Zenobia, decisa a ricercare consigli dal direttore del Blackwood affinché possa scrivere un articolo (racconto) per suddetta rivista nel modo migliore possibile. Il direttore le fa prendere appunti, consigliandole soprattutto alcune particolari citazioni in lingue straniere o modi di dire. La falce del tempo è appunto l’articolo (racconto) che miss Zenobia scrive per il Blackwood, dove tutte le citazioni consigliatele dal direttore della rivista sono grottescamente sbagliate e travisate. Per di più la storia è assurda a dir poco, dato che la falce del tempo sarebbe la grande lancetta del grande orologio di una chiesa sotto la quale si incastra la testa della protagonista (la stessa Psyche Zenobia), che ha voluto guardar fuori da una finestrella della suddetta chiesa, trovandosi proprio in concomitanza della lancetta.
Il diavolo nella torre l’avevo già letto in precedenza, in un’altra raccolta di racconti dell’autore, e già la prima volta non mi aveva detto niente.
Segue Perché il piccolo francese porta la mano al collo, una storiella simpatica e divertente dove il protagonista, ospite a casa della donna che vorrebbe corteggiare, si ritrova convinto di stringerle il mignolo dietro la sua schiena, considerando il gesto come una risposta affermativa al suo amore. Presente nella stanza è anche il piccolo francese, anche lui intenzionato a fare la corte alla dama.
Quando poi questa si alza in piedi, si scopre che in realtà erano i due uomini, senza essersene resi conto, a starsi stringendo reciprocamente il mignolo. E il motivo per il cui il piccolo francese porta la mano al collo è che il protagonista avrebbe approfittato per stritolargli per benino il dito.
Non bisogna scommettere la testa col diavolo è una raccomandazione piuttosto esplicita che spiega facilmente il contenuto del racconto. Il protagonista ha la brutta abitudine (e pare ne abbia parecchie) di finire ogni frase dicendo “ci scommetto la testa col diavolo”. Un giorno sfiderà l’amico che lo accompagna (lo stesso narratore del racconto), scommettendo la testa col diavolo di poter saltare un cancelletto. L’amico non accetta, ma un misterioso uomo (siamo sicuri?) venuto dal nulla lo fa. Dopo la rincorsa e il salto, il malcapitato si accascia a terra privo di capoccia.
Anche Gli occhiali è uno dei racconti che ho apprezzato maggiormente tra quelli riportati in questo libro: il protagonista ha un serio difetto visivo, ma si rifiuta categoricamente di portare gli occhiali, dissimulando sul suo deficit. Un giorno vede una donna bellissima mentre assiste a una rappresentazione teatrale, e decide di doverla assolutamente conoscere, anche perché, parlando con amici e conoscenti, ha scoperto essere una vedova. Da notare, per questo passaggio, che la signora di cui l’uomo si è infatuato viaggia sempre insieme ad una ragazza più giovane.
Il tizio in questione corteggia segretamente la dama, la quale accetta e pare ricambiare il suo amore, nonostante definisca sconveniente il fatto di essere più vecchia di lui; infine decide comunque di sposarlo, chiedendogli però in cambio di fare qualcosa per lei.
E questo qualcosa avviene dopo le nozze: lei domanda al novello marito di indossare gli occhiali di cui ha bisogno. Quando l’uomo esegue la richiesta, si rende conto che la donna che ha sposato è ben lungi dall’essere bella come la credeva lui: era piuttosto anziana e per di più una sua lontana parente.
Ma niente paura, perché era tutto uno scherzo e le nozze non erano avvenute realmente.
Il protagonista, comunque, sarà sempre d’accordo sull’idea di portare gli occhiali onde evitare spiacevoli conseguenze.
La burla del pallone non l’ho capito, dato che pare semplicemente esporre il resoconto veritiero di un viaggio in mongolfiera.
L’angelo del bizzarro è un altro dei racconti che ho apprezzato: tratta dell’alcol e dei suoi effetti, presentando questo strano personaggio, appunto l’Angelo del bizzarro, sotto forma di una figura grottesca fatta di bottiglie, con l’accento tedesco, che redarguisce l’ubriacone protagonista circa la sua condotta, per poi vendicarsi di lui sul finale.
La millesima seconda notte di Sherazade non l’ho proprio capita, ma forse per questo si deve aver letto le Mille e una notte.
Il sistema del dott. Catrame e del prof. Piuma è forse il miglior racconto tra tutti: il protagonista di questa vicenda decide di visitare, durante un viaggio, una rinomata casa di cura. Viene presentato da un amico al direttore della stessa, quindi invitato a pranzo da questo prima che si effettui la visita della struttura. Il protagonista è interessato a sapere di più circa il metodo che ha reso così famosa la casa di cura, chiamato “metodo della dolcezza”, che consisteva nell’assecondare il più possibile le manie dei malati, il quale però è stato accantonato per motivi di impraticabilità, e sostituto da un nuovo metodo più efficace (secondo il direttore) pare ideato da questi dottor Catrame e professor Piuma. Il pranzo, però, si svolge in una situazione piuttosto stranuccia: tutto è caotico e alla rinfusa e i commensali, individui dall’apparenza piuttosto eccentrica (definiti membri del personale della struttura dal direttore), finiscono con il parlare ognuno di un ex paziente, spiegandone la mania, per poi mettersi a imitarlo. Ma l’aspetto più fenomenale del grottesco appare alla fine, quando, sul finire del pranzo, irrompe nella sala da pranzo una ventina di individui, tutti coperti di catrame e piume, che risultano poi essere l’effettivo direttore e il personale della casa di cura, divenuti da un mese prigionieri dei pazienti. Colui che il protagonista aveva conosciuto come il direttore della struttura lo era effettivamente stato in passato, prima che impazzisse e venisse rinchiuso nel manicomio come paziente.
Il diario di Julius Rodman è il racconto più lungo presentato in questa raccolta. È il resoconto di una spedizione avvenuta nella zona inesplorata delle Montagne Rocciose del Nord America, presentato sotto forma di diario, per l’appunto, da tale Julius Rodman. Si raccontano le avventure sue e dei suoi accompagnatori, dei contatti a volte amichevoli, a volte decisamente no, con gli indigeni della zona e della gioia che prova il protagonista nell’esplorare queste zone del paese ancora sconosciute e di estrema bellezza naturalistica. Non so esattamente che cosa lo renda un racconto del grottesco, comunque come storia in sé è stata abbastanza interessante, sebbene sia incompleta.
Il libro si chiude con Le terre di Arnheim, quello che io ho trovato il peggiore e più noioso racconto tra tutti: sia nella descrizione iniziale del personaggio, sia in quella seguente del luogo che raggiunge, non vedevo semplicemente l’ora di giungere all’ultima pagina e non sentirne più parlare.
Se dovessi dare un voto complessivo a quest’opera non andrei oltre il sei e mezzo, forse starei anche un po’ più bassa. Sicuramente il problema è mio più che dell’autore, data la mia scarsa propensione a questo genere di racconti; ero certa comunque, inizialmente, che li avrei apprezzati di più, soprattutto conoscendo scritti come quelli che ho citato inizialmente. 
Concluderei nominando quindi i racconti, a mio avviso, più meritevoli del libro: Bon-bon, Gli occhiali, L’Angelo del bizzarro, Il sistema del dott. Catrame e del prof. Piuma e Il diario di Julius Rodman.

***

Grazie a chi leggerà per la santa pazienza di sopportare le mie cavolate.

*lady in blue*

sabato 15 giugno 2013

Where will you go (Origin)

Originariamente postato sul vecchio blog il 26 maggio 2013

Ma ciao!! Come andiamo? In fin dei conti io non mi lamento troppo, anche se al momento le giornate sono abbastanza un delirio viste le tredici ore fuori casa quasi ogni giorno.
Ma bene o male ce la si fa, anche perché, oramai, pur di lavorare, si deve fare di tutto :D
E per ora può anche andare così, poi si vedrà. Per il resto si procede con la normalità. Nutro la speranza di riuscire, a breve, a iniziare una nuova storia originale a più capitoli, visto che ho avuto una certa idea e sto programmando il tutto già da più di un mese, senza mai mettermici sul serio. Per non parlare del fatto che ne avrei anche un’altra (la cui idea risale a qualche secolo fa) addirittura iniziata, ma poi allegramente mollata lì, ma che bello! Per la serie Ma quanto amo le cose incomplete! Chissà mai che mi decida a iniziarne una e a continuare l’altra, ma mai avere troppe speranze, visto anche tutto il tempo che ora come ora passo fuori casa.
E considerata anche la mia solita pigrizia. Ma pazienza, magari prima o poi ce la farò e, se mai concluderò qualcosa, penso posterò le storie intere sul blog, ma anche questo è tutto da vedere.
Ma va bene, ho parlato troppo, come sempre, perché cavolo sono passata di qui? Beh, per riprendere con gli Evanescence, ovvio…era troppo tempo ormai che non li consideravo, eh eh  :D Sì, a parte che li ascolto tutto il santo giorno, ma non c’è problema (sì, al lavoro senza la musica di sottofondo mi potrei sparare, visti i molti momenti di nulla totale).
Comunque sia, riprendiamo con Origin. Oggi parliamo della canzone intitolata Where will you go? (perché dal titolo non si era già capito, ma va’), ovvero Dove andrai? Questo brano è presente in due versioni differenti, una di Origin e una del più vecchio Evanescence EP. Neanche a dirlo, preferisco quella un po’ più recente, anche se si parla sempre di canzoni “vecchiotte”.
Mi piace molto il testo di questa canzone, da un certo punto di vista ricorda il tema trattato in Everybody’s fool, di cui avevo parlato tempo fa. Si parla sempre della menzogna, e di una persona incatenata a se stessa e a quello che sfoggia, ma che non corrisponde necessariamente alla realtà. Anche se, in questo caso, ho l’idea che il tutto si incentri di più sul dover mostrare una forza che forse non si possiede. Una forza che gli altri si aspettano e pretendono, a cui si aggrappano.
La persona presentata in questo testo, che sia un lui o una lei non è dato saperlo, prova chiaramente la necessità di fuggire: un po’ da se stesso, un po’ dalla realtà. Forse dalla paura di quel che lui stesso è diventato.
Un testo molto profondo, tutt’altro che banale. Devo dire che anche come canzone in sé non è affatto male; è una di quelle che preferisco di quest’album. Mi piace come Amy, anche quand’era così giovane, fosse capace di trattare temi così importanti e piuttosto forti. Direi un fatto per niente scontato, considerato di cosa parlano prevalentemente le canzoni d’oggi, ovvero di (mi si perdoni il francesismo) minchiate. E di minchiate ce ne sono già troppe normalmente, per doverle sopportare anche nelle canzoni, siamo seri, su… Quindi è una gran bella cosa che esistano anche artisti in grado di trattare temi seri e di riflettere su quello che creano. Oramai è una cosa rara.
Comunque sia, qui è possibile ascoltare il brano:


(Il link, nel caso il video sopra non funzionasse: https://www.youtube.com/watch?v=uv0TExTF-Og)

Ecco il testo comprensivo di traduzione:

WHERE WILL YOU GO (DOVE ANDRAI)


You’re too important for anyone (Tu sei troppo importante per tutti)
You play the role of all you long to be (Interpreti il ruolo di tutto ciò che brami essere)
But I, I know who you really are (Ma io, io so chi sei veramente)
You’re the one who cries when you’re alone (Tu sei quello che piange quand’è solo)

But where will you go (Ma dove andrai?)
With no one left to save you from yourself (Senza nessuno che ti salvi da te stesso)
You can’t escape (Non puoi scappare)
You can’t escape (Non puoi scappare)

You think that I can’t see (Tu pensi che io non riesca a vedere)
Right through your eyes (Proprio attraverso i tuoi occhi)
Scared to death to face reality (Spaventato a morte dall’affrontare la realtà)
No one seems to hear your hidden cries (Nessuno pare sentire le tue urla nascoste)
You’re left to face yourself alone (Sei lasciato da solo ad affrontare te stesso)
But where will you go (Ma dove andrai?)
With no one left to save you from yourself (Senza nessuno che ti salvi da te stesso)
You can’t escape (Non puoi rifuggire)
The truth (La verità)
I realize you’re afraid (Capisco che hai paura)
But you can’t abandon everyone (Ma non puoi abbandonare tutti)
You can’t escape (Non puoi scappare)
You don’t want to escape (Tu non vuoi scappare)

I’m so sick of speaking (Sono così stanca di dire)
Words that no one understands (Parole che nessuno comprende)
Is it clear enough that you can’t live (E’ chiaro abbastanza che non riesci a vivere)
Your whole life all alone? (La tua intera vita da solo?)
I can hear you in a whisper (Io riesco a sentirti in un sussurro)
But you can’t even hear me screaming (Ma tu non riesci nemmeno a sentirmi urlare)

Where will you go (Dove andrai?)
With no one left to save you from yourself (Senza nessuno che ti salvi da stesso)
You can’t escape (Non puoi rifuggire)
The truth (La verità)
I realize you’re afraid (Capisco che hai paura)
But you can’t reject the whole world (Ma non puoi respingere il mondo intero)
You can’t escape (Non puoi scappare)
You won’t escape (Non scapperai)
You can’t escape (Non puoi scappare)
You don’t want to escape (Non vuoi scappare)

**
Per quanto riguarda invece la versione dell’Evanescence EP, posto il video della sua riproduzione live al solito locale di Little Rock nel ’99 :


(Il link, nel caso il video sopra non funzionasse: https://www.youtube.com/watch?v=w6P3bwwA03I)

Il testo di questa prima versione è leggermente diverso (in alcuni punti) rispetto all’altro, ed è questo:

 

WHERE WILL YOU GO (EP Version) (DOVE ANDRAI)


You’re too important for anyone (Tu sei troppo importante per tutti)
There’s something wrong (C’è qualcosa di sbagliato)
With everything you see (In tutto ciò che vedi)
But I, I know who you really are (Ma io, io lo so chi sei veramente)
You’re the one who cries when you’re alone (Tu sei quello che piange quand’è solo)

Where will you go? (Dove andrai?)
With no one left to save you from yourself (Senza nessuno che ti salvi da stesso)
You can’t escape (Non puoi scappare)
You don’t want to escape (Non vuoi scappare)

However did you manage to push away (Ma sei riuscito a respingere)
From every living thing you come across? (Qualsiasi essere vivente in cui ti imbatti?)
So afraid that anyone will hate you (Talmente spaventato dall’idea che qualcuno ti odi)
You pretend you hate them first (Fingi di odiare gli altri per primo)

But where will you go? (Ma dove andrai?)
With no one left to save you from yourself (Senza nessuno che ti salvi da te stesso)
You can’t escape the truth (Non puoi rifuggire la verità)
I realize you’re afraid (Capisco che hai paura)
But you can’t refrain from everything (Ma non puoi astenerti da tutto quanto)
You can’t escape (Non puoi scappare)
You can’t escape (Non puoi scappare)

I’m so sick of speaking words (Sono così stanca di dire parole)
That no one understands (Che nessuno comprende)
Is it clear enough that (E’ chiaro abbastanza che)
You can’t live you whole life all alone? (Non riesci a vivere la tua intera vita da solo?)
I can hear you when you whisper (Io riesco a sentirti mentre sussurri)
But you can’t even hear me screaming (Ma tu non riesci nemmeno a sentirmi urlare)

And where will you go? (Ma dove andrai?)
With no one left to save you from yourself (Senza nessuno che ti salvi da te stesso)
You can’t escape the truth (Non puoi rifuggire la verità)
I realize you’re afraid (Capisco che hai paura)
But you can’t reject the whole world (Ma non puoi respingere il mondo intero)
You can’t escape (Non puoi scappare)
You won’t escape (Non scapperai)
You can’t escape (Non puoi scappare)
You don’t want to escape (Non vuoi scappare)

**
Come ho già detto, io preferisco la versione di Origin. Decisamente prende di più, almeno secondo me.
Comunque sia, direi che per questa volta è tutto :)  Spero di non aver rotto troppo le scatole con i miei soliti deliri, eh eh..
Tanti saluti e buon inizio di settimana!!

*lady in blue*

Randagia

Originariamente postato sul vecchio blog il 6 maggio 2013

Il gatto è una persona seria.
(Mauro Corona)

La citazione sovrastante, presa da un libricino di frasi sui gatti, le quali, ovviamente, non sono tutte belle e originali, vuole aprire il racconto che segue. Inviato inizialmente alla redazione della rivista Inchiostro, non è stato certamente ben giudicato, visto che nelle schede valutative si è parlato di pensieri sconnessi, tempi verbali discordanti e punteggiatura non sempre corretta. Ma, detto sinceramente, considerando il loro giudicare l’idea “buona per una favola”, non ho intenzione di tenere troppo in conto questo giudizio. Ognuno scrive quel che vuole, ognuno legge e apprezza quel che vuole. Poi vengono pubblicati i libri come Twilight e tutto è chiaro. Ma diciamolo, bello lungo e tutto attaccato: chisenefrega.
Questo racconto, a cui io in realtà tengo molto, può essere tutto tranne che lo spunto per una favola. Che ci siano pensieri sconnessi al suo interno, bah, può essere, o almeno, a me sembra di no, ma non posso certamente confutare irrevocabilmente un giudizio esterno. Avranno ragione loro.
Ciò che importa, nello scrivere, è farlo prima di tutto per se stessi. Gli altri vengono soltanto dopo, sempre che vengano.
Randagia è nato un po’ dalla lettura di Io sono un gatto, di cui ho parlato nello scorso post, un po’ dall’aver appreso una cosa che ha effettivamente ispirato il finale e da un giorno di pioggia.
Senza bisogno di aggiungere altro, lo incollo qui di seguito, con i suoi pensieri sconnessi, i tempi verbali discordanti (???) e la punteggiatura non sempre corretta. E dimenticavo le ripetizioni.
 
 

RANDAGIA


È vero che ho solo sette mesi, ma non ricordo molto del giorno in cui sono nata.
So che era un bel giorno di primavera inoltrata, la stagione migliore per i gattini di venire al mondo, almeno per noi randagi, e che avevo tre fratelli maschi, per il resto, non ne ho idea.
Non saprei nemmeno dire dove abbia esalato il mio primo respiro; un nascondiglio nel cortile? Probabile, sicuramente deve essere stato in un luogo qui intorno, perché questo è il territorio di mia madre. Per lei eravamo ormai l’ennesima cucciolata; ci ha leccati ben bene, ci ha allattati, ci ha insegnato le tecniche di caccia e protetto nei momenti di pericolo, ma cari miei, da queste parti, quando raggiungi i quattro mesi, ti dicono tanti saluti e vai per la tua strada.
Così sono andata; nella caccia non sono male (ammettiamolo, sono migliore rispetto ai miei fratelli, ma si dice in giro che noi gatte siamo migliori dei maschi, in questo), e sono anche piuttosto veloce a nascondermi. Oh sì, perché spesso è necessario. Ci sono due specie animali verso le quale mia madre ci ha messo tutti in guardia: i cani e gli uomini.
Pare che questi siano strettamente correlati.
Con i primi non riusciamo ad andare d’accordo perché proprio non ci capiamo, è una questione chimica. Per di più il nostro linguaggio del corpo è l’opposto del loro; per quanto riguarda gli uomini … beh, in questo caso la cosa è più semplice: sono pericolosi perché sono stupidi, anche se, disgraziatamente, si credono molto intelligenti.
Pare comunque che cani e uomini vadano piuttosto d’accordo.
Sì, lo so, lo so, ci sono anche gatti che vivono insieme agli essere umani, cosa credete? Che viva fuori dal mondo? Ma Dio me ne scampi e liberi! Pallette di pelo viziate che non sono nemmeno in grado di acchiappare un topo come si deve!
In ogni caso, sia i gatti domestici che gli umani, generalmente, snobbano noi gatti di strada. Ma che ci si può fare? in fondo può anche darsi che sia meglio così, almeno abbiamo più libertà.
Ah sì, e mai fidarsi di quegli umani che portano scodelle di cibo ai randagi, sarebbe un pessimo errore: spesso ci mettono qualcosa dentro, non so bene di che cosa si tratti, ma pare che possa ucciderci. Sono esseri piuttosto oscuri, questi uomini, forse hanno qualcosa a che fare con il Maligno, glielo si legge negli occhi.
Ne ho visti io, di questi miei simili, a terra sofferenti dopo aver mangiato il cibo dell’inganno portato da questi galoppini del diavolo. Brutto affare!
Ma io non potevo certo far nulla per aiutarli. Qui vigono leggi dure e spietate, ognuno pensa per sé e garantisce per la propria sopravvivenza, gli altri non sono affar mio.
Anche se, lo ammetto, qualche volta mi dispiace.
Esiste un’altra cosa, poi, a cui mia madre mi consigliò di fare attenzione, prima che fossi grande abbastanza per alzare i polpastrelli privi di tacchi: la strada. Pare sia attraversata da aggeggi infernali (e poi non dovrei credere che uomini e demonio siano in combutta?), che procedono a gran velocità. Se ci scontriamo con uno di questi, per noi è la fine.
Ma io in strada non sono mai andata; il mio mondo è sempre stato qui, in questo ampio cortile, qui si deve fare attenzione soltanto ai brutti ceffi che ogni tanto cercano di sterminarci con il cibo guasto.
Per il resto, come me la cavo? Non posso lamentarmi, dai. Vivo alla giornata, ma come ho già detto sono una buona cacciatrice, ed è certo che migliorerò una volta cresciuta. Mia madre era molto abile; a lei non sfuggivano né farfalle, né libellule, né topi. Le prede, con lei, non avevano scampo.
Io ripeto, me la cavo, ma sono ancora giovane, devo perfezionare la mia tecnica, anche se devo ammettere di essere piuttosto orgogliosa, mi piace sentirmi già perfetta.
Sembra che l’orgoglio ci accomuni un po’ tutti, noi gatti. Anche se da questa categoria escluderei i gatti di casa.
Comunque prendo un po’ di tutto: dagli insetti, ai ratti, agli uccelli. Appostarsi per tendere loro l’agguato mortale è indescrivibilmente bello.
D’accordo, sì, lo ammetto: caccio prevalentemente per mangiare, ma la fame non è l’unico motivo che mi spinga a uccidere i piccoli animali.
È l’istinto a indurmi a farlo, una sorta di gioia perversa che mi invade non appena al mio udito giunga battito d’ali o rumore di zampette che corrono veloci.
Fin da subito capisco che quello è il momento di mettersi in posizione: scruto la preda da una certa distanza, la studio e mi acquatto per non essere vista. Gli insetti di solito non si accorgono di niente fino a che non inizio a saltar loro addosso, ma gli animali più grossi possono sentirmi, per questo devo essere cauta.
Niente è più importante della pazienza e della perseveranza, lo diceva sempre mia madre durante le lezioni di caccia. Bisogna muoversi con calma e con astuzia, e non demordere se l’agguato non va a buon fine al primo tentativo.
Un episodio di caccia memorabile, dite? Sì, ce l’ho. È avvenuto più o meno il mese scorso: a un certo punto è arrivato un merlo, nella mia zona di cortile. Fin dal primo istante non ho potuto resistere: tanto per cominciare, si avvicinava l’ora di pranzo, e lo stomaco cominciava a farsi sentire e a dimostrarsi contrariato, e a me non basta miagolare fino allo sfinimento perché qualcuno mi serva come un moccioso. Sono una gatta seria, io.
Così mi sono appostata quatta quatta nascondendomi nell’erba ancora piuttosto alta. Il merlo beccava qualcosa dal terreno e sembrava non far troppo caso a me.
Io avevo l’acquolina in bocca. Avete mai provato a mangiare un merlo? No? Beh, non è affatto male! Comunque io sono rimasta ad aspettare pazientemente, come mi ha insegnato la mia mamma, mentre lo osservavo. Lui beccava il terreno e non faceva caso a me.
A quel punto mi sono detta che ero pronta a sferrare il mio attacco, così mi preparai; stavo per saltare, quando all’improvviso, accanto all’uccello nero, ne sono arrivati altri quattro del tutto identici.
Mi capite? In totale erano cinque merli! Riuscire ad acchiapparli tutti starebbe a significare una gran bella scorpacciata, ma siamo onesti: come può un gatto solo acciuffare cinque prede tutte in una volta? E a quel punto, anche prenderne una soltanto diveniva più complicato, perché una volta che fossi atterrata loro addosso, avrebbero creato confusione nel tentativo di fuga.
Decisi però di provarci ugualmente. Insomma, la fame è la fame. E una sfida è una sfida.
Così mi sono rimessa in posizione.
Gli uccelletti beccavano tranquilli il terreno. So che noi e gli uccelli abbiamo in comune il gusto per gli insetti.
Squadrandoli uno per uno, dovetti decidere quale facesse maggiormente al caso mio: due erano voltati in mia direzione, anche se distratti, due mi davano le spalle e l’ultimo si allontanava considerevolmente verso destra. Questo fu quello che esclusi a priori: dovermi spostare prima di compiere il balzo avrebbe potuto farmi scoprire, e con questo farmi prendere tutte e cinque le plausibili prede.
Così lasciai perdere il fortunello che si dirigeva per la sua strada, dandogli mentalmente appuntamento per la prossima volta; un bell’appuntamento piacevole e gustoso tra le mie fauci, ma torniamo alla caccia.
Mi accorsi di avere più chance di ghermire uno di quelli voltati dall’altra parte, ma non so perché, (forse perché una sfida è sempre una sfida!), decisi di prendere di mira gli altri, i quali certamente mi avrebbero vista per primi.
Oramai ero pronta a balzare, così scattai.
I due merli che non avevo puntato se la filarono subito in volo non appena avvertirono lo spostamento d’aria che avevo provocato, mentre, tra le mie vittime designate, ero riuscita a bloccarne uno tra le zampe. Tutto a posto, direte voi, gli hai assestato un bel morso alla gola e te lo sei pappato con gusto. E invece no! Uno dei furbacchioni volati via al mio arrivo si era fatto temerario ed era sceso nuovamente per beccarmi le zampe. E lasciate che ve lo dica: il becco degli uccelli è uno strumento di tortura. In questo modo dovevo difendermi dal mio assalitore, ma al tempo stesso tentare di mantenere salda la presa sul poveraccio che avevo intrappolato. In più dovevo resistere al dolore.
Ma fu tutto inutile: alla fine mi scapparono entrambi.
Allora ti è andata male? Mi chiederete voi. Ed è qui che viene il bello. Il nuovo fortunello e il suo salvatore se l’erano svignata, per poi appollaiarsi su un albero.
Io so salire sugli alberi, è un gioco da gattini, ma avrei soltanto sprecato fiato, che già mi mancava per la fatica del tentativo fallito, a farlo in quel momento: subito dopo un agguato subito, gli uccelli sono spaventati, e lo spavento acuisce i sensi.
Così ho atteso, promettendo al mio stomaco che più tardi l’avrei ricompensato.
Ho aspettato un bel po’, fingendo anche di essermi arresa allontanandomi e squadrando i merli come a dire lo ammetto, questa volta avete vinto voi. E si sa, non è che i merli siano dei grandi esempi di intelligenza. Così ci sono cascati.
Nel frattempo io ho continuato a tenerli d’occhio a distanza, mentre questi mi davano le spalle e non sospettavano nulla. A un certo punto se ne andarono, ma poi tornarono sul loro ramo, probabilmente sazi e stanchi.
È stato in quel momento che ho deciso di agire; qualcosa alla ora o mai più.
Da notare che nel frattempo mi ero dedicata un antipasto di un paio di mosconi. Era però ormai giunto il tempo per la portata principale. Così sono passata all’attacco. Ne avevo avuta di pazienza, mia madre sarebbe stata fiera di me, se solo non gliene importasse più nulla, dato che ha già avuto un’altra cucciolata.
Di certo non stavo demordendo, e questo faceva di me una cacciatrice a d’oc.
Mi sono arrampicata sul tronco con l’agilità felina che mi contraddistingue, sempre attenta a non fare rumore, e sgattaiolando tra un ramo e l’altro, sono giunta in fretta su quello occupato dai due furfanti che credevano di avermela fatta.
Si vede che non conoscono l’orgoglio dei gatti. Se credono che noi ci facciamo abbindolare in tal guisa, hanno davvero molto da imparare.
Dormivano beati, gli allocchi! Un unico salto, e li ho presi entrambi: uno imprigionato tra le zampe, l’altro stretto tra le mascelle. Per la paura non furono nemmeno in grado di dibattersi.
Stringevo la presa dei denti sul collo di uno, sentendo il suo respiro morire di secondo in secondo, e nel frattempo osservavo l’espressione vacua degli occhietti neri e inespressivi dell’altro.
Sorpreso, eh? Gli dicevo io con lo sguardo di fuoco. Sei fottuto, amico. Bye, bye. Spero per te, che nella prossima vita, tu rinasca gatto.
Una volta che fui certa di aver strangolato il primo malcapitato, lo lasciai andare verso terra e svelta presi tra le fauci il secondo, per poi correre di filata giù a mia volta.
Lì diedi il ben servito all’altro mio amichetto poi, contenta e soddisfatta, feci per portarmeli nel mio posticino segreto che mi funge da tana.
Immaginerete però che trasportarli tutti e due tra i denti risultava un pochino impegnativo, così mi sono ingegnata: uno in bocca, con l’altro facevo il possibile per muoverlo in avanti con le zampe.
È stata una cosa lunga, oramai era quasi sera e io morivo di fame, però ero fiera di me, avevo vinto la mia sfida personale.
Sono una gatta degna di ammirazione e destinata a prevalere: quando comincerò anche ad avere dei cuccioli, entrerò a far parte della sfera più alta della gerarchia.
Ma penso che per questo mi ci voglia ancora qualche mese: spero che il momento giunga quando il clima si farà più favorevole, com’è meglio che sia.
È stato sulla strada verso casa che ho incontrato il fetente; soprannome ampiamente meritato di uno di quegli squallidi gatti d’appartamento che ogni tanto vengono in cortile a fare quattro salti per sgranchirsi le ossa.
Questi sono quelli che odio di più: non provo una particolare simpatia per i pigroni che vivono al calduccio e si fanno strapazzare di coccole dai loro padroni umani, ma fino a che se ne restano a casa loro, non mi faccio troppi problemi al riguardo. Ma proprio non sopporto questi sbruffoni che fanno il giro del cortile sentendosi grandi felini solo perché qualche volta sono riusciti a mettere nello stomaco un moscerino, saltato loro in bocca. Anche loro, come i pigroni di cui sopra, una volta rincasati hanno la pappa pronta in quella cosa che si chiama… ciotola.
Di questi pessimi individui ne gira qualcuno in cortile, ma il fetente è il peggiore di tutti: lui è sicuramente il più sfrontato e spesso e volentieri sottrae le prede ai cacciatori stanchi come io ero in quel momento.
Me lo sono visto di fronte, con il bel pelo marroncino liscio e lucido, le pupille ingrossate e lo sguardo eloquente.
Mi sono fermata e ho serrato più forte i denti sulla prima preda, e le zampe sulla seconda che trascinavo con me a fatica.
No, caro mio. Te lo scordi. Due prede in una volta è un’impresa memorabile, neanche morta te ne concedo anche una soltanto. Gli ho fatto capire con un’occhiataccia.
Ma lui se n’è fregato e ha cominciato ad avanzare verso di me. Ne avessi avuta una soltanto avrei potuto tentare la fuga, ma in quel caso mi era proprio impossibile.
Così avevo due alternative: tentare di difendere entrambe le prede, rischiando di perderle tutte e due, soprattutto a causa della stanchezza, oppure svignarmela con una soltanto e lasciare l’altra alle fauci immeritevoli del fetente.
Ho dovuto lottare strenuamente contro il mio orgoglio per scegliere la seconda opzione. Non avrei voluto farlo, sono sincera, ma non potevo correre il rischio di restare senza cena; avevo perso tutto il giorno dietro a quei merli, per pura e semplice soddisfazione personale.
Così, a malincuore, mi lasciai alle spalle metà del bottino e me la diedi a zampe levate con l’altra.
Fu un peccato, ma riuscii a mangiare. Che ne avessi prese due, in ogni caso, si dimostrò una fortuna.
Abbandonando uno dei merli alla mercé del fetente potei riempirmi lo stomaco, se la caccia però me ne avesse fruttato uno soltanto, molto probabilmente mister gatto di casa che si atteggia da randagio me l’avrebbe sottratto aiutato dal fatto che fossi sfinita.
Mi brucia ancora un po’ quel ricordo; come ho già riferito, noi gatti siamo orgogliosi, ma ogni tanto capita di doversi piegare a questo genere di rinunce, anche se non è affatto piacevole.
In ogni caso, da quel giorno non ho smesso di acchiappar prede, anche se non mi sono cimentata più in un’impresa tanto folle e ricca di sfida verso me stessa.
Forse prima o poi ritenterò, ma al momento preferisco di no. Non ci tengo a ripetere l’esperienza; caccio sempre per divertimento, oltre che per fame, ma non vado mai oltre le mie possibilità: se perdo una preda, ne cerco un’altra, anziché ostinarmi sulla stessa.
Comunque ho il sospetto che sia la vicinanza degli umani a rendere questi gatti (quelli che hanno l’atteggiamento del fetente) malvagi e opportunisti. Sì, certo, ogni gatto deve pensare a se stesso, e come creature selvagge obbediamo alle leggi della natura, ma nessuno di noi, in libertà, è mai veramente cattivo con gli altri. Capita di rubare, sì, ma è la fame a spingerci a farlo, non un desiderio fine a se stesso.
Gli esseri umani sono proprio una gran brutta razza; li ho visti solo da lontano (io non mi sono mai avvicinata, nemmeno a quella ragazza che, quando mi vede nel cortile, si inginocchia e mi chiama con quello schiocco della lingua che loro usano sempre nei nostri confronti. No, cara. Non mi freghi. Penso sempre quando la vedo, e filo alla velocità della luce), ma non mi fido affatto di loro.
Una volta ho sentito dire che, quando le loro gatte d’appartamento fanno i cuccioli perché sono scappate per accoppiarsi, per poi tornare a casa per via dei morsi della fame, prendono i gattini e li abbandonano oppure li affogano.
Rabbrividisco al solo pensiero; sarà il mio istinto materno ancora da sperimentare, ma giuro che l’idea di una simile crudeltà mi dà i brividi.
Forse potrebbero esistere dei vantaggi a vivere con loro: starei al caldo, dormirei in posti morbidi, e mi verrebbe riempita di cibo quella cosa che si chiama ciotola, ma no, grazie. Passo volentieri, non ne vale la pena. So che per questo dovrei rinunciare alla mia libertà e non potrei mai accettarlo.
Forse è diverso per quei gattini che nascono in casa, abituandosi fin dall’infanzia a quella vita, ma per me non potrebbe funzionare, anche se trovassi uno di quei rari umani che rispettano i gatti.
Forse la ragazza che vedo sempre avrebbe queste intenzioni con me, chi lo sa, ma sta di fatto che non voglio scoprirlo. Così non rischio nemmeno di incappare nel cibo guasto come molti altri miei simili creduloni.
Ma è pur vero che un luogo caldo dove dormire oggi mi farebbe proprio comodo: è un giorno di fine novembre, ed è da stamattina che piove ininterrottamente; ormai sono fradicia, anche se sono rimasta nascosta nel mio solito posto.
L’acqua filtra, e c’è poco da fare.
Ora come ora il fetente se ne starà comodo sdraiato sulle gambe del suo padrone a ronfare beatamente, asciutto come non mai. Beh, ma che mi importa? Per lo meno, io non ho nessuno da chiamare padrone, e questo è senz’altro un vantaggio.
Ogni gatto è padrone di se stesso, e chi di noi sceglie di sottomettersi agli ordini di qualcun altro, altro non è che un venduto! Un conto sono le nostre gerarchie, in alto c’è chi lo merita di più (i maschi più forti e le femmine più prolifiche), ma dover obbedire a una creatura soltanto perché sta in piedi sulle zampe posteriori anziché usarle tutte e quattro, non esiste né in cielo né in terra.
Anche se poi, io del cielo non so un granché; per quello dovrei chiedere agli uccelli, ma dubito che mi lascerebbero avvicinare senza volarsene via il prima possibile.
D’altra parte li capisco, non si fiderebbero, e farebbero bene. Si comportano come io mi pongo nei confronti degli uomini.
Così, quest’oggi, conscia e fiera della mia libertà, non mi rimane altro da fare se non sopportare il freddo e la pioggia; pazienza, passerà. E poi la natura ha sempre un che di affascinante, anche quanto le girano: lei che è la padrona assoluta, e se qualcosa le viene tolto (dagli umani, è ovvio! Noi animali la rispettiamo come una madre), prima o poi se lo riprende, e mostrando anche apertamente il suo disappunto.
È fantastica la natura, anche in una giornata come oggi.
E poi, siamo seri, noi gatti sopportiamo meglio le intemperie di come riescano a fare gli umani; quelli che ho notato oggi (sempre stando loro alla larga) erano tutti imbacuccati per difendersi dal freddo e si coprivano la testa con quel coso ridicolo che serve a ripararli dalla pioggia.
Fossi in loro, io resterei a casa, piuttosto che farmi vedere in quello stato.
Fa provare meno vergogna essere zuppa dalla testa alla coda come lo sono io in questo momento.
In ogni caso, dato che la differenza tra il nascondiglio e l’aperto non è poi molta, decido di uscire e farmi un giro. Forse riuscirò ad acchiappare qualche uccellino con il piumaggio appesantito dall’acqua, altrimenti vorrà dire che mi farò semplicemente una passeggiata per sgranchirmi le zampe.
Cominciano a farmi male, a starmene qui raggomitolata e intirizzita per il freddo.
Il cortile è pieno di pozzanghere, soprattutto quella enorme che si è formata lì nel mezzo. A metterci dentro le zampe credo che finirei per annegarci, sembrano profonde.
Vedo qualche altro gatto mentre cammino per il mio solito territorio: tra questi credo di aver scorto uno dei miei fratelli, ma non ne sono certa. D’altro canto oramai sono mesi che non lo vedo. Certo che ce le suonavamo quando giocavamo alla lotta, da cuccioli! Ah, i bei tempi andati. A sette mesi è troppo tardi per giocare, qui fuori. Ho sentito dire, invece, che i gatti d’appartamento giocano per tutta la vita, anche quando raggiungono l’età matura.
Bah, contenti loro!
Io ormai mi sento sufficientemente matura da passar sopra a certe stupidaggini da gattini ancora poppanti.
Sento le cornacchie che gracchiano: quelle se ne fregano della pioggia! Non so dire di che pasta siano fatte, ma so per certo che tutta quest’acqua che piove dal cielo a loro fa un baffo.
Sono resistenti, per essere dei semplici volatili di città, infatti mi sono sempre ben guardata dal provare a prenderle. Anche perché sono belle grosse.
Sta scendendo la sera, e in fondo mi rendo conto che non mi importa poi più di tanto di essere bagnata. Faccio parte anch’io di questo ciclo e di questa natura, è giusto così.
Piuttosto, all’improvviso ho alzato lo sguardo nella pioggia e c’è una cosa, che è sempre stata lì, ma che improvvisamente attrae la mia attenzione in modo spasmodico e pressante: il tetto di uno dei palazzi presenti nel cortile.
Quanto vorrei salirci! Mi dico. Da lassù dovrei riuscire a vedere ogni cosa qui intorno e deve essere magnifico, soprattutto per me, che non sono mai uscita dal cortile.
E va bene, confesso: non mi sono mai mossa di qui perché sono una fifona, contenti? Prima di canzonarmi, però, riflettete su chi è più degno delle prese in giro, se io che temo di lasciare il territorio che conosco, o coloro che utilizzano l’aggeggio ridicolo per coprirsi quando piove.
Come se poi ci fosse qualcosa da temere, nella pioggia. Io me la sto prendendo da stamattina, e non mi è successo nulla.
Ma torniamo a noi; così, su quattro zampe, decido che oramai sono abbastanza grande per salire su un tetto e vedere che cosa mi aspetterebbe fuori di qui, potendo però prima abituarmi alla semplice vista del resto del mondo.
Come per arrampicarsi su un albero, anche questo per me è un gioco da gattini, sebbene sia la prima volta che lo faccio; non sono sorpresa, però, di scoprire che mi viene naturale. So che sono in molti i gatti che lo fanno.
Il tetto è parecchio in alto, ma io trovo facilmente tutti gli appigli e i piani su cui far leva o appoggiarmi per seguitare nella mia scalata e, in men che non si dica, sono già su; e non sono affatto stanca.
Mi concedo un momento per inorgoglirmi, tenendo la coda dritta e sfoggiando il portamento fiero sotto questa pioggia battente che di sicuro non potrebbe fermarmi, poi inizio a guardarmi intorno.
Caspita, certo che sono in alto. Ma no, che avete capito! Non soffro mica di vertigini! Era semplicemente una costatazione.
Si è mai sentito di un gatto che soffre di vertigini? Ma va.
Beh, non posso che restare incantata alla vista che mi si para davanti agli occhi: è tutto così bello da quassù. Bello e immenso; non immaginavo che il mondo fosse così grande, chissà dove arriva?
Eppure il solo pensiero di mettervi zampa ancora mi terrorizza, meglio stare ad osservarlo per un po’.
Mi siedo sulle tegole bagnate, tanto ormai per me non fa differenza, e mi immergo nella contemplazione. Vedo quella cosa che mia madre aveva chiamato strada, attraversata dagli aggeggi infernali di cui mi parlava, che proseguono veloci con quelle strane luci accese sul davanti e sul di dietro. Vedo che ci sono altre case, oltre a quelle che già conosco, e sono molte più di quante immaginassi.
Vedo che la città si estende a perdita d’occhio, e da quassù la pioggia sembra ancora più violenta e naturalmente splendida. Quasi mi beo di riceverla addosso.
Sento di nuovo le cornacchie gracchiare e, alzando lo sguardo, vedo uno stormo che si fa beffe della copiosa precipitazione.
Le osservo con ammirazione. Sì, può far strano credere che un gatto possa ammirare degli uccelli, che generalmente ci sono nettamente inferiori, ma nel loro caso c’è qualcosa di diverso.
Lo sto ancora pensando quando d’improvviso il gracchiare proviene da accanto a me; mi volto piano e resto a guardarlo stranita e insieme piena di curiosità.
Chiamavi me? Chiedo incerta e titubante. In questo caso devo fare una precisazione: ho notato fin da subito che l’uccello che ha gracchiato è un vecchio maschio, ma tra noi animali non esistono forme di cortesia, non del genere degli umani. Così posso rivolgermi a lui come se parlassi a un gatto mio coetaneo.
Il vecchio volta il becco in mia direzione e mi fa cenno di sì. Stupita, non so che altro dire.
Che fai quassù? Mi domanda. Guardo la pioggia, ma soprattutto osservo il mondo che non conosco. Rispondo io, un po’ a disagio, ma fortemente attirata dalla figura della cornacchia.
E confesso, un po’ mi è venuta fame a guardarlo, ma non oserei. Anche perché deve far proprio male prendersi una beccata delle sue.
Più sali, più il mondo si fa vasto. Seguita il vecchio con tono calmo e rassicurante. Sembra aver preso forma dalla pioggia stessa.
Questa è la massima altezza a cui possa salire, cornacchia, non fare tanto il superiore con me. Lo redarguisco. Non ci vuole molto a salire quando hai un paio d’ali, e per questo non c’è bisogno di auto assegnarsi un piedistallo.
L’avevo detto che sono orgogliosa.
Calma, gatta, non scaldarti. Non si sale solo verso l’alto. È sempre più calmo, lui. Sta cominciando a diventarmi odioso, se non avessi paura del suo becco enorme, lo addenterei senza remore.
Ma non mi dire. E dove mai si potrebbe salire ancora, dunque? Se continua a prendermi in giro, giuro che lo strozzo.
In tutte le direzioni. Salire significa conoscere. Certo che ha sempre la risposta pronta.
Conoscere che cosa? Cornacchia, parla come mangi, e non farti cavare le parole dal becco. Lo sopporto ancora per poco, giuro, poi finisce male.
E pensare che al primo momento mi aveva ispirato curiosità.
Conoscere il mondo. Tu sei salita quassù, e ne hai conosciuto uno stralcio. Ma hai ancora tanto da vedere. E gracchia forte in direzione del cielo, come a richiamare quei suoi compagni che volano liberi dimostrandosi potenti. Sì, forse, se davvero esistono creature più libere dei gatti, queste sono gli uccelli, che possono arrivare più in alto di noi e librarsi nell’aria come se niente fosse.
Piace sentirci invincibili, a noi gatti, ma devo riconoscere la superiorità di queste creature. Almeno in questo senso. E per questo mister cornacchia mi dà ancora di più sui nervi.
Avrò tempo di conoscere il mondo. Gli dico seccata. Sono ancora giovane. Concludo.
Non conoscerai mai niente, gatta, se parti prevenuta su tutto ciò che ti circonda. Non può proprio fare a meno di dimostrarsi tanto antipatico? Voglio dire, basterebbe un piccolo sforzo, e smetterla di fare tanto il saccente. È ufficiale, tra gatti e cornacchie non ci si capisce, come con i cani.
Non diffidare sempre di ogni cosa. Vai per la tua strada, e arrischiati a salire in alto. Sei giovane, è vero, se intraprendi la strada giusta ora, potrai davvero conoscere il mondo. Perché credimi, gatta, non è da quassù che lo conoscerai. Fa con serafica saggezza.
Cornacchia … comincio io, ma non faccio in tempo a dire nient’altro, perché il vecchio, gracchiando, ha spiccato il volo per unirsi ai suoi simili.
Un po’ stordita e ancora irritata decido di scendere dal tetto. Non ho più voglia di vedere il mondo da qua, ho perso tutto il gusto per la cosa. Maledetta cornacchia! Proprio qui me la dovevo ritrovare!
Mai nella mia vita ho incontrato un essere che mi innervosisse di più, eppure quel che ha detto continua a girarmi in testa: salire; bisogna salire per conoscere; e salire non significa soltanto andare verso l’alto. E che vorrebbe dire, allora? Forse, il vecchio blaterone intendeva andare oltre.
Forse dovrei.
Non mi sento pronta a riconsiderare gli umani o i gatti che vivono con loro, vorrei fare un passo alla volta, ma intanto mi piacerebbe superare le mie paure a inoltrarmi in quel mondo che ho tanto temuto finora.
Una piccola gitarella nei dintorni, tanto per cominciare. Chissà che un uccellaccio possa aver detto qualcosa di utile per una volta. Devo comunque riconoscere che le cornacchie siano intelligenti; sicuramente molto più dei merli.
Così respiro profondamente e mi avvio verso il cancello che conduce fuori. La pioggia non accenna a diminuire, ma ormai non ci faccio più tanto caso, ne faccio parte anch’io.
Passo tra le sbarre e scivolo fuori; non è stato poi così difficile. Certo che ho il cuore che mi batte a mille. Ma meglio proseguire, non devo farmi scoraggiare.
Forse la vecchia cornacchia sproloquiava e basta, ma devo salire e liberarmi dei miei pregiudizi.
Questa è la volta buona.
Mi avvio lentamente. Poi piano piano acquisisco sicurezza, e con questa velocità. Non è poi tanto male stare qua fuori, anche questo luogo fa parte di me, come potevo accontentarmi soltanto del cortile? Volendo essere sincera, non ho fatto altro che comportarmi come i gatti d’appartamento, che vivono murati nelle case dei loro padroni, inchiodati al loro mondo delimitato da pareti.
Il mio mondo era delimitato dal cancello; non ho mai osato andare oltre, e non capisco come potessi definirmi libera, veramente, prima di oggi.
È una sensazione nuova, quella di trovarsi qui, ed è bellissima.
Adoro il mondo. Adoro la vera libertà. Sono nata per essere libera, ora lo sento. Non mi accontenterò più soltanto di far agguati a insetti, lucertole, topi e uccellini. Penso che vagherò molto di più; sento che qui fuori circola aria nuova che avevo bisogno di respirare.
È immensa la libertà, anche a pochi metri da casa.
Chissà che la cornacchia non abbia ragione anche sui pregiudizi? Avrò tempo per pensarci, scoprirò una cosa alla volta. Tanto, ho tutta la vita davanti a me.
Comunque sia, d’ora in avanti guarderò con un certo rispetto le cornacchie. Sono sagge, anche se a parlarci danno sui nervi.
Proseguo in questo mondo nuovo ammirandone le luci e gli spazi aperti; improvvisamente mi capita sotto zampa una lucertola; senza pensarci due volte l’acchiappo e me la divoro.
Beh, che c’è? Uno spuntino non si rifiuta mai.
Poi riprendo a camminare; sono estasiata.
Quasi penso che non sia il caso di tornarmene al mio solito nascondiglio nel cortile, qui c’è troppo da vedere e da sentire per potervi rinunciare. Vorrei vagarci dentro finché mi fosse possibile, finché non ne fossi sazia.
Vorrei ringraziarti, vecchia cornacchia. Eri antipatica e facevi la saputella, ma te lo meriti, mi hai regalato la vita che da sola non mi ero mai concessa.
Ti cerco con lo sguardo rivolto verso l’alto, e lancio al cielo un miagolio che credo capiresti anche se tu gracchi. Tanto, bene o male, noi animali ci capiamo spesso, ammesso non si tratti di gatti e cani, s’intende.
Finché quelli si ostinano a dimostrare irritazione tenendo la coda eretta, non si arriverà mai da nessuna parte!
Ma tralasciando le mie impressioni personali, ormai sono tanto felice che ho preso a correre; ci sto davvero prendendo gusto in questa esplorazione.
Sento che il mondo è mio.
Sì, il mondo è mio! Il mondo è m…

È successo troppo in fretta: ho visto in un lampo quelle luci demoniache e poi ho sentito la botta tremenda. Aveva ragione mia madre, bisogna fare attenzione alla strada. Ma io ero così presa dal mondo che stavo or ora conoscendo, che me ne sono dimenticata.
E che questa è la fine non ho alcun dubbio. L’aggeggio infernale del maligno mi ha presa in pieno; sento che ho le zampe rotte. E sento che qualcosa mi fuoriesce dal ventre, forse è solo sangue, forse le mie stesse viscere.
Mi toccherà morire sotto la pioggia, solo per aver ascoltato il consiglio di una cornacchia.
Ma no, in fondo ne è valsa la pena. Quanto ancora sarei dovuta vivere, chiusa nel mio mondo protetto come un gatto domestico fa in casa del padrone? No, è meglio così. Questi sono i rischi del mestiere. Sono le fregature di chi vuole essere libero, e vanno accettate per forza di cose.
Se soltanto non fosse che fa male da morire, potrei anche sentirmi felice di aver trascorso gli ultimi minuti della mia vita vedendo quel che c’era fuori dal cortile.
Ho vissuto di più in questo breve lasso di tempo, che nei sette mesi totali della mia vita.
Grazie comunque, cornacchia, se mi senti. Avevi ragione. Avrei solo dovuto prestare attenzione come suggeriva mia madre; questo hai mancato di ricordarmelo, vecchio.
Il problema più grosso è che non riesco a muovermi, e trovandomi ancora in mezzo alla strada, capita che qualche altro aggeggio infernale mi urti o mi passi sopra, distruggendomi sempre di più.
Non posso far altro che attendere la morte.

Non so quanto tempo sia passato da quando sono stata investita. So che soffro atrocemente e che la morte non vuole proprio graziarmi. Il mio respiro è flebile, ma disgraziatamente c’è ancora.
Forse, quando sarà tutto finito, volerò in alto come gli uccelli. E chissà, magari potrò acchiapparli in volo. Sarebbe una bella rivincita.
D’improvviso sento di venir sollevata. Finalmente è arrivato il momento. Mi dico. Deve essere questa la sensazione che si prova quando si muore: si viene sollevati da terra.
Chiudo gli occhi e mi preparo a spirare, ma non succede niente, e non sento altro che il dolore che aumenta. Provo a lamentarmi, ma non mi riesce.
Infine sento di toccare di nuovo il terreno. Sbigottita e agonizzante riapro gli occhi e non ho la forza per reagire a ciò che vedo.
C’è la ragazza che, nel cortile, cerca sempre di richiamarmi e che io ho sempre evitato per mancanza di fiducia. Mi ha raccolta dalla strada e mi ha spostata sul ciglio della stessa, dove potrò finalmente morire in pace.
Ha le mani coperte dai guanti e vedo che questi sono rossi del mio sangue; mi guarda con occhi tristi, e piange. Questa è una cosa che non sappiamo fare noi gatti, e che solo ora che la conosco, comprendo di ammirare negli uomini.
Poi si toglie un guanto, e prende ad accarezzarmi lentamente e dolcemente la testa; io faccio le fusa per calmarmi, ma il suo tocco fa già abbastanza.
Ora riesco a lasciarmi andare. Ora il dolore sta sparendo. Ora sto per morire.
Ripenso per un attimo alla faccenda dei pregiudizi tirata fuori dalla cornacchia che mi ha reso libera e mi ha condotta alla morte al tempo stesso: non bisognerebbe averne, se davvero si vuole conoscere. Forse c’è un fondo di verità nel suo gracchiare.
Forse gli esseri umani non sono poi tanto male; almeno non tutti.

Raggiungo il buio.
Finalmente.
28 novembre 2012
*lady in blue*

PS: Da questa pubblicazione, inauguro due nuove categorie per quanto riguarda i racconti: Black Stories e Gray Stories; Storie Nere e Storie Grigie. Randagia è una Gray Story.

Io sono un gatto (Natsume Soseki)

Originariamente postato sul vecchio blog il 22 aprile 2013

Ciao!!
Perché no? Oggi posto un altro bel commento a un libro, tanto ne ho già pronti un po’, tanto vale pubblicarli prima di accumularne miliardi :)  Per quanto mi riguarda, io ho finalmente ripreso a lavorare (ma il lunedì mattina è libero, meno male, visto che poi finisco tutti i giorni alle otto e arrivo a casa dopo le nove, che bello!! Ma ci accontentiamo), anche se per il momento mi limito a incrociare le dita e a sperare per il meglio, visto che ancora non c’è nulla di sicuro…che tempacci!!
Ma veniamo finalmente al libro in questione. Allora: io sono un gatto è un libro giapponese, molto molto particolare e completamente fuori dall’usuale. Come è poi riportato anche nel commento che allego sotto, inizialmente questo testo non era per me ma, visto che la persona a cui l’avevo regalato 1. ci avrebbe messo ottanta secoli a finirlo già in circostanze normali e 2. dopo che le era stato detto che il finale era “negativo” non l’avrebbe finito di certo, me lo sono ripreso e me lo sono letto io per benino, circa in una settimana.
Un bel libro, che lascia il segno e non si dimentica, che fa riflettere. Un libro adatto agli amanti dei gatti; ma a quelli veri, non a coloro che si emozionano soltanto quando vedono i cuccioli. Questo genere di individui è il peggiore di tutti, per quanto riguarda l’approccio con gli animali…
Un libro che sa anche essere noioso, ma soltanto per dimostrare quanto sia sconclusionato l’essere umano, perché questo gatto, che un nome non ce l’ha, osserva e osserva l’essere umano e ce ne dà una descrizione incredibilmente fedele … consiglio quindi a tutti di fare attenzione quando trovate un gatto nelle vicinanze (a maggior ragione per coloro che non li amano, brutte bestie –>[ovviamente riferito a chi non ama i gatti, non ai gatti stessi. NDR]), perché sicuramente vi sta osservando, e c’è una buona probabilità che nasconda carta e penna per annotare il vostro comportamento e, per quanto riguarda chi fa parte della massa di pecoroni che oggi abbonda, le loro immense idiozie.
E ora il commento del testo:


IO SONO UN GATTO

Di Natsume Soseki


Questo, posso dirlo con certezza, non è un libro come un altro.
Si svolge in un contesto territoriale diverso dall’abituale (Giappone), in un’epoca diversa da quella in cui viviamo (gli inizi del ‘900), e persino il narratore è diverso dal solito, perché questo è un gatto.
Ma soprattutto è diverso il modo di raccontare una storia, perché di una storia vera e propria non si tratta.
Questo gatto narratore, che per tutto il corso del romanzo non ha un nome, non ci presenta una trama abituale fatta di inizio –svolgimento –fine, ma una serie di aneddoti (a volte interminabili) di vita quotidiana relativi al luogo in cui vive, alle persone con cui vive e a quelle che le circondano.
Sì, perché questo gatto grigio e giallo non si sofferma più di tanto a parlare dei suoi simili, se non per un paio di questi verso l’inizio, ma studia l’essere umano, nelle sue varie e assurde sfaccettature e ce lo mostra così com’è, nudo e crudo, con ironia, acume e scetticismo.
Il nostro eroe comincia raccontandoci che da cucciolo è finito in qualche modo nei pressi di un’abitazione, nella quale continuava a entrare alla ricerca di cibo, nonostante la serva della famiglia a cui la casa apparteneva lo sbattesse fuori ogni volta che lo beccasse.
È infine il professor Kushami, il padrone, a dare disposizioni perché il gatto venga lasciato entrare, se proprio lo vuole.
Da quel momento in poi la casa del professore diventa anche quella del gatto.
Ma se si crede che così il poverino abbia trovato una famiglia si commette un grosso errore: insomma, il micio vive lì, ma non è che sia visto proprio di buon occhio, per di più le tre figlie di Kushami gliene combinano di tutti i colori, tra cui infilarlo nel forno…fortunatamente spento, almeno immagino.
Se posso aprire una piccola parentesi personale, io invece infilerei nel forno quei bambini che danno fastidio ai gatti…acceso in quel caso, però.
Bene, torniamo al libro senza dimostrare come al solito di essere una perfida strega fiera di esserlo.
Innanzitutto, questo gatto simpatico, ci presenta un po’ il suo padrone: Kushami è un professore, insegna inglese in un liceo vicino, ma è un tipo veramente bizzarro. È un misantropo, un disadattato, un pigrone e un balordo di prima categoria.
Tenta sempre di fare qualcosa come comporre versi o dipingere, dipende dalla passione del momento, ma è sempre un gran disastro. Per di più pare che si porti sempre a letto dei libri, ma che poi non legga nemmeno mezza riga. La sua pare quasi una nevrosi: ha bisogno di avere un libro con sé quando va a letto come qualcun altro potrebbe aver bisogno di sentire un rumore particolare.
Kushami è anche una persona molto ingenua, fondamentalmente è stupido e chiuso nel suo mondo, irritabile e fuori di melone, ma infine il gatto lo apprezzerà più di molti altri.
Come dicevo inizialmente, questo è un libro strano, perché non presenta al lettore una storia convenzionale, anzi, una trama proprio non esiste.
Fondamentalmente, questo testo si basa sulla conversazione, su lunghi dialoghi intrapresi sempre tra il professore e amici o vecchi studenti che vengono a trovarlo, oppure con la moglie.
Per l’appunto, i personaggi principali di questo estratto di vita quotidiana sono la moglie di Kushami, di cui non sappiamo mai il nome, viene semplicemente chiamata “la padrona”, l’amico blaterone Meitei, il riccone e vicino di casa, cioè il signor Kaneda, con la moglie nasona e la figlia viziata, i vecchi studenti Kangetsu e (in minor misura) Tofu, più qualche altro pazzo scatenato che ogni tanto finisce per far visita al professore.
Ogni tanto abbiamo l’immenso (e come no!) piacere di notare la presenza dei tre mostri, ovvero le figlie di Kushami, o di qualche sciatto vicino che si lascia corrompere dal riccone perché dia fastidio al prof.
Molto spesso, i lunghi capitoli si basano sulle conversazioni tra il professore, Meitei e Kangetsu.
Il primo ne ha sempre una (lui soffre di stomaco, ma sostiene che nessuna medicina gli faccia mai niente), Meitei sproloquia all’infinito e non fa altro che inventarsi favole, Kangetsu è uno studioso che si dedica alle cose più bizzarre e fondamentalmente inutili: siccome lui è un fisico, decide di esporre brillantemente la teoria della dinamica dell’impiccagione, oppure passa le sue intere giornate all’università a limare biglie perché gli servono per i suoi esperimenti relativi al dottorato su (da pagina 210 del testo) “l’effetto dei raggi ultravioletti sulla funzione galvanica del globo oculare della rana”. Insomma, una cosa importantissima ai fini della scienza e dello sviluppo.
In tutto questo contesto strampalato, il nostro amico gatto è un osservatore attento, che riporta fedelmente tutto ciò che sente e vede, e che spesso commenta con ironia ed efficacia l’idiozia umana, la nostra capacità di complicarci la vita con inezie e, secondo me, il nostro infinito parlare a vanvera.
A me è capitato, leggendo queste pagine, di dirmi “mamma mia, ma questi non fanno altro che blaterare, blaterare e blaterare, parlano di tante di quelle cavolate inconcludenti!!”, per poi rendermi conto che, in effetti, chi è che non lo fa? Tante volte parliamo davvero di cose stupide, inutili, banali, senza senso. E io sono una persona che, piuttosto che dire cose tanto per far prendere aria alla bocca, preferisce restare in silenzio.
Ma comunque capita a tutti, solo che parecchi, come l’egregio signor Meitei, lo fanno senza ritegno e senza mai chiedersi per quale diavolo di motivo aprano la bocca.
Dopo aver fatto questo genere di riflessioni, solitamente voltavo lo sguardo, con sospetto e interesse, verso i miei gatti, scrutandoli come a voler indagare che non nascondessero da qualche parte carta e penna.
Eh eh … a parte gli scherzi, viene quasi da chiedersi se queste bestiole non ci vedano veramente così, come dei poveri cretini, masochisti, sconclusionati ed egocentrici.
Cosa di cui non mi stupirei più di tanto.
Comunque; in questo contesto bislacco, ci viene presentato con estrema maestria il Giappone di cento anni fa, che iniziava in quel momento ad uscire dal suo isolamento, spiluccando qua e là i primi accenni dell’Occidente. Un Giappone che piano piano cominciava a perdere la sua identità, anche se questa è ancora presente.
Sì, perché come c’è il signor Kaneda, il ricco vicino uomo d’affari, o Suzuki, il leccapiedi che cerca di farsi strada nel mondo del business in tutti i modi possibili (generalmente facendo tutto quello che gli dice Kaneda, e questo di solito è andare a spiare il professore –visto che Kaneda lo odia, NDR- prendendosi ampiamente gioco di lui), c’è anche un personaggio come Dokusen, che spara massime zen ogni tre per due, anche se fondamentalmente parla a vanvera anche lui.
Posso dire chiaramente che questo non è libro adatto a tutti, ma solo a chi possieda un ampio spirito d’osservazione e una certa sensibilità; nonché anche l’amore per i gatti. Non si può essere superficiali e approcciarsi a questo libro, altrimenti si rischia di mollarlo dopo la prima pagina.
Perché certo che tante volte i discorsi del professore e combriccola si fanno noiosi, ma credo proprio che sia un fatto voluto: questo mostra l’assurdità dell’essere umano, in che cosa si perda ogni giorno, quanta importanza dia, per tutta la vita, a cose stupide e di poco conto, senza mai soffermarsi sulle riflessioni che potrebbero servire veramente, senza mai farsi umile (e non far finta di essere umile, che è diverso; NDR) senza rendersi conto che un singolo uomo non è il centro dell’universo.
Insomma, credo che la morale possa essere che sarebbe meglio vivere con la semplicità di un gatto, saper vedere le cose come quest’ultimo, che forse nota che cos’è davvero importante. O almeno, quel che c’è sul serio da vedere.
Ora ci sarebbe da raccontare il finale del libro; di solito lo faccio, ma in questo caso eviterò.
Questo per un semplice motivo; devo precisare che questo libro, sebbene l’avessi comprato io, inizialmente non doveva essere per me. L’avevo preso come regalo natalizio (per il 2011) per mia nonna, grande gattofila, ma si dà il caso, tanto per cominciare, che sia anche una grande polentona nella lettura.
Ma si dà anche il caso che questo libro sia stato preso in mano da mia zia, che, bisognerà saperlo, è una di quelle persone che il signor Stephen King definisce “orribili individui a cui accadrà qualcosa di brutto”, ovvero quelle che vanno a leggere il finale del libro in anticipo.
Mia zia ha detto a mia nonna che il finale era “terribile”, di non leggerlo assolutamente.
Così, ovviamente, me lo sono ripreso e l’ho letto io.
Solo che quel “terribile” mi ha pulsato nella mente per tutto il tempo della lettura, cosicché questa è stata più che altro una corsa sfrenata verso l’ultima pagina per la grande curiosità.
Ora, come si sa io adoro le tragedie, solo che prediligo quando colpiscono gli esseri umani, anche perché ogni tanto se le meritano. Per gli animali mi dispiace già di più.
Il finale, poi, non è così “terribile”. È soltanto triste.
Il motivo per cui non voglio rivelarlo apertamente, dicevo, è semplice: io morivo di curiosità in proposito, ma avrei dato di matto se l’avessi scoperto prima di giungere a pagina 466, ovvero l’ultima. Non volevo leggere nemmeno una parola in proposito, volevo che arrivasse così come deve, al momento giusto.
Una cosa però posso dirla: in questo finale, lasciamo il gatto che ritrova la pace, e che rende grazie.
Beh, che altro dire? Adoro questo libro! Perché apre delle porte nella mente, fa vedere tante cose, che normalmente forse non si vedono, e ci mostra la vera natura dell’uomo.
Non ci sono eroi, nessuno arriva a salvare la situazione o fa quel che sarebbe giusto fare, ognuno conduce la sua vita, ognuno fa quel che vuole, quel che gli suggerisce la sua natura.
I personaggi di “Io sono un gatto” sono dei semplici esseri umani in carne e ossa, con la loro vita quotidiana, spesso strampalata, niente di più.
Perché poco importa se epoca e luogo sono diversi, in fin dei conti, di seriamente diverso c’è davvero poco: l’uomo è sempre sconclusionato, egocentrico, stupido, egoista, masochista e piagnone. Si vede che non ho alcuna fiducia nel genere umano?
Sarà per questo che prediligo quelle che io chiamo le streghe, ovvero quelle persone diverse dagli altri, che grazie a chiunque ci sia da ringraziare (direi queste stesse persone) hanno un cervello che funziona e non si uniformano alla massa, dalla quale non vengono viste di buon occhio.
E ovviamente, con le streghe, ci sono sempre i gatti.
L’unica cosa che mi ha lasciata un po’ perplessa è stato il commento de L’Espresso, riportato sulla copertina stessa del libro, dove si dice che il gatto protagonista sarebbe nero.
Insomma, leggere con attenzione e non sparare cavolate? Ah già, meglio seguire la lezione dello stesso gatto protagonista: l’uomo parla a vanvera.
Il bello è che più volte il micio fa presente di essere grigio e giallo. Che poi immagino che con “giallo” intenda beige.
Anche il mio gatto è grigio e beige :D :D:D:D
In conclusione, posso aggiungere che questo libro è stato pubblicato per la prima volta in Giappone nel 1905, ma la prima edizione italiana risale soltanto al 2006, della Neri Pozza.
Per finire, rendo grazie al gatto senza nome che conduce questa narrazione. Rendo grazie all’autore, morto nel 1916.

VIVA I GATTI!!

*lady in blue*

Imaginary (Origin)

Originariamente postato sul vecchio blog l'8 aprile 2013

Buongiorno, come andiamo? Qui niente novità per il momento, anche se spero di ricevere presto una certa telefonata per un altro lavoro, ma oramai non ci credo troppo. In ogni caso, come sempre, staremo a vedere.
Intanto passo di qui, dopo aver giocato un po’ con i temi del blog la scorsa settimana, trovando quello che ho inserito che mi piace un casino :D:D , per riprendere con Origin degli Evanescence.
Seguendo la tracklist, questa è la volta di presentare Imaginary, ovvero immaginario, anzi, immaginaria, considerando a che cosa si riferisce l’aggettivo nel testo.
Questo è un brano che mi piace molto, anche se a questa preferisco la versione riveduta e corretta che ci sarà poi nell’album Fallen, ma che non tratterrò in questo momento, perché presenta qualche differenza e spostamento di versi nel testo.
Il tema di questa canzone è la fuga dalla realtà, la necessità di evadere e di crearsi un proprio mondo dove rifugiarsi. La realtà, in questo testo, è vista come un incubo da rifuggire ed è solo in quel mondo immaginario, dove il cielo è viola ed esiste un campo di fiori di carta, ci si può sentire in pace.
Un testo che è facile collocare nella giovinezza di Amy, perché rispecchia molto la necessità di fuga di quell’età.. Ma poi, forse, questo è un aspetto che può tornare più volte nella vita, solo che, se durante l’adolescenza è anche più naturale accettarlo e persino parlarne, in età adulta è più personale e nascosto.
Imaginary, comunque, anche se nella versione di Fallen, è uno dei brani più vecchi ancora riproposto dalla band.

Ecco il link per ascoltarlo:



(Il link, nel caso il video sopra non funzionasse: https://www.youtube.com/watch?v=hUTX3ls5KVQ)

Qui, invece, il testo:

IMAGINARY (Origin Version) (IMMAGINARIA)


Swallowed up in the sound of my screaming (Inghiottita nel suono delle mie urla)
Cannot cease for the fear of silent nights (Non posso smettere per paura delle notti silenziose)
Oh how I long for the deep sleep dreaming (Oh, come anelo il profondo sonno sognante)
The goddess of imaginary light (La dea della luce immaginaria)

In my field of paper flowers (Nel mio campo di fiori di carta)
And candy clouds of lullaby (E nuvole a forma di caramella di ninnananna)
I lie inside myself for hours (Giaccio dentro di me per ore)
And watch my purple sky fly over me (E guardo il mio cielo viola volare sopra di me)

I linger in the doorway of alarm clock (Indugio all’ingresso della sveglia)
Screaming monsters calling my name (Mostri urlanti chiamano il mio nome)
Let me stay (Lasciatemi stare)
Where the wind will whisper to me (Dove il vento mi sussurrerà)
Where the raindrops (Dove le gocce di pioggia)
As they’re falling tell a story (Mentre cadono, raccontano una storia)

If you need to leave the world you live in (Se hai bisogno di lasciare il mondo in cui vivi)
Lay your head down and stay a while (Stendi la testa e aspetta un po’)
Though you may not remember dreaming (Anche se potresti non ricordare di sognare)
Something waits for you to breathe again (Qualcosa ti aspetta per respirare ancora)

In my field of paper flowers (Nel mio campo di fiori di carta)
And candy clouds of lullaby (E nuvole a forma di caramella di ninnananna)
I lie inside myself for hours (Giaccio dentro di me per ore)
And watch my purple sky fly over me (E guardo il mio cielo viola volare sopra di me)

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Un’altra versione di Imaginary è presente come terza traccia dell’Evanescence EP; il testo è uguale a questo, escludendo l’ultimo ritornello che in quest’ultima versione viene a mancare. La si può ascoltare qui :


(Il link, nel caso il video sopra non funzionasse: https://www.youtube.com/watch?v=aL17P2uNBZw)

A questa io preferisco comunque la versione di Origin.

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La prossima canzone contenuta in questo album è My Immortal, della quale però ho già parlato, per cui non tratterò nella prossima puntata, ma comunque, per chi volesse, questa è la versione contenuta in Origin dove, rispetto a quella già presentata, mancano l’intervento della band sul finale (presente solo nel video e non nella versione contenuta nell’album Fallen) e gli accordi orchestrali di violino. Quindi troviamo soltanto voce e pianoforte: http://www.youtube.com/watch?v=2-cKKP4weCI

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E per questa puntata di Origin direi proprio che ho concluso, nella prossima sarà la volta di Where will you go? e anche questo brano presenterà due versioni: una di Origin e una dell’Evanescence EP.
Quindi alla prossima :D

*lady in blue*

Cimici (A Luigi Carlo)

Originariamente postato sul vecchio blog il 27 marzo 2013

Oggi mi obbligo a essere qui ad aggiornare, anche se questo tributo è stato scritto all’inizio dell’ottobre scorso.
Non che c’entri qualcosa con questa data, ma come per lo scritto su Maria Teresa, ho deciso di postare quello sul fratello di quest’ultima, Luigi Carlo, il giorno dell’anniversario della nascita dello stesso. Perché non l’otto giugno, data di ricorrenza della morte? Onestamente non lo so nemmeno io, ma forse è perché questo testo non si riferisce a quel momento, e allora non avrebbe senso.
Non che si rifaccia al periodo della nascita del principe. Ma in giugno avrei solo potuto parlare della sua morte, e non della sua prigionia, non delle cimici. Forse è anche un po’ per creare il contrasto tra la nascita nello splendore e la morte avvenuta nelle più misere condizioni.
Questo tributo non ha come ambientazione un momento preciso; si colloca verso l’inizio del 1794, in pieno periodo di prigionia per il bambino che allora si trovava ad aver appena compiuto, o a star per compiere, i nove anni (come ho già detto, non ho precisato una data per lo svolgimento di questo scritto, quindi il mese di marzo potrebbe essere già trascorso esattamente come no). Arriverà ai dieci, ma forse per lui sarebbe stato meglio riuscire a morire prima.
Con questo testo non si vuol certo affermare che le condizioni di un bambino principe siano più importanti di quelle di chiunque altro, ma solamente indagare nelle mente di un personaggio che è passato alla storia; altri lo meriterebbero, certamente.
Ma lui non aveva colpa di nulla, quindi, dato che è possibile ricordarlo, perché non farlo?
In queste parole ci sono i ricordi concatenati a un presente dove il tempo non passa, non esiste. Si parla di una vita ormai ferma e che il bambino (ormai vecchio dentro e fuori per i mali che lo affliggono e che ha subito) desidera ricacciare indietro.
Il piccolo Luigi Carlo vuole solo morire, perché non sopporta più la sua condizione e non sopporta più i propri ricordi, anche se oramai vive di quelli.
Tutto quel che ho scritto a proposito di questo personaggio è stato ampliato da informazioni spiluccate (come per Maria Teresa) qui e là sul web.
Su di un documento che avevo trovato al riguardo era riportato che davvero il bambino aveva desiderio di morire durante la sua prigionia.
Non è un tributo lungo, ma è ciò che sono riuscita a esprimere al riguardo.
Buona lettura!

CIMICI

 

A Luigi Carlo (27 marzo 1785- 8 giugno 1795)



Primi mesi del 1794

Ce ne sono ovunque. Dappertutto. Le sento che mi camminano addosso, ma non ci faccio neanche tanto caso, non me ne curo. Quasi vorrei farlo, ma non posso: sono troppo stanco.

Fa freddo qui, è buio. Hanno chiuso tutto, non c’è che quella piccola fessura da cui qualche guardia mi passa il cibo; sempre bollito, zuppa, o legumi secchi. Ho sempre mangiato, anche se non mi perveniva mai niente di gradevole, ma sono due giorni ormai che lascio la scodella lì dove viene riposta dai miei carcerieri. Il fatto è che desidero morire, perché così non ce la faccio più.

Mi prude il collo. Mi prude la testa. Credo sia scabbia.

E ho dolore al petto quando respiro. A volte tossisco sangue. Per quale motivo dunque dovrei desiderare di continuare a vivere? Perché mai? Per ricordare ciò che dissi di mia madre e mia zia? Perché ora lo ricordo, che io sia dannato! Ora lo ricordo! Prima la mia mente era annebbiata: dal vino che mi facevano trangugiare e che in realtà detestavo, dalle percosse di Simon, dalla paura, e anche dalle parole sconce che mi mettevano in bocca e che io amavo ripetere. Perché sì, in fondo quello mi piaceva. Mi è sempre piaciuto ripetere ciò che sentivo dire. È sempre stato insito nella mia natura. Ed era eccitante, era l’unica cosa che mi togliesse dalla mente il terrore costante di essere battuto.

Era ciò che mi faceva dimenticare.

E così lo dissi: Possibile che queste benedette puttane non siano ancora state ghigliottinate? Dio, mi si accappona le pelle a pensarci, eppure so che quelle parole sono uscite dalla mia bocca, lo so; anche se preferirei non ricordarlo. E quanto mi acclamarono quel giorno Simon e gli altri: avevano raggiunto il loro scopo, mi avevano trasformato in ciò che volevano. In quel che non ero.

E poi c’è stata quell’accusa. So che non corrispondeva alla realtà: è vero che ho imparato a fare certe cose, ma da solo, buon Dio, non di certo perché avviato a queste pratiche da quelle due donne la cui figura ora è tanto nitida nella mia mente. Come a volermi far del male.

Ma qui non c’è altro che buio e freddo. E fetore. Nessuno viene mai a disinfettare o pulire questa cella, nessuno si cura di eliminare i miei bisogni; così, non ricordando nemmeno da quanto tempo io sia chiuso qui dentro, non posso far altro che lasciarmi andare al desiderio della morte.

Oh, Signore Onnipotente, verresti a prendere con te questo povero bambino? Saresti tanto clemente?

Sono sdraiato in questa culla. Lo so che c’è un letto più grande qui accanto, ma non ci voglio stare: perché è soltanto stando così rannicchiato che riesco a sentire meno dolore. E poi preferisco questo giaciglio troppo piccolo per me, troppo scomodo: perché in qualche modo, non so come, mi riporta con la mente indietro, a quando la mia infanzia era davvero tale, a quando non sentivo questo orribile tanfo, di cui io sono il responsabile, salirmi alle narici violentandomi il cervello.

Vagamente riesco a ricordare il principe che fui, forse, un tempo.

Riesco a ricordare bene i volti di coloro che ho amato di più, e dei quali sento una mancanza lacerante: mia madre, mio padre, mia zia, la mia povera sorella. La verità è che bramo soltanto un loro abbraccio. E il loro perdono.

Mio Dio, come mi si lacera il cuore quando ripenso al viso di Maria Teresa, mentre io mentivo dicendo che era vero, che nostra madre e nostra zia mi avevano iniziato a quegli atti osceni, tenendomi anche steso tra di loro. Che infame menzogna! Che infame fanciullo che sono stato!

Forse è per questo che non posso morire, sebbene lo desideri: devo scontare fino all’ultima goccia il dolore di ciò che dissi. Perché è stata tutta colpa mia: non dovevo lasciare che il vino offuscasse le mie percezioni, non dovevo farmi corrompere dai giochi e dall’esaltazione della mia pigrizia che Simon metteva in pratica, e soprattutto … avrei dovuto sopportare le percosse; fino alla fine, fino alla morte. A quel punto sarei stato in pace.

Ma ora rimangono solo le cimici. Sento il frullare raccapricciante delle loro ali, le loro zampe mi corrono tra i vestiti, sulla pelle, come un’eterna condanna a non essere mai libero. Una condanna a continuare a ricordare.

Mi gratto freneticamente il collo; sento la pelle che si lacera sotto le mie unghie troppo lunghe, fa male da morire.

Ma non tirerò mai quel campanello, oh no! Non l’ho mai fatto da quando sono qui, e non lo farò fino a quando non sarò morto, perché sopporterò il freddo, il buio, la paura, il dolore e le cimici senza fiatare, piuttosto che piegarmi a supplicare.

Di piangere non sono più in grado da molto tempo, ormai, ma non voglio nemmeno dover chiedere aiuto. Quindi me ne resto qui, con le ginocchia al petto, invaso dalla mia sporcizia e dal mio male di vivere. Circondato dalle cimici che ormai fanno parte di quel brandello di vita che mi è lasciato da conservare; quel brandello che mai e poi mai sarei in grado di rammendare.

Forse saprebbe farlo mia sorella; lei è sempre stata più forte, e anche molto meno pigra di me.

Lei mi manca; come tutti gli altri.

Come mio padre; quel grande uomo che nel mio cuore chiamo ancora il re.

Di quando in quando, mentre sono in procinto di assopirmi cullato dal ronzio degli insetti che ormai mi fa da ninnananna, mi capita di sentire la sua voce, di udire l’ultima frase che mi rivolse: con orgoglio e fermezza, senza per questo omettere l’amore infinito che ha sempre provato per me e per mia sorella, mi disse che mai e poi mai avrei dovuto tentare di vendicare la sua morte. Avrei dovuto perdonare coloro che l’avevano condannato a quella fine tanto indegna per un re.

In quei momenti sento me stesso piangere come feci allora, come ora non sono più in grado di fare.

Mi sento dire tra i singhiozzi che lo giuro. In effetti, ho perdonato.

Se mio padre è stato in grado di farlo, chi sono io per comportarmi diversamente? Lui che era saggio e sapeva che cosa fosse giusto. Lui che mi ha istruito e consigliato fino alla fine.

Chissà se anche mia madre, mia zia e Maria Teresa hanno perdonato? Credo di sì, perché sono sempre state buone di cuore e nobili d’animo.

Vorrei che potessero apprendere quanto mi mancano; le dolci donne della mia vita.

Ma oramai il passato non è altro che un petalo di rosa perso nel vento: non si dissolve, non lo farà, ma si allontana. Si allontana. E si perde. Si fa irraggiungibile. Così come gli affetti.

Ah, il vento, l’aria! Quasi credo di non ricordarli, qui al chiuso. Il sole, il cielo, la pioggia, quegli splendidi fiori che amavo donare alla Regina mia madre. Che nostalgia!

Dov’è finito adesso quel mondo? Quel mondo splendido.

È tutto perduto, per sempre, tra le braccia del nulla a cui sento di aver contribuito; sarebbe stato meglio se mi fossi lasciato inghiottire, da quello stesso nulla, invece l’ho assecondato.

Smetto di grattarmi il collo per stringermi forte le ginocchia al petto con le braccia: quanto freddo che fa qui! In che mese mi trovo? In che anno? Ahimè, non esiste più il tempo, non qui.

Qui ci sono solo le cimici a scandire i secondi.

E tutti gli altri parassiti che condividono con me lo stesso piccolo, sudicio, repellente materasso.

Non saprei dire se sia estate o inverno, non ne ho cognizione; e il gelo che avverto poco mi aiuta a farmi un’idea in proposito: penso non cambierebbe nulla, nemmeno se fosse un caldo luglio e fuori splendesse il sole di un Febo raggiante. Perché qui dentro, dove sono io, non cambiano mai le stagioni, i giorni non passano, e nemmeno i mesi o gli anni. Qui dentro, dove sono io, è sempre lo stesso giorno che si ripete. O forse, sempre la stessa notte.

Ma non so se importa realmente, forse non più ormai.

Di tanto in tanto mi pare di sentire il tanfo della mia prigione che si dilegua per qualche istante, per permettermi di sentire l’odore non molto invitate, ma sicuramente meno pungente e nauseante, che proviene dalla scodella posta davanti a quella fessura, dove l’hanno lasciata da un tempo ormai indefinito. Eppure non sento la pulsione di alzarmi per raggiungerla.

Non voglio cibo, non voglio nutrirmi.

Non si può dar da mangiare a chi è già morto dentro. Non lo si può riportare in vita.

Io posso solo restare con i miei ricordi, o con la nebbia che a volte essi formano; perché si concatenano tra loro, si uniscono, si fondono. E mi aggrediscono; sono dolci ricordi, dolci pensieri, la rimembranza di dolci momenti in cui l’aria ancora non era proibita, e mi assediano incatenandomi a loro. Ed è con loro che voglio restare; non voglio alzarmi (anche perché mi provoca troppo dolore, non credo che le mie povere gambe potrebbero sorreggermi), non voglio mangiare. Non voglio più esistere.

Voglio soltanto ricondurre a me il sorriso e l’abbraccio di mia madre, che mi manca infinitamente, e di tutti coloro che ho amato.

Qualche volta, quando dormo e sogno, rivedo Versailles. Rivedo me bambino, come ora non sono più, perché adesso sono un nulla. Forse non più che una disgustosa cimice a mia volta.

Ma in quei sogni di cimici non ne esistono; no, esiste soltanto la pace della vita che fiorisce.

In alcuni casi, insieme al resto della mia famiglia, mi appaiono le fattezze del mio defunto fratello maggiore, che fu Delfino prima di me, che ho amato e che tanto fatico a ricordare quando sono sveglio. Nei sogni, invece, il suo volto è così nitido e vivo da poterlo scorgere poi anche se chiudo gli occhi. Lui mi sorride, il mio caro Luigi Giuseppe, mi sorride anche se soffre per via della sua malattia, anche se sta male e la sua schiena si incurva. Mi sorride e mi prende la mano.

Non parla mai, ma io non voglio che lo faccia. Sono così sereno quando vedo il suo sorriso, che vorrei restare lì per sempre.

E poi, in ogni sogno, porto alla Regina mia madre decine e decine di fiori; infiniti fiori, perché la amo tanto teneramente e voglio che lei lo sappia. Voglio che mi perdoni.

Ma purtroppo, quando la realtà obbliga quella pace onirica a disfarsi in semplice foschia, il suo viso si perde a sua volta nella nebbia, fino a quando non torna a mostrarsi tanto marcato nella mia mente come ora, come quando temo che non potrà mai perdonarmi.

In altri momenti, nel dormiveglia, ciò che sento sono i singhiozzi di mia sorella; so che sono quelli del giorno della morte di nostro padre, che ella tanto amava.

Sento come se le sue lacrime mi cadessero in volto, sono sicuro di percepire la loro fragile umidità lacerata dal dolore. Le avverto come le gocce di quella pioggia che non mi sarà mai più consentito di sentire sulla pelle. Quella pioggia che qui, tra le cimici, non avrà mai motivo d’esistere.

E allora che cosa mi rimane da fare, se non starmene qui ad affondare nella mia sporcizia e nel mio dolore, attendendo soltanto che la morte mi colga con la sua benevolenza?

È così doloroso ricordare, eppure è l’unica cosa che io oramai sia in grado di fare; l’unica cosa che voglia, se proprio la vita ancora non vuole abbandonarmi.

Perché voglio tenere con me la mia famiglia fino all’ultimo istante, anche se non potrò ricevere da ognuno dei suoi membri un ultimo addio, un ultimo abbraccio, un ultimo bacio.

Chiudo gli occhi lasciandomi alle spalle il buio infinito di questo luogo dove non esistono che muri e limiti, e mentre riprendo a grattarmi il collo con furia per l’eccessivo prurito, cerco di concentrarmi a fondo sul volto di mio padre; voglio immaginare che stia tendendo le mani verso di me, dall’alto, e che sia in procinto di prendermi con sé.

Non voglio essere il re, padre mio. Non voglio, non posso. Voglio solo raggiungervi. Desidero ardentemente che i miei occhi non riescano più a tornare ad aprirsi, così come lo brama un vecchio che voglia smettere di soffrire nel suo letto di morte.

Perché, in fondo, che cosa sono io, oramai, se non un povero vecchio infermo nel corpo di un bambino? Posseggo davvero, ancora, la fisionomia di un fanciullo? Anche mia madre, nei miei ricordi del nostro ultimo periodo insieme, appare tanto più vecchia di quanto fosse in realtà.

I suoi capelli grigi, il suo viso sciupato, quelle rughe. Lo ricordo, sì, è tutto chiaro.

Forse anche a me è toccata la stessa sorte, credo che capiti quando si è chiusi in un luogo in cui non esiste il tempo: perché esso si concentra con forza sulla pelle del recluso e lo riduce al suo schiavo.

Eppure il tempo non passa in una cella, non passa mai. Non esiste. Però ci si fa vecchi in fretta.

E se io sono solo un vecchio, allora spero che il Signore non indugi, e abbia presto pietà di me; del povero vecchio malato. Del vecchio-bambino.

Di colui che un tempo fu il Delfino di Francia. Un tempo. Quando il tempo esisteva ancora.

Ora, qui nel nulla che mi appartiene, ho solo da restarmene rannicchiato nella mia piccola culla fingendo di essere un bebè.

A ricordare quel che fu e che oramai si è dissolto nell’aria che qui dentro non si respira.

A grattarmi lì dove mi affligge la scabbia.

A pregare perché la mia famiglia abbia perdonato le infamie che ho gettato loro addosso.

A ricondurre a me il calore perduto della mia famiglia.

A sognare un abbraccio di mia sorella. E un sorriso di mia madre ai fiori che vorrei donarle.

A immaginare le braccia di mio padre, lui che ormai è con Dio, che si tendono verso di me, per alleviare finalmente le mie pene nell’eterna e silenziosa beatitudine del sonno senza tempo.

Perché di tempo qui dentro non ne esiste più.

Niente orologi. Niente minuti, ore, giorni, mesi o anni.

Qui esistono solo le cimici. Fa freddo. È buio. C’è fetore. Ho paura.

E voglio dimenticare l’inferno che ho vissuto.

E voglio morire, anche se parleranno di me come il principe non più tale, che spirò su un lenzuolo fatto di orribili insetti verdi.

Voglio morire lo stesso, anche se tra le cimici.

Così avrò espiato il peccato scaturito dalle parole che dissi.

Ora non mi resta che chiudere gli occhi e attendere, continuando a vedere dietro le palpebre abbassate, i volti amati che spero mi accompagneranno fino all’ultimo rintocco.

Loro, invece, le cimici, sono ancora qui. E sono ovunque. Sono su di me.

Questo è ciò che resta dell’ormai perduto principe.

1 ottobre 2012

*lady in blue*