world of darkness

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lunedì 30 settembre 2013

Even in death (Origin)

Ciao!!
Sono qui di nuovo. Sì, ho deciso che può essere una bella idea mettersi ad aggiornare dal lavoro, dettagli. Tanto perché è molto divertente trascorrere l'unica mattina semi-libera in settimana a fare le cosine leggerissimamente lunghe, pazienza.
Per il resto, come andiamo? Per quanto mi riguarda è meglio che lasciamo perdere, dato che le pulsioni omicide sono sempre tanto ma tanto graziose :D Sul serio, c'è gente qui che brama la morte con tutte le sue infinite idiozie, e questa gente, guarda che caso, risponde al nome de "il mio principale".
Stranissimo proprio.
Va beh, meglio non pensarci.
A proposito di morte, però, sarà il caso di riprendere i cari Evanescence. Con un po' di fortuna potrei finire di trattare il primo album prima del secolo prossimo :)

Siamo finalmente arrivati alle settima traccia, Even in death, cioè, Anche nella morte. Già il titolo è un bel programma. E' un brano che all'inizio non mi piaceva quasi per niente, ma che attraverso i ripetuti ascolti è diventato uno di quelli che preferisco di quest'album.
Dai toni molto dark, parla di un amore perduto (attraverso la morte, per l'appunto) che non si abbandona e che anzi, si continua a tenere stretto a sé, come se non fosse mai andato via.
Questa è la prima traccia che fa parte della serie da me chiamata delle canzoni ossessive. L'ossessione è un tema che, da ciò che è potuto vedere (anzi, sentire), è parecchio ricorrente nelle creazioni di questo gruppo.
Un'ossessione che si sente molto nelle parole di questa canzone. Comicamente mi ricorda un po' Pet Sematary di King, quando il protagonista impazzisce e crede che sia il caso di far resuscitare prima il figlio e poi la moglie morti seppellendoli nel cimitero maledetto. Ok, forse è un pensiero poco poco insano, ma veramente mi ci fa pensare.
Sembra quasi che la protagonista di questo brano creda che resuscitare sia possibile, anche se più seriamente mi dà l'idea di un rifiuto categorico del lutto.
Va beh, a parte tutte ste cavolate... di questa canzone ho beccato una bella riproduzione live. A quanto ho capito è stata l'unica traccia di Origin a essere riproposta in qualche concerto ufficiale, quindi per quelli avvenuti dopo la pubblicazione di Fallen. Penso però che la cosina non sia durata molto.
Comunque sia, qui la si può vedere/ascoltare:




(Il link, nel caso il video sopra non funzionasse: https://www.youtube.com/watch?v=W2MoOK0oLyY)

Questa è una delle poche esibizioni dal vivo in cui alla chitarra troviamo ancora l'amico Ben Moody (quello biondo).
Nella versione live è esclusa l'ultima frase della canzone, che in quella in studio sarebbe parlata, anzi, quasi sussurrata.
Un'ultima cavolata a proposito di questo video: adoro i pantaloni di Amy :D

Ecco invece il testo con la solita traduzione made by lady in blue:

EVEN IN DEATH (ANCHE NELLA MORTE)


Give me a reason to believe (Dammi una ragione per credere)
That you're gone (Che tu te ne sia andato)
I see your shadow (Vedo la tua ombra)
So I know they're all wrong (Così so che tutti loro si sbagliano)
Moonlight on the soft brown earth (Il chiaro di luna sulla morbida terra marrone)
It leads me to where you lay (Mi guida dove tu giaci)
They took you away from me (Loro ti hanno portato via da me)
But now I'm taking you home (Ma ora io ti sto portando a casa)

I will stay forever here with you (Starò per sempre qui con te)
My love (Amore mio)
The softly spoken words you gave me (Le parole che mi hai detto dolcemente)
Even in death our love goes on (Anche nella morte il nostro amore continua)
And I cant' love you (E non posso amarti)
Anymore than I do (Più di quanto non faccia già)

Some say I'm crazy for my love (Alcuni dicono che sono pazza per il mio amore)
Oh, my love (Oh, amore mio)
But no bonds can hold me (Ma nessuna catena può trattenermi) 
From your side (Da starti accanto)
Oh, my love (Oh, amore mio)
They don't know you can't leave me (Loro non sanno che non puoi lasciarmi)
They don't hear you singing to me (Lono non ti sentono cantarmi)

I will stay forever here with you (Starò per sempre qui con te)
My love (Amore mio)
The softly spoken words you gave me (Le parole che mi hai detto dolcemente)
Even in death our love goes on (Anche nella morte il nostro amore continua)
And I cant' love you (E non posso amarti)
Anymore than I do (Più di quanto non faccia già)

And I cant' love you (E non posso amarti)
Anymore than I do (Più di quanto non faccia già)

I will stay forever here with you (Starò per sempre qui con te)
My love (Amore mio)
The softly spoken words you gave me (Le parole che mi hai detto dolcemente)
Even in death our love goes on (Anche nella morte il nostro amore continua)
And I cant' love you (E non posso amarti)
Anymore than I do (Più di quanto non faccia già)

People die but real love is forever (La gente muore, ma il vero amore è per sempre)

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lady in blue

domenica 15 settembre 2013

Cronaca di un suicidio (momenti non consecutivi)

Ciao!!
Questa volta ho deciso di postare una cosa che ho scritto da poco. Per una volta, direi, visto che non capita mai. Sarebbe una specie di racconto, ma non proprio.
A dire la verità non so nemmeno io cosa sia, e la cosa inquietante è che ci ho messo circa un mese per concluderlo, benché sia abbastanza corto. Ma dopo averlo iniziato, il tempo e, soprattutto, l'ispirazione per andare avanti, sono completamente mancati.
Se non altro poi sono riuscita a concluderlo, e questo, al momento, è una specie di miracolo.
E' un testo un po' particolare, difficile dire da dove esattamente sia nata l'ispirazione. Forse solo da momenti non facili. Come si può intuire dal titolo, l'argomento non è certo allegro, ma in questo senso temo non ci sia speranza, con me :)
Un suicidio, in fin dei conti, nient'altro, ma i momenti che lo costituiscono (considerando anche quelli che hanno portato la protagonista a prendere questa decisione) sono posti alla rinfusa. Si salta da un momento all'altro senza un ordine sensato, forse per dare l'idea della confusione. E' un testo a cui tengo, anche se forse potrebbe apparire un po' noioso, non saprei.
Ma tant'è, è questo. Parla di una ragazza debole, triste, sicuramente egoista, ma soprattutto sola.
Mi farà piacere se qualcuno volesse darci un'occhiata, comunque sia.
Per il titolo della storia e per quelli dei vari momenti teoricamente avrei usato il carattere del logo degli Evanescence perché mi sembrava piuttosto appropriato, ma purtroppo sul blog non viene visualizzato. Comunque anche l'immagine che allego mi sembra appropriata; forse non c'entrerà molto con lo scritto in sé, ma credo evochi molto bene il concetto di solitudine.
 
**
 
 
 



CRONACA DI UN SUICIDIO

(momenti non consecutivi)

 


I lay dying and I'm pouring
crimson regret and betrayl
(1)
 
 

MOMENTO NUMERO UNO: Non si torna indietro


Il metodo.
Quella era l’unica cosa che ancora le restasse da definire, l’unica per cui avesse continuato ad attendere. Era una scelta importante, da non lasciare assolutamente al caso.
I motivi li aveva tutti elencati dentro di sé, posti uno dopo l’altro in bella scrittura nel suo cuore, e non le restava altro da decidere se non come farla finita.
E quella mattina d’inverno aveva finalmente deciso.
Niente pillole, niente corda attorno al collo, niente binari del treno.
Ci voleva qualcosa di più, sia per se stessa che per gli altri, perché anche loro capissero da dove fosse nato tutto quel dolore. Un dolore che da tempo ormai le scorreva nel sangue.
Sorrise quando concepì qual era la maniera giusta di andarsene.
Nemmeno per un istante pensò a che cosa l’aspettasse dall’altra parte; l’aveva fatto quando il pensiero aveva accarezzato la sua solitudine per la prima volta, ma quel giorno non fu così.
Perché non c’era più niente a cui pensare, se non a smettere finalmente di soffrire.
Lentamente si alzò dalla sedia dove si era posta ore prima per pensare e guardare il nuvoloso cielo d’inverno che, imperturbabile, si stagliava fuori dalla sua finestra e, altrettanto lentamente, aprì quel cassetto. Non poteva permettersi di fare le cose di fretta, non ne aveva nemmeno motivo.
La disperazione in lei era così radicata, così profonda, che non aveva bisogno di manifestarsi in un’esplosione. Quei suoi gesti semplici, ponderati, erano l’espressione del nero totale che ormai viveva in lei.
La mano non le tremava quando, dal cassetto, estrasse il taglierino. Se lo portò davanti agli occhi e con il dito fece scorrere la leva che sollevò la lama; la osservò, ma questa volta non sorrise.
Perché era la cosa giusta da fare, oramai che non le restava niente, ma in fondo era un peccato; perché forse dalla sua vita avrebbe potuto aspettarsi qualcosa di più, qualcosa di buono, forse avrebbe potuto non farla finita, se non fosse stata lasciata da sola.
A quel punto, prima la desolazione, poi la tristezza, a seguire la disperazione, per sfociare nella depressione, erano state le sue uniche compagne. Le uniche amiche. Le uniche che mai l’avessero compresa fino in fondo. E oramai non era più tempo per i rimpianti, né per rifugiarsi in un mondo oscuro che non le apparteneva.
Con il taglierino stretto nel pungo tornò davanti alla finestra; piano scostò la tenda e guardò fuori.
Il viale dei cipressi era così buio; come un lungo corridoio che conduca alla fine di tutto.
Era lì che ci aveva pensato; era stato tra quelle due lunghe file di alti alberi a sentire quella voce sussurrata al suo orecchio. Quella che le diceva che un modo c’era, ed era quello di smettere di vagare a vuoto. Bastava fermarsi.
Fermarsi per sempre.
Inspirò profondamente: l’ultimo respiro profondo della sua vita. Chiuse gli occhi per un istante, ma non pensò mai a tornare indietro.
La morte sussurrava al suo orecchio perché le si dirigesse incontro, e lei ascoltò la sua chiamata.
Con passo lento, calmo, sicuro e rassegnato, si avviò a piedi nudi verso il bagno.
Quel sussurro dentro di lei cresceva, impedendole di pensare ad altro.
Era vero che forse un tempo avrebbe potuto salvarsi, avrebbe potuto sperare, ma dopo tutti quegli anni non sopportava più di essere sola.
Giunta di fronte allo specchio osservò la sua immagine riflessa, ma guardando più in profondità, non vide niente che non fosse il segreto del suo dolore.
Seppe improvvisamente che fuori aveva cominciato a piovere, anche se non ne avvertiva il suono, anche se non poteva vedere le gocce che correvano verso terra.
Pensò al viale dei cipressi che veniva investito dalla pioggia e immaginò di trovarsi lungo quel buio corridoio d’alberi sempreverdi, e di percorrerlo fin dove non esisteva più nulla se non il buio e il freddo della morte.
Nella mente iniziò a camminare.
Davanti allo specchio, tese il polso e vi avvicinò il taglierino. (2)
 

MOMENTO NUMERO DUE: Rimorsi



La ragazza con l’espressione cupa negli occhi si sedette accanto a quella che teneva in mano una copia del quotidiano. Il vento d’inverno ne muoveva le pagine, aiutato dalla sua mano tremante.
Entrambe tenevano lo sguardo basso, come a voler nascondere la vergogna, e sospirarono, come a volerla legare a sé.
La prima ragazza passò il giornale all’amica, aperto su quella pagina.
Non c’era nemmeno una sua foto, nessuna immagine di lei. Solo quelle fredde parole che ne decretavano la fine; più un breve stralcio della sua lettera d’addio.
La solitudine mi opprime, sento di non essere più niente. Voglio andarmene. Voglio morire.
<<Sai qual è la verità?>> iniziò la ragazza che aveva appena lasciato andare il quotidiano. La sua voce era spenta e tremante, ma dentro sembrava nascondere una rabbia profonda, rivolta contro se stessa, e contro l’amica che le sedeva accanto.
<<Fino a oggi io non ho più pensato a lei, nemmeno per un attimo>> terminò.
Era la prima volta che sentiva di essere tanto sincera con se stessa, forse mai nella sua vita lo era stata in quel modo. Ma fingere non avrebbe più avuto alcun senso.
<<Nemmeno io>> le fece eco l’altra.
<<E non te ne vergogni? Io sì, da morire>> e detto questo, la ragazza si nascose il viso tra le mani.
L’altra non le rispose. Era troppo difficile sciogliere il macigno che le gravava sul petto e che impediva alle parole di seguire la loro naturale via verso l’esterno.
<<La verità>> riprese colei che riusciva a parlare <<è che abbiamo fatto solo ciò che era più comodo per noi>>.
Si alzò in piedi; la furia iniziava a trapelare e a non poter più essere contenuta.
Si pose di fronte all’amica e strinse i pugni nel tentativo di trattenerla ancora un po’ dentro di sé.
<<In quel momento avevamo altro a cui pensare, non avevamo voglia di star dietro a lei e ai suoi problemi. Lei era un peso per noi>> ruggì.
L’amica la osservò per un attimo, poi abbassò di nuovo lo sguardo, immagazzinando una a una quelle parole che raffiguravano la triste realtà. Una realtà che non portava a niente, perché il passato non può essere cambiato, e piangerci su contava davvero poco.
<<L’abbiamo lasciata sola, del suo dolore non ci importava nulla>>.
Iniziando a piangere, la prima ragazza tornò a sedersi accanto all’altra e si strinse nelle braccia.
<<È stato più facile per noi, anche se ci dicevamo sue amiche>> sussurrò. E fu un sussurro che come una nuvola di vapore si dissolse nel vento senza lasciare traccia.
<<D’ora in poi dovremo vivere nel rimorso di ciò che le abbiamo fatto>>.
Voglio andarmene. Voglio morire.
Anche l’amica aveva ormai iniziato a piangere, anche se le lacrime niente hanno il potere di cancellare. I rimorsi in loro avrebbero pesato come macigni finché non fossero state sufficientemente deboli da liberarsene; così come, anni prima, si erano liberate di lei.
Perché a lei, non avevano alcuna voglia di pensare, anche se era palese che avrebbe avuto bisogno di loro, del loro aiuto e della loro amicizia. L’amicizia che ostentavano.
Non era mai stata reale.
Lei che era così noiosa e che pesava sulle loro menti desiderose di evadere, ma che, a conti fatti, per loro era sempre stata lì.
Ma quando era arrivato il momento di contraccambiare, loro le avevano voltato le spalle; e non avevano avuto bisogno di pensarci su, era avvenuto naturalmente.
Perché era questo che a loro, la vecchia amica, aveva sempre ispirato: il disinteresse, anche se spesso l’avevano celato. In quel momento invece esistevano soltanto le lacrime.
Lacrime sprecate, che forse, un tempo, avrebbero potuto essere utilizzate perché l’inchiostro mai avesse dato forma a quelle terribili parole: Voglio andarmene. Voglio morire.
Erano state loro a condurla a quella disperazione, tramite il loro ricordo. Perché non avevano più pensato a lei, nemmeno per un istante, ma lei aveva continuato a ricordarle e a rimpiangerle.
L’avevano condotta per mano tra le braccia della morte e ora, non restava loro altro da fare se non appropriarsi del vuoto che avevano provocato, e versarci sopra fiumi di dolore fresco e straziante, che nasceva solo in quel momento. Per lei.
Ma a lei, avrebbero dovuto pensare prima, quando ancora si dicevano sue amiche.
 

MOMENTO NUMERO TRE: I cipressi e la solitudine

 

Camminare per quel viale alberato era come muovere i passi in un sogno. Uno strano e malinconico sogno a occhi aperti.
Era sola quel giorno d'autunno, così come avveniva da anni a quella parte, ormai. I cipressi, però, continuavano a vivere. Ricordava di averli visti da sempre dalle finestre di casa; non erano mai cambiati, ed erano sempre stati lì.
Possedevano quelle qualità che alle sue amiche di un tempo parevano proprio essere mancate. Ma non si può conferire personalità a un albero, né desiderare di somigliarvi.
Camminava lentamente lungo la via costeggiata da un lato e dall'altro dai sempreverdi, e cercava di riordinare i pensieri; e di trovare una soluzione perché quel senso infinito di vuoto in lei cessasse. Doveva esserci qualcosa da fare, qualcosa per rimediare.
I tasselli che costituivano il mosaico del suo equilibrio interiore erano tutti sparsi e alla rinfusa dentro di lei, senza una parvenza d'ordine.
Voleva provare a rimetterli ciascuno al proprio posto, di modo da ritrovarsi.
Doveva farlo, perché sentiva di essersi persa da tanto tempo. Chi era, oramai? A che cosa poteva servire? Quale poteva essere il suo futuro? Esisteva ancora qualcosa da definire tale? Avvertiva il bisogno di rispondersi a queste domande per ritrovare il suo posto in quel mondo che sembrava non appartenerle più. Un mondo che aveva continuato a muoversi, mentre lei era rimasta indietro, bloccata da se stessa e da ricordi lontani.
Il vento frusciava dolcemente tra gli aghi dei cipressi, come una voce soave che inciti a proseguire per la propria strada, e nei propri pensieri.
Lei l'assecondò.
Camminava con le gambe lungo il viale; camminava con la mente lungo quel sentiero tortuoso dentro di sé che oramai disconosceva.
Ne aveva sempre avuto timore, ma era giunto il momento di addentrarvisi in profondità, lì dove nessun altro avrebbe avuto accesso.
Si sentiva triste, davvero molto triste. Come tante altre volte le venne voglia di piangere, ma la trattenne in sé come a non volerla lasciare andar via.
Quello non era il momento per le lacrime, ne aveva già versate troppe. Non poteva più lasciarsi andare a quel sentimento logorante, era giunto il tempo di affrontarlo e stare a guardare chi tra i due avrebbe vinto.
Ma da che cosa nasceva quella tristezza infinita? Perché sentiva tutto quel desiderio di abbandonare le sue lacrime al viale dei cipressi? Forse il problema era lei stessa, che non era in grado di vivere come tutti gli altri. Lei, che sapeva soltanto scappare quando c'era da fermarsi, e fermarsi quando c'era da proseguire.
Forse, ma doveva esserci dell'altro, perché con quella spiegazione restava tutto troppo semplice. E lei sentiva che non era tutto lì, lo avvertiva chiaramente.
La difficoltà di accettarsi era sempre stata insita in lei, ma che cosa l'aveva accresciuta? Che cosa l'aveva condotta all'estremo? Fino a non poter più andare avanti.
La risposta, da dentro, nacque naturale. Fu come lava incandescente che lotta furiosamente per risalire in superficie. E le bruciò dentro nel formularla: la solitudine. Da quanto tempo ormai era sempre sola? Quando aveva iniziato a sentirsi così male e vuota? Perché loro non c’erano più?
Doveva essere avvenuto per colpa sua, si era ripetuta più volte, pensando a loro; lei che era troppo noiosa e troppo pesante. Lei che pretendeva troppo.
Ma era davvero pretendere troppo il desiderio di averle vicine come vere amiche? Ricordava come le avevano voltato le spalle, e lei si era sentita morire.
Continuava a camminare, a passi sempre più veloci, con le gambe sul viale dei cipressi e nella mente lungo il sentiero tortuoso e buio che le aveva sempre fatto paura.
Improvvisamente tutto sparì, tranne il rumore dei suoi passi; un suono sempre più forte, che però aiutava a pensare. Perché era come se, tutto a un tratto, sapesse esattamente dove dirigersi.
Il buio nella mente non importava più, ora esisteva un odore a guidarla: quello avvolgente e intenso dell’oscurità quando questa sguinzaglia il suo richiamo.
E lei lo seguì, ovunque l’avrebbe condotta.
Se non esisteva più niente al di fuori della solitudine, si disse, perché mai avrebbe dovuto continuare ad andare avanti? Le tenebre parevano così invitanti, perché non addentrarvisi in profondità? Nessuno l’avrebbe cercata. Nessuno l’avrebbe rimpianta. Anche se un po’ l’avrebbe sperato. Perché quando di te non resta più niente se non un’ombra destinata a perdersi allo scadere del giorno, improvvisamente tutti si ricordano di te, di chi eri, e forse riescono anche a rimpiangerti.
Quelli, però, forse erano soltanto sogni. Sogni irritanti, ma che comunque voleva tenere stretti a sé.
Forse però non era più tempo di pensare agli altri, neanche in quel senso. E la forma massima dell’egoismo si manifesta nel concedersi la fine. Oh, quanto sarebbe stato bello smettere di soffrire. Finalmente. Avrebbe potuto respirare di nuovo, anche se senza fiato concreto. 
Nel pensarlo si sentì diventare sempre più piccola nell’infinita immensità della strada buia che la sua mente percorreva. Ma percepì anche di distendere le labbra in un sorriso. Non provò gioia, ma un po’ di beatitudine, una sorta di liberazione da un grosso peso.
Ne avrebbe avuto il coraggio? Sì, di certo, perché dopo aver provato infinite volte a scavalcare quel muro troppo alto che si trovava di fronte e le sbarrava la via, ormai si era arresa. Non sapeva in che modo avrebbe compiuto quel gesto, ma che dovesse fermarsi era sicura.
Non c’era più niente da fare.
Nel pensare ciò, il sorriso svanì improvvisamente dalle sue labbra; abbandonò l’oscurità e tornò con il corpo e con la mente al viale dei cipressi.
Loro erano ancora lì. L’avevano attesa nel loro maestoso silenzio e sembravano ricordarle l’altezza che non poteva scalare; non più, e non da sola. Ma oramai, la solitudine per lei era un dato di fatto.
Era vero che farla finita fosse l’unica cosa da fare. L’unica opzione possibile. Non aveva più altre vie da percorrere.
Si fermò per qualche istante nel chiedersi che cosa l’avrebbe aspettata dall’altra parte. Osservò le cime dei cipressi per trovare una risposta rassicurante e lasciò che il vento sussurrasse.
Lisci capelli castani gettati in avanti dall’aria autunnale.
Semplici fruscii al suo udito, ma qualcosa sentì ugualmente.
Perché non importava realmente che cosa l’avrebbe aspettata una volta che si fosse addentrata nella morte. Qualcosa doveva esserci, fosse anche il nulla. E forse, da lì, avrebbe potuto ricominciare.
O forse no, perché quando ci si allontana dalla vita, finisce tutto. E a lei sarebbe andata bene in ogni caso.
Perché lei non viveva più.
Erano anni ormai che camminava a vuoto. Era arrivato il momento di fermarsi, ma non subito. Avrebbe fatto tutto con calma, ragionando su ogni particolare: sentiva di averne parecchio di tempo da lasciar scivolare.
Fece dietrofront, e riprese a muoversi, questa volta verso casa.
I cipressi del lungo viale sigillarono la sua decisione tra le loro ombre e chiusero a chiave.

 

MOMENTO NUMERO QUATTRO: Gocce

 
Gocce d’acqua, una dopo l’altra, cadono dal rubinetto alla superficie del lavandino.
Rivoli di sangue scivolano dal suo polso lungo il braccio e, in grosse gocce, si infrangono lì dove cola anche l’acqua; e si scolorano.
Fuori, gocce di pioggia sempre più violente.
Non ha paura di osservare quelle onde cremisi che fluiscono decretando la fine; la fine di un incubo, la fine della solitudine. Non era così che dovevano andare le cose, ma è accaduto ugualmente.
Niente favole in un mondo fatto di gocce di sangue e pioggia.
Gocce di sale dai suoi occhi, mentre per l’ultima volta osserva lo specchio; meglio cancellare quel che riflette, meglio non vederlo mai più.
Ancora un attimo, poi le forze l’abbandonano e lei cade a terra esanime e definitivamente sconfitta.
È tutto nero, anche se permane un flebile respiro.
Sente il suono delle gocce d’acqua che cadono nel lavandino; lo sente amplificato.
Sente anche le gocce di pioggia che invadono l’esterno e, in particolare, il viale dei cipressi.
Sente gocciolare anche il taglierino, che ha abbandonato sul ripiano sotto lo specchio, dopo averlo usato per tagliare.
Suono di gocce che si infrangono: come una ninnananna che concili il sonno eterno.

 

MOMENTO NUMERO CINQUE: Ultimi attimi di lei



Mi dispiace, mi dispiace davvero. Non so nemmeno a chi indirizzare questa lettera e forse è questo che mi fa più paura, che mi convince di aver preso la decisione giusta. Non perché lo voglia sul serio, ma perché è l’unica alternativa che mi rimanga.
Chissà, forse è colpa mia, che non sono capace di lottare e, soprattutto, non sono in grado di farmi amare. Ma la solitudine mi opprime, sento di non essere più niente. Voglio andarmene. Voglio morire.
È l’unica soluzione per non sentire più questo dolore, questa rabbia verso chi mi ha abbandonata, ma anche questo senso di colpa opprimente. Se fossi stata diversa, se solo fossi stata diversa. Forse mi avreste amata.
Ma non lo so, non è dato saperlo. E forse non era nemmeno giusto: voler bene significa restarsi accanto, qualunque cosa accada. Non sopporto più il pensiero di quelle spalle che si voltano.
Forse basterebbe un po’ di forza per rialzarsi e proseguire; forse da qualche parte un sentiero ancora c’è, anche se molto nascosto, ma io non sono fatta per camminare da sola.
È una cosa che non posso, non voglio più sopportare.
La morte sembra una fedele compagna: basta chiamarla perché si presenti subito e ti tenda la mano. Non so ancora se accadrà domani, la prossima settimana, o fra un mese. Mi sto preparando per chiamarla a gran voce e so bene che mi ascolterà e mi porterà con sé. Non so dove, ma almeno non sarò più sola.
La vita è un bene prezioso, dicono in molti. Sì, hanno ragione, lo è davvero, ma solo quando è realmente tale. Non l’abbandonerei mai se credessi di avere futuro, di poter essere amata sul serio.
Ma quando il futuro non esiste più, non è più vita. È solo esistenza, solo respiro.
E non ho più intenzione di respirare per niente.
Non so se questa mia intenzione di morte sia debolezza o coraggio, non riesco a rendermene conto, ma non ho dubbi sul fatto che non siano solo parole. Morire sembra l’unico modo per liberarmi di me stessa, e anche per liberarmi di loro. Non voglio più sentirmi sola per colpa loro, ma non riesco a dimenticarle. Sì, forse la colpa è mia che non ho saputo farmi amare, ma solo fino a un certo punto. Perché mi hanno scelta, se non andavo loro bene? Perché anche una bambolina noiosa va bene per un po’ di tempo, fino a che non ci si stufa di giocarci? Forse sì. In definitiva non voglio saperlo, e non posso assolutamente continuare a chiedermelo.
Per questo il suicidio è l’unica alternativa possibile.
Ed è anche l’unica scelta che abbia mai preso da sola, e per me sola.
Se penso a quante volte ho agito per gli altri, per compiacerli e sentirmi amata. Ma ora no, non è più tempo per certe cose. Voglio pensare solo a me stessa per una volta, per l’ultima volta.
Voglio morire, anche se non l’avrei voluto se le cose fossero andate diversamente, e mi procurerò la morte, perché ora sono io che decido.
E ho deciso che è la fine.
E se qualcuno dovesse piangere per me, forse avrebbe fatto meglio a pensarci prima, quando quelle lacrime sarebbero potute servire a qualcosa.
Comunque sia, grazie a questa scelta, mi sento un po’ più serena, perché per lo meno so dove sto andando. Non nego che avrei voluto andare da un’altra parte, ma solo se voi (o loro, che cosa dovrei scrivere? Non sto indirizzando a nessuno questa lettera) foste rimaste con me. Da sola, questa è l’unica strada che voglia percorrere, e che sia facile da raggiungere.
Vi voglio bene, ve ne voglio ancora tanto, e questo non posso più sopportarlo.
La solitudine mi opprime, sento di non essere più niente. Voglio andarmene. Voglio morire. So di averlo già scritto, ma è l’unica cosa che mi rigiri ininterrottamente nella mente, come una cantilena.
Attenderò solo che giunga il momento giusto, so che lo sentirò arrivare.
Non piangerò mai più lì dove sto per addentrarmi. Ora sto piangendo, e non voglio farlo più.
È quasi la fine, finalmente.
Ancora poche lacrime, poi sarà tutto finito.


Senza rileggere nemmeno una parola piegò il foglio macchiato d’inchiostro e lacrime e lo ripose in un cassetto. Non appose la data, perché potesse attendere lì dentro fino al momento giusto.

 

MOMENTO NUMERO SEI: La fredda mano


La sentì arrivare come un soffio di vento, e seppe per certo che, per raggiungerla, aveva attraversato il viale dei cipressi. Gocciolava di pioggia, benché non avesse forma fisica.
Percepì il suo tocco gelido prima sulla fronte, poi lungo il viso. Una carezza di ghiaccio che la portò a rabbrividire dalla gioia. Ma sentì anche un dolore al petto.
Aprì gli occhi, anche se non erano più quelli veri. Non esisteva il bagno dove si era tagliata le vene intorno a lei, non esisteva alcun luogo definibile. E indefinibile era anche quella figura strana, impalpabile e nera che le si era accovacciata accanto. Solo la mano, quella mano gelida, leggera e invitante, le era chiara alla vista.
Sentiva che respirava sempre più flebilmente mentre ne veniva accarezzata.
Non parlava la figura, ma in qualche modo lei la sentiva comunque. Non era dolce, ma comprensiva e accogliente. Faceva male incontrarla, ma al tempo stesso si sentiva la sua vicinanza e la fermezza con cui non avrebbe mai lasciato andare chi la chiamava a sé.
La fredda mano discese sulla sua spalla, lungo il braccio; le sfiorò appena il polso squarciato e sanguinante, poi risalì fino al petto. Le pose la mano sul cuore, e il respiro leggero si arrestò definitivamente.
La ragazza stesa a terra si tirò a sedere e per un po’ poté guardare negli occhi inesistenti la figura vicina. Entrambe tesero le mani e se le strinsero. Non erano vere mani, ma ora anche le sue sembravano fatte di ghiaccio.
Furono soltanto secondi quelli che trascorsero, poi la neo-morta non riuscì più a resistere: si fiondò tra le braccia informi dell’essenza oscura che presto l’avrebbe portata via con sé, e a lei si affidò completamente.
Fu un abbraccio dal quale desiderò di non essere mai separata. Un abbraccio amaro e doloroso, ma irrinunciabile.
Entrambe le fredde mani ricambiarono la stretta e la cullarono per farla sentire al sicuro.
Presto sarebbero andate. Lei non sapeva dove, ma non le importava. Bastava poter restare per sempre tra quelle braccia ghiacciate. E seppe fin da subito che quell’abbraccio non si sarebbe mai sciolto, perché non era l’unica a esservi stretta all’interno. C’erano miliardi di anime incatenate a quella figura, ma ognuna di esse, a modo suo, poteva averla tutta per sé.
E se l’eternità doveva consistere in un abbraccio, a lei andava benissimo. Anche se era gelido.
 

MOMENTO NUMERO SETTE: Quelle inutili, antiche parole



Il braccio appoggiato alla scrivania, la fronte adagiata su di esso. Sotto il palmo della mano aperta c’erano diversi fogli di carta, tutti pieni di scritte.
Lei si odiava, perché non riusciva a fermare le lacrime. Come le era venuto in mente di riprendere in mano quelle lettere? Perché farsi male a tal punto?
E leggendo quelle inutili, antiche parole, si dolore se n’era provocato davvero tanto. Fino ad allora aveva conservato le lettere in una scatola, ma quel giorno aveva avuto bisogno di dare un nome a quello strano senso di oppressione che avvertiva al petto, e le aveva tirate fuori.
Le aveva rilette tutte, una per una.
Perché scriversi delle lettere, quando si può parlare ogni giorno? Forse perché è il modo più facile per condividere quello che si ha dentro. O almeno, era quella che aveva fatto lei; non era più molto sicura circa le intenzioni dell’amica, o di quello che era stata ormai tanto tempo prima.
Le voleva bene. Le scriveva. Era una vera amica. Sosteneva dopo un suo consiglio. Non sapeva come avrebbe fatto senza di lei. Quello era stato troppo.
Dannate parole lanciate al vento! Sarebbe stato meglio risparmiare inchiostro, piuttosto che dar sfogo a tante menzogne.
Si era resa conto solo in quel momento, dopo anni trascorsi a credere che la solitudine non fosse poi così difficile da affrontare, di che cosa era stata lei per l’amica che le aveva scritto quelle lettere; e anche per quell’altra. Si era finalmente resa conto di quello che le avevano fatto: loro l’avevano uccisa.
Aveva passato momenti difficili, quell’inverno ormai lontano. Avrebbe avuto bisogno della loro vicinanza, ma loro se n’erano andate. Era troppo noiosa. Dovevano aver pensato. Sì, forse lo era stata, ma questo non era un buon motivo per abbandonarla, non dopo aver scritto quelle parole e avergliele consegnate illudendole che parlassero di verità.
E invece, una menzogna dopo l’altra, le avevano fatto credere che per lei ci sarebbero sempre state; le cose però erano andate diversamente, e lei era morta un po’ alla volta, senza rendersene conto.
Per chi stava piangendo concedendosi il beneficio del buio? Per loro o per se stessa? Non sapeva rispondersi e forse non lo voleva neanche. Sapeva soltanto che non poteva arrestare quelle lacrime che tanto bruciavano e per questo seguitava a detestarsi, sempre di più, a ogni secondo trascorso.
Piangeva sulla propria tomba dell’anima, e piangeva perché loro non erano state lì per mantenerla in vita. Piangeva perché qualcosa si era definitivamente rotto in lei.
E poi piangeva perché piangeva, e non voleva piangere.
Si sentiva così debole e sconfitta, così pesantemente ingannata. Perché aveva creduto loro? Perché aveva dato credito a quelle parole? Perché era stato bello farlo. Perché si era sentita amata, e questo era ciò che contava. Se le fosse stato concesso, sarebbe tornata indietro per rivivere quei momenti, per assaporarli in eterno, anche se quelle parole dei tempi andati non corrispondevano a verità.
Ma non serviva a nulla cullarsi nei vani ricordi, nell’effimera debolezza di legarsi a qualcosa di irreale. Doveva guardare in faccia la realtà; la spaventosa realtà: lei era sola.
Una solitudine così opprimente e devastante, come mai avrebbe creduto di percepirla. Aveva chiuso gli occhi con forza ogni volta che se l’era trovata di fronte e aveva fatto finta di non averla vista. Eppure era così immensa, come aveva potuto mentirsi? È facile mentire, quando fa comodo.
E per lei era stato meglio fingere che la solitudine non esistesse, così come alle amiche di un tempo aveva dato profitto ostentare affetto nei suoi confronti. Lei c’era sempre stata per loro. Ma forse era colpa sua comunque se l’avevano lasciata indietro come una cartaccia inutile.
No. Si disse tornando a sollevare la testa. No, loro dovevano esserci.
Stava ancora piangendo: le lacrime erano inarrestabili, come la pioggia violenta durante un temporale.
Con la vista annebbiata prese i fogli che aveva lasciato sulla scrivania e iniziò a strapparli uno per uno, non preoccupandosi poi di farli cadere a terra. Quello era il loro posto e, soprattutto, quella era la forma che più si addiceva loro. Quelle erano parole che non avrebbero mai dovuto esistere, perché non si dovrebbe dar forma e ciò che non corrisponde a verità.
Non si sentì meglio quando strappò l’ultima lettera; gli strappi in lei era troppi, troppo marcati e avevano sanguinato troppo a lungo.
Dentro di lei da anni avevano giaciuto ferite profonde, che lei aveva creduto di aver rimarginato.
Ma ignorando le piaghe, si finisce solo con il farle suppurare. E la suppurazione conduce alla morte.
Guardava i fogli ridotti a brandelli ai suoi piedi, le lacrime ancora le sgorgavano dagli occhi. Si disse che in qualche modo sarebbe dovuta andare avanti comunque, anche se era morta dentro.
Si disse che avrebbe dovuto trovare una via per salvarsi, in qualche modo.
Si disse anche che, forse, non era tutto perduto.
Cercò di convincersi che ce l’avrebbe fatta da sola, che non era la fine di tutto; che forse, quelle ferite, con le cure giuste potevano ancora essere risanate.
Lo pensò, e volle crederci.
Ma, ancora, non riusciva a smettere di piangere e, per questo, non riusciva a smettere di odiarsi.
 

MOMENTO NUMERO OTTO: Nient'altro che la fine



Ceneri sparse al vento, amate troppo tardi e, da domani, già dimenticate.
 
29 luglio-02 settembre 2013
 
 
**
 
(1) Giaccio morente e sto versando rimpianti e tradimenti rosso sangue. Frase tratta dal brano Tourniquet (laccio emostatico) degli Evanescence. Mi pareva si associasse bene alla situazione descritta.
 
 

(2) Questa immagine (il polso teso vicino al taglierino) mi è stata evocata dall'anime Caro Fratello, quando il personaggio di Mariko fa la stessa cosa.
 
*lady in blue* 
 


domenica 1 settembre 2013

Il peluche

Ciao!!
Eccomi già di ritorno. La prima settimana di lavoro è andata e io sono ancora qui che mi chiedo quand'è che troverò il tempo di riprendere in mano i miei scritti già iniziati... prima o poi, con un po' di fiducia -.-
Beh, a parte le ciance, dopo aver postato la mia breve impressione sul viaggio a Barcellona tanto per non lasciarlo scappare, e avere sempre a portata di mano qualcosa che lo riguardi e me lo ricordi, torno con un altro racconto.
Uno dei più allegri che abbia mai scritto, devo dire. Sì, allegri...al contrario!
Solitamente divido i racconti in storie grigie e storie nere, e questa è spaventosamente nera.
L'ispirazione, come sempre, mi è venuta dalle cose più strane: un peluche, per l'appunto; per la precisione da un pupazzo di Snoopy, anche se quello del mio racconto non è necessariamente la creazione di Schulz. E' solo un cane di peluche.
Eh beh, mi si dirà, che c'è di tanto nero in un peluche? Si anima, impugna un coltello e fa strage? Direi di no. Ma siamo decisamente sull'inquietante. Perché nessuno fa più caso a quelle tre parole riportate su qualunque etichetta...si leggono ovunque. Ma se si chiudono gli occhi e si prova ad andare oltre quelle tre sterili parole, può venire fuori qualcosa di davvero terribile. Beh, è quello che ho fatto. Ok, ho una fantasia leggermente malata, niente di strano. D'altro canto sarò impazzita quando scriverò qualcosa di allegro e "colorato", o forse avrò incontrato per la strada la sanità mentale, chissà ^^ Cosa che dubito avverrà.
Comunque sia, auguro buona lettura a chi vorrà darci un'occhiata.

Avvertimento importante: Ne sconsiglio la lettura se si è un po' impressionabili verso i temi forti come gli abusi o la morte, ma anche il sangue, anche se non è, per così dire, "direttamente presente". Lo dico perché io, benché sia molto sensibile verso certi argomenti, non ho mai problemi con quel che scrivo, anche se si va molto sul pesante (doppia personalità tipo la metà oscura? Speriamo di no, va' :D), per cui posso capire che certe cose possano fare un po' senso o inquietare un attimino.

Se ho finito di blaterare, vi lascio finalmente al racconto che segue.

IL PELUCHE


 

La donna d’occidente allontana lievemente il neonato dal suo petto e si assicura che si sia addormentato; così è.

Il piccolo dorme placidamente e di certo già sogna quelle poche esperienze che la sua breve vita gli ha concesso fino a quel momento.

Nella cameretta aleggia il profumo delle pulizie appena fatte; la donna d’occidente è una madre premurosa, e non sopporta l’idea che il suo bambino possa essere attaccato dai germi.

Si sa, i neonati sono così fragili.

Lo culla ancora per qualche minuto, come a volersi assicurare che il suo sonno non sia interrotto come un filo che sia tagliato da un paio di forbici. Quell’ultimo gesto della madre è come un incantesimo che renda sigillato il sonno del bimbo, almeno fino a quando non sarà ora per lui di riaprire gli occhi e intraprendere un nuovo giorno, da aggiungere alla collezione della sua vita iniziata da poco.

La donna d’occidente imprime  un tenero bacio sulla fronte del figlio; e quel bacio è come un amuleto che custodisca l’incantesimo del sonno sereno.

Ora tutto è pronto, tutto è perfetto.

Nel silenzio della camera con le pareti colorate di verde acqua (alla donna d’occidente sembra il colore migliore per il suo bambino, evoca tanta tranquillità e beatitudine), la madre adagia con cura il neonato nel lettino.

Un’ultima carezza sulla testolina tanto delicata; un sorriso d’amore puro. Da brava madre lo copre perché non senta freddo, poi gli sistema meglio il peluche accanto.

Il pupazzo è a forma di cane: è tutto bianco, ma ha le orecchie nere. È in posizione seduta, come potrebbe esserlo un essere umano.

Di nero ha anche la grossa pallina del naso.

La mano del neonato si muove subito e si posa sulla stoffa di cui è ricoperto il suo amico inanimato.

Quello è il suo primo peluche, e il bambino lo adora; non potrebbe dormire senza. La madre pensa che per il figlio rappresenti una sorta di angelo custode.

Spesso i pupazzi vegliano sui bambini piccoli, d’altro canto lo ricorda: anche lei, da bambina, ne aveva diversi.

Il neonato, nel progressivo adagiarsi del sonno, sta lasciando cadere il ciuccio dalla bocca; la madre glielo sistema, ma nel giro di qualche istante questo torna a scivolare verso la superficie del lettino. Il piccolo lo tiene ancora tra le gengive, ma la presa è molto blanda, presto sarà senza.

La donna d’occidente sorride di nuovo: poco importa se il bambino perderà definitivamente il ciuccio mentre dorme; c’è il cane di peluche con lui, e questo, di sicuro, non lo farà sentire solo.

Sta ancora sorridendo mentre esce dalla cameretta e chiude la porta.

Gli occhi neri e dall’espressione dolce ma fissa del peluche sono gli unici aperti in quella stanza, come se davvero l’animaletto di pezza vegliasse sul suo piccolo padrone.

È quasi come se fosse stato costruito apposta per lui.

Sarebbe una bella favola a cui credere, ma nel mondo reale le cose non vanno così.

Quel pupazzo, comprato perché accompagnasse i sogni di una piccola creatura nata in occidente, è stato cucito con la paura, con la violenza e gli abusi. E anche con la rabbia.

Il neonato muove la manina rosa nel sonno, la appoggia proprio accanto all’etichetta che sporge sul di dietro del peluche. Ed è proprio lì, accanto al marchio CE, che è segnata la sua provenienza.

Quelle tre parole che ormai a nessuno fanno più né caldo né freddo, tanto si è abituati a leggerle su qualunque cosa: MADE IN CHINA.

 

**

 

La bambina d’oriente ha lo sguardo triste e un occhio nero. Ha tredici anni, ma è come se gliene gravassero già sessanta sulle spalle. Ha un nome, Xiwàn, che significa speranza, ma questa è una cosa che a lei è sempre mancata. Non sa nemmeno che cosa voglia dire.

Ha le mani piene di tagli, la pelle screpolata e di un giallo troppo violento; le sue dita sono gonfie per il troppo lavoro.

Suo padre l’ha venduta per un nuovo televisore; di sua madre non sente più parlare da un pezzo: sa che batte il marciapiede, ma non sa chi l’abbia obbligata a farlo.

Forse era per la mancanza di soldi.

Non le manca la sua famiglia, quello è un concetto che non ha mai compreso né sentito proprio.

Aveva tanti fratelli e sorelle, non ricorda bene quanti né rammenta tutti i loro nomi; sa soltanto che lei era una dei più grandi.

La memoria le suggerisce che suo padre era sempre arrabbiato e sua madre, finché c’era stata, sempre ubriaca. Eppure entrambi lavoravano anche diciotto o venti ore al giorno.

L’occhio nero che le contorna il visino da vecchia non è una novità per lei: suo padre gliene faceva di continuo, e spesso non si accontentava soltanto degli occhi.

Alla bambina d’oriente non importava più di tanto delle percosse: sapeva che suo padre era violento perché era povero e la povertà inasprisce sempre le persone, fino a privarle d’umanità. In fondo le andava quasi bene essere picchiata, le ricordava qual’era il suo posto.

Ma poi, una notte, era iniziata la brutta cosa. Quella non era sopportabile come i pugni e i calci; quella era terribile.

Non sapeva nemmeno in quanti l’avessero fatto: era certa di aver avuto tra le gambe aperte a forza suo padre e uno dei suoi fratelli, ma era certa che ci fosse stato anche qualcun altro.

I ricordi però erano annebbiati e confusi come un luogo sconosciuto in mare aperto e la bambina d’oriente non vuole pensarci più di tanto.

Solo la prima volta aveva urlato e pianto, poi era sempre rimasta in silenzio a subire.

Pare che la rassegnazione alle violenze accomuni gran parte delle bambine d’oriente.

Lì, in quel luogo troppo stretto e troppo buio dove è obbligata a lavorare, ce ne sono tante altre come lei.

L’occhio nero ce l’ha da un paio di giorni: è ancora gonfio. Non è stato suo padre a farglielo, certo che no, non lo vede da molto tempo, ma uno dei suoi superiori: la bambina d’oriente ha alzato lo sguardo al soffitto per qualche attimo, accantonando il lavoro, e improvvisamente è stata colpita dal calcio di un fucile.

I fucili sono sempre presenti sul luogo di lavoro. Sono una motivazione.

Bisogna andare veloci; cucire; costruire; e tutto in tempo per la sera.

La bambina d’oriente non sa nemmeno molto bene che cosa creino le sue mani.

Sa che si tratta di giocattoli, ma non ha ben afferrato il significato di quella parola. Un po’ come vale per speranza e famiglia.

Perché mai un bambino dovrebbe divertirsi stringendo in mano un ammasso di pezza o di plastica con forma animale o umana? La bambina d’oriente alla volte ci pensa e non sa rispondersi.

Si immagina un bambino con la pelle bianca come riso (non ha mai visto uno dei cosiddetti bianchi o occidentali, come li sente chiamare da tutti, e non sa figurarseli diversamente) che toglie il suo pupazzo dalla scatola, con il sorriso stampato in viso e poi …

E poi il bambino tutto bianco della sua mente resta immobile con il giocattolo stretto tra le mani; però continua a sorridere. La bambina d’oriente non sa che quel che le manca è la fantasia, l’immaginazione. E non lo saprà mai, perché il caso l’ha voluta far nascere come bambina d’oriente, a cui nulla è concesso se non la miseria e la distruzione.

Ma Xiwàn non soffre. Per soffrire bisogna aver conosciuto almeno uno sprazzo di felicità con cui comparare i momenti bui. Per lei l’oscurità è normale routine.

Il suo sguardo è triste solo perché non conosce altre espressioni.

Il suo lavoro dura dalle sedici alle diciotto ore al giorno; dipende se, raggiunto il primo traguardo, ha completato i suoi doveri o no.

Se non l’ha fatto viene ammonita pesantemente e spesso malmenata, poi riprende rapida a cucire o ad assemblare i pezzi dei giocattoli per le due ore successive.

La bambina d’oriente non sa che cosa accada quando non si finisce il lavoro nemmeno dopo le diciotto ore, a lei non è mai capitato, e non è certamente interessata a scoprirlo.

Non pensa di star costruendo oggetti destinati a bambini più fortunati; fortuna è un’altra parola che non conosce e, anche se così fosse, questa non potrebbe tangerla più di tanto.

Credere nella fortuna è per gli stolti, esiste solo un filo invisibile da seguire, che da qualche parte inizia e, meno male, da qualche parte finisce.

Xiwàn ne sa parecchio di fili; le sue dita gonfie ne maneggiano tutti i giorni. Quelli di oggi sono bianchi e neri, perché deve cucire insieme le parti di un cane di peluche.

Ma che idiozia è mai questa! Pensa tra sé e sé. Perché giocare con un cane finto? I cani sono fatti per essere mangiati.

La bambina d’oriente non sa che cosa sia la tenerezza, né conosce la necessità dei bambini d’occidente di addormentarsi stringendo qualcosa di morbido.

Non conosce nemmeno l’affetto, né concepisce che si possa provare nei confronti di un animale.

Davanti a lei c’è soltanto il solito tavolo sporco; le sue dita gonfie e tagliate separano i vari lembi di pezza da cucire assieme.

Un grosso contenitore accanto a lei è colmo di poliestere con il quale dovrà riempire la stoffa che prenderà le sembianze del cane. Non che Xiwàn sappia veramente di che cosa si tratti; per lei è soltanto la parte bianca morbida che va dentro.

Prende le forbici e inizia a tagliare le sezioni di pezza che serviranno: sono quasi tutte bianche, perché sa che solo le orecchie dovranno essere nere; quelle e il naso, ma per quest’ultimo ci sono le palline già pronte, dovrà soltanto cucirla sul muso del pupazzo a lavoro ultimato. Ne ha una cesta piena all’angolo del suo tavolo da lavoro.

Quello che si accinge a fare è il primo peluche della giornata, ma le mani le dolgono già incredibilmente. Non riesce a ricordare che cosa voglia dire non provare dolore alle mani; non riposa mai abbastanza per smaltire quello provocato dal lavoro precedente a quello che svolge.

A fine giornata dovrà averne confezionati trentadue: due per ogni ora di lavoro, e non è facile creare un cagnolino di pezza in mezzora, a maggior ragione con le mani doloranti.

Xiwàn, che non capisce il senso del significato del suo nome, taglia rapidamente i pezzi di stoffa che le occorrono: due per le zampe di sotto, altri due, più piccoli, per quelle di sopra, uno grande per il busto e anche uno ancora più grande per la testa. Non resta altro che il triangolino della coda.

Dalla stoffa nera ricava le due parti uguali che fungeranno da orecchie.

Improvvisamente, nella luce troppo fioca per lavorare, nel puzzo d’aria viziata e di marciume, nella desolazione di tante vite rinchiuse insieme fino a quando non giungerà la fine di ognuna di esse, la bambina d’oriente inizia a immaginare. È la prima volta che lo fa sul serio e i suoi pensieri sono nitidi e precisi; la fantasia la porta a figurarsi l’immagine di un’altra sarta bambina come lei, solo molto più grande, che taglia i pezzi di pelle per crearla.

Xiwàn si immagina come un pupazzo che deve prendere forma nelle mani gonfie e tagliate di un’altra schiava. Una schiava che lavora per un grande padrone.

Vede le forbici della bambina della sua mente che tagliano la stoffa che costituirà la sua pelle; una stoffa giallognola e già rovinata: due parti uguali per le gambe, due più piccole per le braccia, uno grande per il busto, uno tondo per la testa. Non ci sono due lembi lunghi per le orecchie, com’è invece per il cane, ma solo due piccoli pezzi prefabbricati, che sembrano quasi ricamati.

Anche il naso è un pezzo già fatto e andrà cucito all’ultimo momento, a lavoro ultimato.

La bambina-schiava che vive nella mente di Xiwàn ha accanto a sé un grosso contenitore riempito dal materiale che costituirà il suo interno: è carne che naviga nel rosso del sangue.

C’è soltanto una cosa che le due bambine possiedono sul loro tavolo da lavoro di totalmente identico, anche se a dire il vero cambiano le dimensioni: un cestino pieno di occhi di vetro da incollare sulla faccia del peluche finito. Occhietti neri, dall’espressione dolce e immobile.

Xiwàn e la bambina della sua immaginazione stanno lavorando all’unisono: Xiwàn inizia a riempire la testa e il busto del cane di poliestere, l’altra bambina riempie il suo busto e la sua testa di carne sanguinolenta.

Anche l’altra bambina ha male alle mani.

Xiwàn colma di poliestere anche le quattro zampe dell’animale fittizio, l’altra bambina inserisce macchinalmente la carne nelle braccia e nelle gambe. Il suo tavolo da lavoro è sporco di sangue, quello di Xiwàn è solo impolverato e carico delle ceneri della sua infanzia rubata.

La bambina d’oriente richiude il busto del cane riempito di poliestere con il filo bianco, poi vi cuce insieme le zampe; la bambina della sua mente richiude il busto di Xiwàn con del filo giallo, poi vi unisce la gambe e le braccia.

Da un lato c’è un cane senza testa. Dall’altro un corpo di bambina incompleto.

Perché mi costruisci? Chiede la bambina d’oriente a quella che vede nella mente; quella che lavora sul tavolo rosso di sangue. Perché è il mio lavoro. Risponde questa.

Xiwàn non ha di che replicare, eppure vorrebbe che la schiava del suo sogno lasciasse la macabra opera a metà. Forse, se la bambina rimarrà incompleta, lei potrà sparire alla fine di quella giornata.

Ma l’enorme bambina schiava non si ferma un attimo e ora ha afferrato la testa, ne sta cucendo insieme i lembi per richiuderla a cerchio con il filo giallo (mentre Xiwàn fa lo stesso, con quello bianco, per la testa del cane), poi comincia ad applicarvi sopra dei fini fili neri che andranno a costituire i capelli. Sono troppo lunghi; alla fine dovrà tagliare quelli in eccesso.

Xiwàn ha cominciato a operare con il filo nero sulle zampe anteriori e posteriori del cane di peluche, al fine di creare l’illusione delle dita. L’altra bambina taglia con cura la pelle di troppo che ricopre le sue mani. Eppure fa in modo che le dita della bambola – Xiwàn non siano troppo sottili. Alla fine le taglia anche in più punti.

La bambina immaginaria conosce molto bene il progetto che deve seguire: sta costruendo una bambina – schiava che le assomiglia.

La bambina d’oriente sta ora cucendo le orecchie del cane con il filo nero ed è in quell’istante che sente l’altra bambina canticchiare.

È una melodia ossessionante, oscura e demoniaca. La canzone parla di bambini morti e madri sventrate. Parla di tenebre e infinito. Parla dell’uomo.

Nella mente, Xiwàn comincia a canticchiare a sua volta.

Tra poco le orecchie del cane saranno completamente attaccate alla testa; e anche le orecchie di Xiwàn saranno applicate definitivamente al cranio colmo di carne.

Dopodiché entrambe le teste saranno cucite insieme ai rispettivi busti, poi sarà la volta degli ultimi piccoli particolari per rendere il lavoro completo.

Nei due cestini, quello più grande e quello più piccolo, gli occhi di vetro luccicano tra le ombre.

Xiwàn vorrebbe parlare ancora alla bambina della sua mente, ma sa di non poterlo fare; lei lavora e canticchia la melodia della morte atroce e non può essere interrotta, così come fa anche lei. Xiwàn cammina su un filo giallo che porta inevitabilmente al disfacimento; e non c’è modo di tornare indietro, perché al principio di quel filo c’è soltanto un muro insormontabile: quello della sua nascita, o del suo destino.

Xiwàn non può parlare alla bambina della sua mente, ma si concentra a fondo per guardarla negli occhi. Entrambe hanno adesso finito di cucire le teste sui corpi senza vita delle rispettive creazioni: un pupazzo che riflette una finta vita da un lato, un altro che mostra quel che c’è di peggio della morte dall’altro. E peggio della morte è solo la carne macellata.

Xiwàn guarda in profondità negli occhi della bambina che continua a canticchiare: anche i suoi sono occhi di vetro e uno di questi è pesto, proprio come il suo. Anche lei deve essere stata picchiata dal suo superiore perché una volta ha alzato gli occhi al soffitto che copre il cielo che non ricorda di aver mai visto. Ma forse anche lei non è altro che una bambola di pezza costruita, da qualche parte, da una bambina-schiava più grande.

Ma in quegli occhi di vetro c’è qualcosa che Xiwàn è certa di non conoscere, eppure riesce a comprendere.

Le due bambine cuciono le sopracciglia dei loro pupazzi con del filo nero. La bambina immaginaria si è fermata un momento poco prima, per attendere che Xiwàn applicasse la coda al cane con il filo bianco.

La canzone della bambina della mente prosegue. Ora rivela l’identità dell’assassino dei bambini e di colui che ha sventrato le madri. Spiega chi è a portare le tenebre e a volere che siano infinite. Non è l’uomo. Era solo un inganno delle prime strofe.

Xiwàn incolla gli occhi di vetro al cane. L’altra bambina incolla gli occhi di Xiwàn alla sua bambola di pezza e sangue.

Ma gli occhi di vetro di Xiwàn non sono dolci come quelli del cane. Sono carichi di rabbia e odio. Come quelli della bambina che l’ha costruita.

Come quelli della bambina della canzone che la schiava-bambina non vuole smettere di canticchiare.

È una bambina dagli occhi di vetro pieni di rabbia e di odio ad aver ucciso tanti bambini felici; quella stessa bambina ha sventrato le loro madri premurose. Porta con sé le tenebre e fa in modo che mai cessino. Anche la bambina della canzone ha un occhio nero ed era stata squarciata tra le gambe.

Gli occhi veri di Xiwàn assumono quell’espressione di rabbia e odio mentre prende una pallina nera da cucire alla testa del cane come naso.

Anche la bambina nella sua mente sta cucendo il naso di Xiwàn.

La bambina immaginaria lo fa con precisione, come ha fatto con tutti gli altri pezzi.

Xiwàn lascia il filo nero un po’ allentato.

Non contempla il peluche completo, ma si limita a lasciarlo cadere nella cesta alla sua sinistra, quella contenente i giocattoli ultimati. Prende dell’altro poliestere, dell’altro filo bianco e nero e dell’altra stoffa da tagliare nelle varie sezioni che avrebbero costituito un nuovo peluche, e inizia a fabbricare un altro cagnolino di pezza.    

La bambina nella sua mente è sparita, così come la canzone sulla bambina che uccide e sventra.

 

**

Il bimbo d’occidente ha perso definitivamente il suo ciuccio mentre dorme beato nel suo lettino e stringe forte il suo cagnolino di peluche tutto bianco ma con le orecchie e il naso neri.

Sogna le carezze di sua madre e il seno da cui suggerà il latte al risveglio.

Il bimbo d’occidente è felice mentre dorme.

Nel sonno, mancandogli il ciuccio, ha cercato qualcos’altro da portarsi in bocca e il naso nero del cane di peluche gli è parso un ottimo sostituto.

Lo succhia forte mentre sogna il seno gonfio di latte di sua madre; nemmeno lei si era accorta del filo nero un po’ allentato.

E mentre lo serra forte tra le gengive e lo risucchia nella bocca, quello stesso filo nero si lascia andare definitivamente e il naso del cane di peluche di stacca.

Si sa, ai neonati capita spesso che il naso si ostruisca mentre dormono, così sono costretti a respirare con la bocca. Al bambino d’occidente basta inspirare poche volte per farsi conficcare nella trachea il naso nero del cane di peluche.

Nessuno sente i suoi rantoli mentre gli manca l’ossigeno. Nessuno si accorge che sta soffocando.

Il bambino d’occidente muore perché non riesce più a respirare.

Quando la madre, la donna d’occidente, lo ritroverà senza vita nel suo lettino la mattina seguente, prenderà un coltello dalla cucina e se lo sprofonderà nel ventre.

Dall’altra parte del mondo, una bambina con gli occhi di vetro pieni di odio e rabbia, starà lavorando all’ennesimo peluche destinato a un bambino d’occidente.

Nella sua mente rigirerà ininterrottamente una canzone che parla di una bambina che uccide i pargoli e sventra le madri; e forse, questa volta, la canterà anche un po’ ad alta voce.

 

 

 25 marzo 2013

*lady in blue*