Ciao!!
Eccomi già di ritorno. La prima settimana di lavoro è andata e io sono ancora qui che mi chiedo quand'è che troverò il tempo di riprendere in mano i miei scritti già iniziati... prima o poi, con un po' di fiducia -.-
Beh, a parte le ciance, dopo aver postato la mia breve impressione sul viaggio a Barcellona tanto per non lasciarlo scappare, e avere sempre a portata di mano qualcosa che lo riguardi e me lo ricordi, torno con un altro racconto.
Uno dei più allegri che abbia mai scritto, devo dire. Sì, allegri...al contrario!
Solitamente divido i racconti in storie grigie e storie nere, e questa è spaventosamente nera.
L'ispirazione, come sempre, mi è venuta dalle cose più strane: un peluche, per l'appunto; per la precisione da un pupazzo di Snoopy, anche se quello del mio racconto non è necessariamente la creazione di Schulz. E' solo un cane di peluche.
Eh beh, mi si dirà,
che c'è di tanto nero in un peluche? Si anima, impugna un coltello e fa strage? Direi di no. Ma siamo decisamente sull'inquietante. Perché nessuno fa più caso a quelle tre parole riportate su qualunque etichetta...si leggono ovunque. Ma se si chiudono gli occhi e si prova ad andare oltre quelle tre sterili parole, può venire fuori qualcosa di davvero terribile. Beh, è quello che ho fatto. Ok, ho una fantasia leggermente malata, niente di strano. D'altro canto sarò impazzita quando scriverò qualcosa di allegro e "colorato", o forse avrò incontrato per la strada la sanità mentale, chissà ^^ Cosa che dubito avverrà.
Comunque sia, auguro buona lettura a chi vorrà darci un'occhiata.
Avvertimento importante: Ne sconsiglio la lettura se si è un po' impressionabili verso i temi forti come gli abusi o la morte, ma anche il sangue, anche se non è, per così dire, "direttamente presente". Lo dico perché io, benché sia molto sensibile verso certi argomenti, non ho mai problemi con quel che scrivo, anche se si va molto sul pesante (doppia personalità tipo
la metà oscura? Speriamo di no, va' :D), per cui posso capire che certe cose possano fare un po' senso o inquietare un attimino.
Se ho finito di blaterare, vi lascio finalmente al racconto che segue.
IL PELUCHE
La donna d’occidente allontana lievemente il neonato dal suo petto e si
assicura che si sia addormentato; così è.
Il piccolo dorme placidamente e di certo già sogna quelle poche
esperienze che la sua breve vita gli ha concesso fino a quel momento.
Nella cameretta aleggia il profumo delle pulizie appena fatte; la donna
d’occidente è una madre premurosa, e non sopporta l’idea che il suo bambino
possa essere attaccato dai germi.
Si sa, i neonati sono così fragili.
Lo culla ancora per qualche minuto, come a volersi assicurare che il
suo sonno non sia interrotto come un filo che sia tagliato da un paio di
forbici. Quell’ultimo gesto della madre è come un incantesimo che renda
sigillato il sonno del bimbo, almeno fino a quando non sarà ora per lui di
riaprire gli occhi e intraprendere un nuovo giorno, da aggiungere alla
collezione della sua vita iniziata da poco.
La donna d’occidente imprime un
tenero bacio sulla fronte del figlio; e quel bacio è come un amuleto che
custodisca l’incantesimo del sonno sereno.
Ora tutto è pronto, tutto è perfetto.
Nel silenzio della camera con le pareti colorate di verde acqua (alla
donna d’occidente sembra il colore migliore per il suo bambino, evoca tanta
tranquillità e beatitudine), la madre adagia con cura il neonato nel lettino.
Un’ultima carezza sulla testolina tanto delicata; un sorriso d’amore
puro. Da brava madre lo copre perché non senta freddo, poi gli sistema meglio
il peluche accanto.
Il pupazzo è a forma di cane: è tutto bianco, ma ha le orecchie nere. È
in posizione seduta, come potrebbe esserlo un essere umano.
Di nero ha anche la grossa pallina del naso.
La mano del neonato si muove subito e si posa sulla stoffa di cui è
ricoperto il suo amico inanimato.
Quello è il suo primo peluche, e il bambino lo adora; non potrebbe
dormire senza. La madre pensa che per il figlio rappresenti una sorta di angelo
custode.
Spesso i pupazzi vegliano sui bambini piccoli, d’altro canto lo
ricorda: anche lei, da bambina, ne aveva diversi.
Il neonato, nel progressivo adagiarsi del sonno, sta lasciando cadere
il ciuccio dalla bocca; la madre glielo sistema, ma nel giro di qualche istante
questo torna a scivolare verso la superficie del lettino. Il piccolo lo tiene
ancora tra le gengive, ma la presa è molto blanda, presto sarà senza.
La donna d’occidente sorride di nuovo: poco importa se il bambino
perderà definitivamente il ciuccio mentre dorme; c’è il cane di peluche con lui,
e questo, di sicuro, non lo farà sentire solo.
Sta ancora sorridendo mentre esce dalla cameretta e chiude la porta.
Gli occhi neri e dall’espressione dolce ma fissa del peluche sono gli
unici aperti in quella stanza, come se davvero l’animaletto di pezza vegliasse
sul suo piccolo padrone.
È quasi come se fosse stato costruito apposta per lui.
Sarebbe una bella favola a cui credere, ma nel mondo reale le cose non
vanno così.
Quel pupazzo, comprato perché accompagnasse i sogni di una piccola
creatura nata in occidente, è stato cucito con la paura, con la violenza e gli
abusi. E anche con la rabbia.
Il neonato muove la manina rosa nel sonno, la appoggia proprio accanto
all’etichetta che sporge sul di dietro del peluche. Ed è proprio lì, accanto al
marchio CE, che è segnata la sua
provenienza.
Quelle tre parole che ormai a nessuno fanno più né caldo né freddo,
tanto si è abituati a leggerle su qualunque cosa: MADE IN CHINA.
**
La bambina d’oriente ha lo
sguardo triste e un occhio nero. Ha tredici anni, ma è come se gliene
gravassero già sessanta sulle spalle. Ha un nome, Xiwàn, che significa speranza, ma questa è una cosa che a lei
è sempre mancata. Non sa nemmeno che cosa voglia dire.
Ha le mani piene di tagli, la
pelle screpolata e di un giallo troppo violento; le sue dita sono gonfie per il
troppo lavoro.
Suo padre l’ha venduta per un
nuovo televisore; di sua madre non sente più parlare da un pezzo: sa che batte
il marciapiede, ma non sa chi l’abbia obbligata a farlo.
Forse era per la mancanza di
soldi.
Non le manca la sua famiglia,
quello è un concetto che non ha mai compreso né sentito proprio.
Aveva tanti fratelli e sorelle,
non ricorda bene quanti né rammenta tutti i loro nomi; sa soltanto che lei era
una dei più grandi.
La memoria le suggerisce che suo
padre era sempre arrabbiato e sua madre, finché c’era stata, sempre ubriaca.
Eppure entrambi lavoravano anche diciotto o venti ore al giorno.
L’occhio nero che le contorna il
visino da vecchia non è una novità per lei: suo padre gliene faceva di
continuo, e spesso non si accontentava soltanto degli occhi.
Alla bambina d’oriente non
importava più di tanto delle percosse: sapeva che suo padre era violento perché
era povero e la povertà inasprisce sempre le persone, fino a privarle
d’umanità. In fondo le andava quasi bene essere picchiata, le ricordava
qual’era il suo posto.
Ma poi, una notte, era iniziata
la brutta cosa. Quella non era
sopportabile come i pugni e i calci; quella era terribile.
Non sapeva nemmeno in quanti
l’avessero fatto: era certa di aver avuto tra le gambe aperte a forza suo padre
e uno dei suoi fratelli, ma era certa che ci fosse stato anche qualcun altro.
I ricordi però erano annebbiati e
confusi come un luogo sconosciuto in mare aperto e la bambina d’oriente non
vuole pensarci più di tanto.
Solo la prima volta aveva urlato
e pianto, poi era sempre rimasta in silenzio a subire.
Pare che la rassegnazione alle
violenze accomuni gran parte delle bambine d’oriente.
Lì, in quel luogo troppo stretto
e troppo buio dove è obbligata a lavorare, ce ne sono tante altre come lei.
L’occhio nero ce l’ha da un paio
di giorni: è ancora gonfio. Non è stato suo padre a farglielo, certo che no,
non lo vede da molto tempo, ma uno dei suoi superiori: la bambina d’oriente ha
alzato lo sguardo al soffitto per qualche attimo, accantonando il lavoro, e
improvvisamente è stata colpita dal calcio di un fucile.
I fucili sono sempre presenti sul
luogo di lavoro. Sono una motivazione.
Bisogna andare veloci; cucire;
costruire; e tutto in tempo per la sera.
La bambina d’oriente non sa
nemmeno molto bene che cosa creino le sue mani.
Sa che si tratta di giocattoli,
ma non ha ben afferrato il significato di quella parola. Un po’ come vale per speranza e famiglia.
Perché mai un bambino dovrebbe divertirsi
stringendo in mano un ammasso di pezza o di plastica con forma animale o umana?
La bambina d’oriente alla volte ci pensa e non sa rispondersi.
Si immagina un bambino con la
pelle bianca come riso (non ha mai visto uno dei cosiddetti bianchi o occidentali, come li sente chiamare da tutti, e non sa figurarseli
diversamente) che toglie il suo pupazzo dalla scatola, con il sorriso stampato
in viso e poi …
E poi il bambino tutto bianco
della sua mente resta immobile con il giocattolo stretto tra le mani; però
continua a sorridere. La bambina d’oriente non sa che quel che le manca è la
fantasia, l’immaginazione. E non lo saprà mai, perché il caso l’ha voluta far
nascere come bambina d’oriente, a cui nulla è concesso se non la miseria e la
distruzione.
Ma Xiwàn non soffre. Per soffrire
bisogna aver conosciuto almeno uno sprazzo di felicità con cui comparare i momenti
bui. Per lei l’oscurità è normale routine.
Il suo sguardo è triste solo
perché non conosce altre espressioni.
Il suo lavoro dura dalle sedici
alle diciotto ore al giorno; dipende se, raggiunto il primo traguardo, ha
completato i suoi doveri o no.
Se non l’ha fatto viene ammonita
pesantemente e spesso malmenata, poi riprende rapida a cucire o ad assemblare i
pezzi dei giocattoli per le due ore successive.
La bambina d’oriente non sa che
cosa accada quando non si finisce il lavoro nemmeno dopo le diciotto ore, a lei
non è mai capitato, e non è certamente interessata a scoprirlo.
Non pensa di star costruendo
oggetti destinati a bambini più fortunati; fortuna
è un’altra parola che non conosce e, anche se così fosse, questa non
potrebbe tangerla più di tanto.
Credere nella fortuna è per gli
stolti, esiste solo un filo invisibile da seguire, che da qualche parte inizia
e, meno male, da qualche parte finisce.
Xiwàn ne sa parecchio di fili; le
sue dita gonfie ne maneggiano tutti i giorni. Quelli di oggi sono bianchi e
neri, perché deve cucire insieme le parti di un cane di peluche.
Ma che idiozia è mai questa! Pensa tra sé e sé. Perché giocare con
un cane finto? I cani sono fatti per essere mangiati.
La bambina d’oriente non sa che
cosa sia la tenerezza, né conosce la necessità dei bambini d’occidente di
addormentarsi stringendo qualcosa di morbido.
Non conosce nemmeno l’affetto, né
concepisce che si possa provare nei confronti di un animale.
Davanti a lei c’è soltanto il
solito tavolo sporco; le sue dita gonfie e tagliate separano i vari lembi di
pezza da cucire assieme.
Un grosso contenitore accanto a
lei è colmo di poliestere con il quale dovrà riempire la stoffa che prenderà le
sembianze del cane. Non che Xiwàn sappia veramente di che cosa si tratti; per
lei è soltanto la parte bianca morbida
che va dentro.
Prende le forbici e inizia a
tagliare le sezioni di pezza che serviranno: sono quasi tutte bianche, perché
sa che solo le orecchie dovranno essere nere; quelle e il naso, ma per
quest’ultimo ci sono le palline già pronte, dovrà soltanto cucirla sul muso del
pupazzo a lavoro ultimato. Ne ha una cesta piena all’angolo del suo tavolo da
lavoro.
Quello che si accinge a fare è il
primo peluche della giornata, ma le mani le dolgono già incredibilmente. Non
riesce a ricordare che cosa voglia dire non provare dolore alle mani; non
riposa mai abbastanza per smaltire quello provocato dal lavoro precedente a
quello che svolge.
A fine giornata dovrà averne
confezionati trentadue: due per ogni ora di lavoro, e non è facile creare un
cagnolino di pezza in mezzora, a maggior ragione con le mani doloranti.
Xiwàn, che non capisce il senso
del significato del suo nome, taglia rapidamente i pezzi di stoffa che le
occorrono: due per le zampe di sotto, altri due, più piccoli, per quelle di
sopra, uno grande per il busto e anche uno ancora più grande per la testa. Non
resta altro che il triangolino della coda.
Dalla stoffa nera ricava le due
parti uguali che fungeranno da orecchie.
Improvvisamente, nella luce
troppo fioca per lavorare, nel puzzo d’aria viziata e di marciume, nella
desolazione di tante vite rinchiuse insieme fino a quando non giungerà la fine
di ognuna di esse, la bambina d’oriente inizia a immaginare. È la prima volta
che lo fa sul serio e i suoi pensieri sono nitidi e precisi; la fantasia la
porta a figurarsi l’immagine di un’altra sarta bambina come lei, solo molto più
grande, che taglia i pezzi di pelle per crearla.
Xiwàn si immagina come un pupazzo
che deve prendere forma nelle mani gonfie e tagliate di un’altra schiava. Una
schiava che lavora per un grande padrone.
Vede le forbici della bambina
della sua mente che tagliano la stoffa che costituirà la sua pelle; una stoffa
giallognola e già rovinata: due parti uguali per le gambe, due più piccole per
le braccia, uno grande per il busto, uno tondo per la testa. Non ci sono due
lembi lunghi per le orecchie, com’è invece per il cane, ma solo due piccoli
pezzi prefabbricati, che sembrano quasi ricamati.
Anche il naso è un pezzo già
fatto e andrà cucito all’ultimo momento, a lavoro ultimato.
La bambina-schiava che vive nella
mente di Xiwàn ha accanto a sé un grosso contenitore riempito dal materiale che
costituirà il suo interno: è carne che naviga nel rosso del sangue.
C’è soltanto una cosa che le due
bambine possiedono sul loro tavolo da lavoro di totalmente identico, anche se a
dire il vero cambiano le dimensioni: un cestino pieno di occhi di vetro da
incollare sulla faccia del peluche finito. Occhietti neri, dall’espressione
dolce e immobile.
Xiwàn e la bambina della sua
immaginazione stanno lavorando all’unisono: Xiwàn inizia a riempire la testa e
il busto del cane di poliestere, l’altra bambina riempie il suo busto e la sua
testa di carne sanguinolenta.
Anche l’altra bambina ha male
alle mani.
Xiwàn colma di poliestere anche
le quattro zampe dell’animale fittizio, l’altra bambina inserisce
macchinalmente la carne nelle braccia e nelle gambe. Il suo tavolo da lavoro è
sporco di sangue, quello di Xiwàn è solo impolverato e carico delle ceneri della
sua infanzia rubata.
La bambina d’oriente richiude il
busto del cane riempito di poliestere con il filo bianco, poi vi cuce insieme
le zampe; la bambina della sua mente richiude il busto di Xiwàn con del filo
giallo, poi vi unisce la gambe e le braccia.
Da un lato c’è un cane senza
testa. Dall’altro un corpo di bambina incompleto.
Perché mi costruisci? Chiede la bambina
d’oriente a quella che vede nella mente; quella che lavora sul tavolo rosso di
sangue. Perché è il mio lavoro. Risponde
questa.
Xiwàn non ha
di che replicare, eppure vorrebbe che la schiava del suo sogno lasciasse la
macabra opera a metà. Forse, se la bambina rimarrà incompleta, lei potrà
sparire alla fine di quella giornata.
Ma l’enorme
bambina schiava non si ferma un attimo e ora ha afferrato la testa, ne sta
cucendo insieme i lembi per richiuderla a cerchio con il filo giallo (mentre
Xiwàn fa lo stesso, con quello bianco, per la testa del cane), poi comincia ad
applicarvi sopra dei fini fili neri che andranno a costituire i capelli. Sono
troppo lunghi; alla fine dovrà tagliare quelli in eccesso.
Xiwàn ha
cominciato a operare con il filo nero sulle zampe anteriori e posteriori del
cane di peluche, al fine di creare l’illusione delle dita. L’altra bambina
taglia con cura la pelle di troppo che ricopre le sue mani. Eppure fa in modo
che le dita della bambola – Xiwàn non siano troppo sottili. Alla fine le taglia
anche in più punti.
La bambina
immaginaria conosce molto bene il progetto che deve seguire: sta costruendo una
bambina – schiava che le assomiglia.
La bambina
d’oriente sta ora cucendo le orecchie del cane con il filo nero ed è in
quell’istante che sente l’altra bambina canticchiare.
È una melodia
ossessionante, oscura e demoniaca. La canzone parla di bambini morti e madri
sventrate. Parla di tenebre e infinito. Parla dell’uomo.
Nella mente,
Xiwàn comincia a canticchiare a sua volta.
Tra poco le
orecchie del cane saranno completamente attaccate alla testa; e anche le
orecchie di Xiwàn saranno applicate definitivamente al cranio colmo di carne.
Dopodiché
entrambe le teste saranno cucite insieme ai rispettivi busti, poi sarà la volta
degli ultimi piccoli particolari per rendere il lavoro completo.
Nei due
cestini, quello più grande e quello più piccolo, gli occhi di vetro luccicano tra
le ombre.
Xiwàn vorrebbe
parlare ancora alla bambina della sua mente, ma sa di non poterlo fare; lei
lavora e canticchia la melodia della morte atroce e non può essere interrotta,
così come fa anche lei. Xiwàn cammina su un filo giallo che porta inevitabilmente
al disfacimento; e non c’è modo di tornare indietro, perché al principio di
quel filo c’è soltanto un muro insormontabile: quello della sua nascita, o del
suo destino.
Xiwàn non può
parlare alla bambina della sua mente, ma si concentra a fondo per guardarla
negli occhi. Entrambe hanno adesso finito di cucire le teste sui corpi senza
vita delle rispettive creazioni: un pupazzo che riflette una finta vita da un
lato, un altro che mostra quel che c’è di peggio della morte dall’altro. E
peggio della morte è solo la carne macellata.
Xiwàn guarda
in profondità negli occhi della bambina che continua a canticchiare: anche i
suoi sono occhi di vetro e uno di questi è pesto, proprio come il suo. Anche
lei deve essere stata picchiata dal suo superiore perché una volta ha alzato
gli occhi al soffitto che copre il cielo che non ricorda di aver mai visto. Ma
forse anche lei non è altro che una bambola di pezza costruita, da qualche
parte, da una bambina-schiava più grande.
Ma in quegli
occhi di vetro c’è qualcosa che Xiwàn è certa di non conoscere, eppure riesce a
comprendere.
Le due bambine
cuciono le sopracciglia dei loro pupazzi con del filo nero. La bambina
immaginaria si è fermata un momento poco prima, per attendere che Xiwàn
applicasse la coda al cane con il filo bianco.
La canzone
della bambina della mente prosegue. Ora rivela l’identità dell’assassino dei
bambini e di colui che ha sventrato le madri. Spiega chi è a portare le tenebre
e a volere che siano infinite. Non è l’uomo. Era solo un inganno delle prime
strofe.
Xiwàn incolla
gli occhi di vetro al cane. L’altra bambina incolla gli occhi di Xiwàn alla sua
bambola di pezza e sangue.
Ma gli occhi
di vetro di Xiwàn non sono dolci come quelli del cane. Sono carichi di rabbia e
odio. Come quelli della bambina che l’ha costruita.
Come quelli
della bambina della canzone che la schiava-bambina non vuole smettere di
canticchiare.
È una bambina
dagli occhi di vetro pieni di rabbia e di odio ad aver ucciso tanti bambini
felici; quella stessa bambina ha sventrato le loro madri premurose. Porta con
sé le tenebre e fa in modo che mai cessino. Anche la bambina della canzone ha
un occhio nero ed era stata squarciata tra le gambe.
Gli occhi veri
di Xiwàn assumono quell’espressione di rabbia e odio mentre prende una pallina
nera da cucire alla testa del cane come naso.
Anche la
bambina nella sua mente sta cucendo il naso di Xiwàn.
La bambina
immaginaria lo fa con precisione, come ha fatto con tutti gli altri pezzi.
Xiwàn lascia
il filo nero un po’ allentato.
Non contempla
il peluche completo, ma si limita a lasciarlo cadere nella cesta alla sua
sinistra, quella contenente i giocattoli ultimati. Prende dell’altro
poliestere, dell’altro filo bianco e nero e dell’altra stoffa da tagliare nelle
varie sezioni che avrebbero costituito un nuovo peluche, e inizia a fabbricare
un altro cagnolino di pezza.
La bambina
nella sua mente è sparita, così come la canzone sulla bambina che uccide e
sventra.
**
Il bimbo d’occidente ha perso definitivamente il suo ciuccio mentre
dorme beato nel suo lettino e stringe forte il suo cagnolino di peluche tutto
bianco ma con le orecchie e il naso neri.
Sogna le carezze di sua madre e il seno da cui suggerà il latte al
risveglio.
Il bimbo d’occidente è felice mentre dorme.
Nel sonno, mancandogli il ciuccio, ha cercato qualcos’altro da portarsi
in bocca e il naso nero del cane di peluche gli è parso un ottimo sostituto.
Lo succhia forte mentre sogna il seno gonfio di latte di sua madre;
nemmeno lei si era accorta del filo nero un po’ allentato.
E mentre lo serra forte tra le gengive e lo risucchia nella bocca,
quello stesso filo nero si lascia andare definitivamente e il naso del cane di
peluche di stacca.
Si sa, ai neonati capita spesso che il naso si ostruisca mentre
dormono, così sono costretti a respirare con la bocca. Al bambino d’occidente
basta inspirare poche volte per farsi conficcare nella trachea il naso nero del
cane di peluche.
Nessuno sente i suoi rantoli mentre gli manca l’ossigeno. Nessuno si
accorge che sta soffocando.
Il bambino d’occidente muore perché non riesce più a respirare.
Quando la madre, la donna d’occidente, lo ritroverà senza vita nel suo
lettino la mattina seguente, prenderà un coltello dalla cucina e se lo
sprofonderà nel ventre.
Dall’altra parte del mondo, una bambina con gli occhi di vetro pieni di
odio e rabbia, starà lavorando all’ennesimo peluche destinato a un bambino
d’occidente.
Nella sua mente rigirerà ininterrottamente una canzone che parla di una
bambina che uccide i pargoli e sventra le madri; e forse, questa volta, la
canterà anche un po’ ad alta voce.
25 marzo 2013
*lady in blue*